443 “The Magnificent Ambersons” (Orson
Welles, USA, 1942) tit. it.
“L'orgoglio degli Amberson“ * con Tim Holt, Joseph Cotten, Dolores
Costello
Dopo aver visto ieri “La vera storia
di Quarto potere“ ho concluso l’anno con un (quasi) vero film di
Orson Welles, quello ufficialmente successivo a “Citizen Kane” (in
mezzo ci sarebbe “Journey into Fear”, tit. it. “Terrore sul Mar
Nero” per il quale l’apporto di O. W. è uncredited). Ho scritto
“quasi” in quanto anche questo secondo film con la RKO-Mercury ebbe
i suoi problemi, costò molto, il primo montaggio fu giudicato troppo
lungo e così, approfittando dell’assenza di Welles (in Europa), la
produzione tagliò molte scene accorciandolo di quasi ¾ d’ora e
cambiò il finale (ri-girato da Robert Wise), tanto che al suo
ritorno il registe disconobbe il film. Le parti mancanti si
conoscono solo dalla sceneggiatura definitiva, non esiste più alcuna
immagine.
Questo “The Magnificent Ambersons” affronta vari temi simili a
quelli di “Citizen Kane”, magioni esagerate, potere, presunzione e
arroganza derivante da ricchezza che, anche in questo caso, non è
sinonimo di vera felicità. Le ottime interpretazioni in generale
vengono esaltate dalla fotografia di Stanley Cortez (quello di “The
Night of the Hunter”,1955, tit. it. “La morte corre sul fiume”) e
dalle inquadrature scelte da Welles poco convenzionali per l’epoca
dai piani sequenza alle riprese dal basso. Anche se si resta un po’
con l’amaro in bocca per non poter sapere come terminava la vera
versione di Orson Welles, “The Magnificent Ambersons” merita
senz’altro un’attenta visione.
Singolare la scelta dei titoli di coda "letti" dallo stesso O.W.,
con il regista citato per ultimo (come si è soliti fare nei titoli
di testa)
4 Nomination Oscar (miglior film, Agnes Moorehead non protagonista,
fotografia e scenografia)
IMDb 7,9 RT 91%
442 “RKO 281” (Benjamin Ross, USA, 1999) tit. it.
“La vera storia di Quarto potere“ * con Liev Schreiber, James
Cromwell, Melanie Griffith
Storia molto interessante anche se evidentemente romanzata. Film non
per tutti per il semplice motivo che se non si conosce “Citizen Kane”
e non si ha familiarità con almeno parte dei nomi dei personaggi
presenti (produttori, giornalisti, attori, ...) si perde molto. Si
potrebbe dire che questo è un difetto in quanto si dà per assodato
che gli spettatori possano capire al volo chi è chi.
L’interpretazione di Liev Schreiber, seppur elogiata da molti, non
mi è sembrata granché, certamente meglio di lui hanno fatto una
quasi irriconoscibile Melanie Griffith e (stranamente) Roy Scheider,
ottimi senza alcun dubbio James Cromwell e John Malkovich.
In questo film i cinefili potranno apprezzare tanti dettagli
relativi alla creazione di un film, dalla stesura della
sceneggiatura base a quella definitiva attraverso i tanti
cambiamenti in corso d’opera, dalla scelta delle inquadrature alle
riprese e all’assemblaggio finale. Si svela anche (a chi non se ne
rendesse conto) quanto contino nell’economia generale di un film il
lancio, la pubblicità, i contatti con i giornalisti e la
concorrenza, i “ricatti” che si subiscono e via discorrendo, a
prescindere dall’effettiva qualità del prodotto.
Nel complesso un buon film, ma si resta con il lecito dubbio che la
storia sia stata un po’ troppo romanzata.
IMDb 7,1 RT 92%
441 “Face” (Antonia Bird, UK, 1997) tit. it.
“Criminali per caso “ * con Robert Carlyle, Ray Winstone, Steve
Sweeney
Il soggetto non era niente male ed è a dir poco incredibile come gli
sceneggiatori siano riusciti a renderlo risibile, con pessimi e
abbastanza inutili flashback (ricordi sempre simili troppo
ricorrenti e non fondamentali), dialoghi penosi e scene per niente
plausibili. Comunque anche gli attori e la regista hanno le loro
brave colpe.
Peccato, l’idea era buona. Questo è uno di quei casi in cui si
dovrebbe sperare in un remake (di solito peggiori degli originali)
ma in questo caso non si corre alcun rischio ... impossibile fare
peggio.
IMDb 6,8 RT 42%
440 “Le couperet” (Costa-Gavras, Bel/Fra, 2005) tit. it. “Il
cacciatore di teste “ * con José Garcia, Karin Viard, Geordy Monfils
Preso con un po’ di titubanza, ma la curiosità di guardare qualcosa
di relativamente moderno del regista greco Costa-Gavras ha prevalso.
Quelli almeno della mia età dovrebbero ricordare i suoi ottimi film
di impegno politico come “Z - L’orgia del potere” (1969, 2 Oscar),
“La confessione” (1970) o “L’Amerikano” (1972).
Anche se di tutt’altro genere e non dello stesso livello dei
succitati, “Le couperet” mi ha divertito con la sua trama degna dei
fratelli Coen (che tuttavia l’avrebbero probabilmente sviluppata
meglio).
La storia si dipana fra la dark comedy e il dramma dei
professionisti di mezza età che improvvisamente perdono il lavoro,
incontrano enormi difficoltà a trovarne un altro dello stesso
livello e cadono in depressione accettando eventualmente lavori come
barista o commesso.
Anche se molti eventi sono abbastanza prevedibili, ci sono tante
situazioni inaspettate, colpi di scena e sorprese, fino all’ultima
scena che lascia lo spettatore in sospeso e libero di pensare come
questa si concluderà.
La sceneggiatura, alla quale ha collaborato anche lo stesso
Costa-Gavras, è tratta dal romanzo “The Ax” (1997) di Donald E.
Westlake
Non un film eccezionale, ma senz’altro una piacevole sorpresa.
IMDb 7,4 RT 80%
439 “Notes on a Scandal” (Richard Eyre, UK, 2006) tit. it.
“Diario di uno scandalo“ * con Judi Dench, Cate Blanchett, Andrew
Simpson
Buon film e non poteva essere altrimenti visto il faccia a faccia
fra Judi Dench e Cat Blanchett, due attrici di sostanza, in
particolare la prima, entrambe candidate agli Oscar 2007.
La storia (tratta da un romanzo di successo) è moto semplice ma
assolutamente avvincente, una ossessiva (sebben per molto tempo ben
mascherata) pressione psicologica di un’anziana insegnante su una
nuova arrivata, ma non giovanissima, collega che ha appena iniziato
a insegnare per sfuggire alla routine quotidiana dell’ambiente
familiare. Ben utilizzata la voce fuori campo di Judi Dench che
mette al corrente gli spettatori dei propri (insani) propositi.
Al limite fra dramma e thriller, un film che vale la pena di
guardare.
4 Nomination Oscar (Judi Dench protagonista Cate Blanchett non
protagonista, sceneggiatura, colonna sonora originale)
IMDb 7,4 RT 87%
438 “True Romance” (Tony Scott, USA, 1993) tit. it.
“Una vita al massimo “ * con Christian Slater, Patricia Arquette,
Dennis Hopper, Gary Oldman, Brad Pitt, Christopher Walken
Film in tipico stile tarantiniano, sceneggiato dallo stesso Quentin
Tarantino, ma lungi dall'essere a livello dei migliori usciti dalla
sua "scuderia" (p. e. vari di Rodriguez). Può essere interessane
sapere che è parte di una sceneggiatura molto più lunga, l’altra
parte è stata lo script di base per “Natural Born Killers” (1994).
“True Romance” parte discretamente, si affloscia, si riprende con il
duetto fra Dennis Hopper e Christopher Walken, per poi riperdersi
prima di giungere allo scoppiettante finale splatter. All'epoca,
Scott doveva essere un tipo molto apprezzato a Hollywood, almeno
socialmente, per essere riuscito a coinvolgere tanti attori noti che
certo hanno partecipato più o meno a titolo di amicizia. Oltre i due
succitati Hopper e Walken, appaiono più o meno brevemente altri che
certamente non avrebbe potuto permettersi con il suo budget: Brad
Pitt, Gary Oldman, Samuel L. Johnson, James Gandofini, Tom Sizemore,
...
A tratti divertente e originale, guardabile ma secondo me
sopravvalutato ... non vale il 7,9 di IMDb né il 92% di
RottenTomatoes
IMDb 7,9 RT 92%
437 “Angels with Dirty Faces” (Michael Curtiz, USA, 1938) tit. it.
“Gli angeli con la faccia sporca” * con James Cagney, Pat O'Brien,
Humphrey Bogart
Per Natale ho scelto questo classico di un'ottantina di anni fa con
la strana coppia James Cagney - Bogart Bogart (forse l’unica volta
insieme), diretta da Michael Curtiz. Al fianco delle due icone di
Hollywood degli anni 30-40 c'è Pat O'Brien che, a memoria, non
saprei dire quante volte ha interpretato il ruolo di sacerdote,
certamente varie.
Film fra il noir e il drammatico, con grande messaggio "morale"
conclusivo che, tuttavia, fa perdere credibilità e limita molto le
sue potenzialità. Ottimo il modo in cui, in un'ora e mezza, Curtiz
riesce a raccontare la storia che si sviluppa nell'arco di una
ventina di anni.
3 Nomination (miglior regia, sceneggiatura, James Cagney
protagonista)
IMDb 8,0 RT 100%
436 “Bugsy” (Barry Levinson, USA, 1991) * con Warren Beatty, Annette
Bening, Harvey Keitel, Ben Kingsley, Joe Mantegna, Elliot Gould,
Richard Sarafian (Jack Dragna)
Basato sulla vera storia di Ben “Bugsy” Siegel. il gangster che
“inventò” Las Vegas, almeno quella che si conosce oggi. La trama è
ovviamente romanzata e tratta solo degli ultimi anni di carriera di
Bugsy che, mandato in California dai suoi accoliti newyorkesi, si
stabilì lì e ebbe l’idea di costruire una città nel bel mezzo del
deserto del Nevada.
Leggendo i nomi degli interpreti nei titoli iniziali mi ha colpito
quello di Richard C. Sarafian, che non avevo presente come attore
(qui interpreta il mafioso Jack Dragna) ma ben ricordavo il suo nome
per essere il regista del “cult” del Nuovo cinema Americano "Vanishing
Point” (1971, tit. it. “Punto Zero”, con Barry Newman che interpreta
il mitico Kowalski). Tante sono state le citazioni del film, di
Kowalski e dell’auto, la famosa Dodge Challenger 1970,
“protagonista” di una importante parte di “Death Proof” (di Quentin
Tarantino, 2007). In quel film "Vanishing Point” viene menzionato
più volte e Stuntman Mike (Kurt Russell) indossa lo stesso orologio
di Kowalski.
Film tutto sommato buono, anche se trovo che le caratterizzazioni
dei personaggi siano un po’ eccessive.
2 Oscar (scenografia e costumi), 8 Nomination (miglior film, regia,
sceneggiatura, fotografia, Warren Beatty protagonista, Harvey Keitel
e Ben Kingsley non protagonisti, e non da ultima la colonna sonora
di Ennio Morricone)
IMDb 6,8 RT 85%
Ancora una volta ho accostato due film di genere simile: musical
moderni.
434 “Moulin Rouge!” (Baz Luhrmann, USA, 2001) * con Nicole Kidman,
Ewan McGregor, John Leguizamo
435 “All That Jazz” (Bob Fosse, USA, 1979) * con Roy Scheider,
Jessica Lange, Leland Palmer
Anche se le recensioni, i rating, i
premi, le Nomination e gli Oscar vinti li pongono molto vicini,
trovo che le differenze fra i due sono abissali, quasi tutte a
favore del film di Bob Fosse.
“Moulin Rouge!” è troppo rumoroso, con un montaggio frenetico anche
al di fuori degli spettacoli (dove potrebbe essere più accettabile),
colori e costumi troppo sgargianti, eccessivi, kitsch, musiche
assolutamente in contrasto con il periodo, per lo più brani pop-rock
(mal) adattati come la straziante rivisitazione di “Roxanne”, pieno
di citazioni e scopiazzato da altri lavori (teatrali, letterari,
musicali) e certamente troppo lungo per una trama così debole.
Apprezzabile l’impegno di Nicole Kidman e Ewan McGregor, ma è
evidente che non è arte loro.
Per alcuni versi la trama mi ha fatto tornare in mente “French
Cancan” (diretto da Jean Renoir nel 1955, con Jean Gabin e Maria
Felix) che aveva tutt’altro fascino, era ben ambientato e contava su
una trama e due grandi attori che non ballavano né cantavano,
lasciando il lavoro ad altri professionisti.
In “All That Jazz”, invece, tutto funziona e pur non essendo un
musical “classico” come quelli di Fred Astaire e Ginger Rogers,
tanto per intenderci, si percepisce chiaramente che Bob Fosse sapeva
esattamente cosa volesse fare e lo sapeva fare. A suo vantaggio (e
merito) nei confronti dell’australiano Luhrmann, c’è da sottolineare
che prima che regista e sceneggiatore hollywoodiano, fu lui stesso
ballerino e coreografo e che il film è in buona parte autobiografico
sia per la parte sentimentale e familiare sia per il doppio lavoro
di portare in scena un musical mentre combatteva con il montaggio di
un film (riferimento al suo “Lenny”, 1974, con Dustin Hoffmann,
mentre preparava il musical “Chicago” a Broadway).
Tutti gli interpreti che si esibiscono sul palco in audizioni o
prove sono più ballerini che attori e la cosa si nota nelle varie
ottime coreografie nelle quali non ci si poteva mascherare dietro
costumi coloratissimi e montaggio frenetico.
Del film di Fosse ho anche apprezzato la sceneggiatura con le due
storie parallele e con il lungo confronto Roy Scheider - Jessica
Lange, nonché le ripetizioni delle scene del monologo di Cliff
Gorman sulle 5 fasi della morte.
“Moulin Rouge!” ottenne 2 Oscar (scenografia e costumi) e 6
Nomination (miglior film, Nicole Kidman protagonista, fotografia
sonoro, trucco, montaggio) * IMDb 7,7 RT 76%
“All That Jazz” ottenne 4 Oscar (montaggio, scenografia, costumi e
colonna sonora) e 5 Nomination (miglior film, regia, Roy Scheider
protagonista, sceneggiatura e per la fotografia l’italiano Giuseppe
Rotunno), oltre alla Palma d’Oro a Cannes * IMDb 7,8 RT 85%
433 “Jagten” (Thomas Vinterberg, Dan-Sve, 2012) tit. int.
“The Hunt” - tit. it. “Il sospetto” * con Mads Mikkelsen, Thomas Bo
Larsen, Annika Wedderkopp
Avendo preso nota degli alti rating, della posizione nella
classifica dei migliori film di sempre di IMDb (104°) e avendo molto
apprezzato per la seconda volta il suo “Festen” (primo prodotto
certificato di Dogma 95) , mi aspettavo molto di più da questo film
di Vinterberg. Non posso certo dire che non mi sia piaciuto, ma
trovo esagerate le lodi. Dramma serio ed in linea di massima ben
trattato, con una tensione che monta di continuo, ma con qualche
vuoto di sceneggiatura, troppo presto si capisce dove vada a parare
e il finale, pur avendo il merito di lasciare allo spettatore la
scelta del tiratore, e quindi del motivo dello sparo, è un po’
troppo vago. Bravo Mads Mikkelsen e molto ben diretta la piccola
Annika Wedderkopp, gli altri attori non sono troppo convincenti.
Merita comunque una visione.
IMDb 8,3 RT 94%
* Nominaton Oscar miiglior film in lingua non inglese
* 3 Premi a Cannes e Nomination Palma d’Oro,
al 104° posto nella
classifica IMDb dei migliori film di sempre
432 “Skammen” (Ingmar Bergman, Sve, 1968) tit. int.
“Shame” - tit. it. “La vergogna” * con Liv Ullmann, Max von Sydow,
Sigge Fürst
Ultimo di questa serie di film di Bergman a mia disposizione, non mi
è sembrato all’altezza di quelli visti in precedenza,
sostanzialmente deludente (forse mi ero abituato troppo bene).
La buona regia (come sempre) non riesce a compensare la debolezza
della sceneggiatura, basata su una storia confusa che lascia troppi
punti trattati troppo superficialmente o irrisolti e inoltre la
parte relativa ai tesi rapporti fra i protagonisti (interpretati dai
pur bravi Liv Ullmann e Max von Sydow) è spesso avulsa dai problemi
della supposta guerra civile in corso, con rapidi cambiamenti di
fronte.
IMDb 8,1 RT 83% Nomination Golden Globe come miglior film straniero
431 “Il settimo sigillo” (Ingmar Bergman, Sve, 1957) tit. or. “Det
sjunde inseglet” tit. int “The Seventh Seal” * con Max von Sydow,
Gunnar Björnstrand, Bengt Ekerot
Pur essendo uno dei suoi più famosi, “Il settimo sigillo” è uno dei
film di Bergman che non avevo ancora visto e che ero ansioso di
guardare avendone sempre letto un gran bene ... e non mi ha certo
deluso.
Anche se, come scrissi, ho apprezzato la gestione dei colori in
“Sussurri e grida”, penso che il regista svedese con il bianco e
nero riesca a dire molto di più o almeno a essere più incisivo.
Molto è certo merito della fotografia di Gunnar Fischer (al fianco
di Bergman per una dozzina di film) che in questo ambiente
medioevale, con tanti esterni, fra boschi e spiagge, per quanto cupo
possa essere il film per il tema trattato, riesce a renderlo vivo,
solare. L'uso del bianco e nero è magistrale, con inquadrature
significative, splendidi primi piani dal basso, ombre sapientemente
utilizzate, panorami, riflessi.
Sarei curioso di leggere l’eccellente sceneggiatura in svedese ...
se conoscessi questo idioma. Avendo a disposizione sottotitoli in
varie lingue più o meno conosciute, nei vari casi in cui ho avuto
qualche dubbio in merito alle traduzioni, ho fatto la spola fra le
lingue e i testi non sempre erano congruenti, il che, per argomenti
filosofici-religiosi è un limite non da poco. Ciò non toglie che i
dialoghi siano comunque stimolanti e pur non potendo cogliere alle
perfezione quanto nelle intenzioni di Bergman (autore unico della
sceneggiatura) agli spettatori attenti bastano i semplice input per
spingerli a ragionare e a discutere sui temi centrali del film quali
la morte, religiosità, eternità, esistenza di Dio.
Ottimo film, decisamente ne raccomando la visione.
IMDb 8,2 RT 92%
* Premio speciale della Giuria a Cannes 1957 - Nomination
Palma d’Oro * al 141° posto nella classifica IMDb dei
migliori film di sempre
430 “Una vampata d'amore” (Ingmar Bergman, Sve, 1953) tit. or.
“Gycklarnas afton” tit. int “Sawdust and Tinsel” * con Åke Grönberg,
Harriet Andersson, Hasse Ekman
Drammatica e triste storia di amore e gelosia, in vari momenti un
po’ grottesca, ambientata in un circo itinerante. Molti lo
considerano uno dei migliori film del primo periodo di Bergman, più
o meno ad un terzo della sua filmografia da regista, quando non era
stato ancora scoperto e apprezzato in Europa e poi nel mondo. Un
paio di anni dopo avrebbe cominciato a fare incetta di premi nei
vari Festival europei e concluse la sua carriera con 9 Nomination
Oscar, ma non ne ottenne alcuno se non un premio speciale, l’Irving
G. Thalberg Memorial Award.
“Una vampata d'amore” è una storia di molti contrasti, fra il mondo
del circo e del teatro in generale e fra l’attore ricco potente e
arrogante e la cavallerizza circense, fra la vita di coppia (di
fatto) nel carrozzone e la vita normale (sperata) con moglie e
figli, fra la stabilità e il nomadismo.
Più che buona la regia e la fotografia, la pecca che ho trovato è
nell’esagerazione di alcuni personaggi circensi, che nella loro vita
quotidiana sembra non riescano a liberarsi dal loro ruolo
“artistico”.
Comunque vale la pena di guardarlo con attenzione, pur non essendo
fra le prime scelte di chi vuole conoscere i lavori di Bergman al
quale viene attribuita anche la sceneggiatura (uncredited) del film.
IMDb 7,7 RT 100%
429 “Roma, città aperta” (Roberto Rossellini, Ita, 1945) * con Anna
Magnani, Aldo Fabrizi, Marcello Pagliero
Probabilmente è il più conosciuto dei film di Rossellini ed in
particolare non penso ci sia alcuno che non abbia visto decine di
volte la scena con Anna Magnani che rincorre il camion che porta via
i prigionieri. Non so se effettivamente sia il suo migliore ma,
comunque, i meriti del film derivano molto anche dall'ottima
sceneggiatura di Sergio Amidei (in collaborazione con Federico
Fellini e con interventi solo parziali dello stesso Rossellini) e
dalle convincenti prove di tutti gli interpreti, italiani e
stranieri, e non solo dei due attori più noti (Aldo Fabrizi e la
Magnani).
Tralasciando altri commenti sul film in sé e per sé, mi preme invece
allargare il discorso ai primi film del regista, 6 dei quali su 7
(si esclude il quinto, “Desiderio”, del 1946) sono di solito visti
come due Trilogie assolutamente opposte per contenuti. A ciò sono
giunto dopo essermi imbattuto in alcuni articoli che citavano
l’interessante punto di vista dello storico Aurelio Lepre il quale
sosteneva che Rossellini avesse presentato una generalizzata presa
di posizione della popolazione romana (secondo lui non del tutto
vera e comunque eccessiva) ma soprattutto lo criticava apertamente
per aver cambiato improvvisamente bandiera visto che solo due anni
prima aveva diretto “L’uomo della croce”, terza ed ultimo della
cosiddetta “Trilogia della guerra fascista” di Rossellini, preceduto
da “La nave bianca” (1941) e “Un pilota ritorna” (1942). A
brevissima distanza di tempo a questi tre film seguì la ben più
famosa “Trilogia antifascista” che inizia proprio con “Roma città
aperta” e continua con Paisà (1946) e “Germania anno zero” (1948).
Questa diatriba è tutt’ora in atto ed è facile trovare in rete
articoli e blog di tono assolutamente opposto. Pur non essendo molto
interessato ai temi della guerra, dal punto di vista cinefilo mi
sono incuriosito e non è escluso che conceda una visione alla prima
Trilogia per cercare di notare (se c’è stato) l’evoluzione
tecnica-artistica di Rossellini e quanto la disparità di giudizi fra
la prima (tutti reputati “insufficienti”) e la seconda (tutti
ottimi) sia stata condizionata da visioni strettamente politiche.
Inoltre, si deve sottolineare il pieno coinvolgimento del regista
nei sei film essendo stato co-sceneggiatore di tutti, seppur in modo
diverso. Come curiosità relativa a “Un pilota ritorna” (1942)
aggiungo che lo sceneggiatore ufficiale fu Michelangelo Antonioni e
il soggetto di Vittorio Mussolini, figlio del ben più noto Benito.
Nel ’46 “Roma, città aperta” ottenne il Gran Prix al Festival di
Cannes e l’anno successivo la Nomination all’Oscar per la
sceneggiatura di Amidei e Fellini.
IMDb 8,1 RT 100%
428 “Good Bye, Lenin!” (Wolfgang Becker, Ger, 2003) * con Daniel
Brühl, Katrin Saß, Chulpan Khamatova
Una sagace sceneggiatura ci riporta al periodo di transizione della
caduta del muro di Berlino e dell’unificazione delle due Germanie.
Il protagonista Alex deve mantenere la madre all’oscuro di quegli
avvenimenti epocali per evitarle un possibile shock in quanto
fedelissima del regime della DDR, la Repubblca Democratica Tedesca.
Per raggiungere i suoi per niente facili obiettivi deve anche
convincere sorella, amici e conoscenti a cooperare, perfino creando
falsi notiziari televisivi. Questa parte mi ha ricordato tanto la
divertente successiva commedia americana “Be Kind, Rewind” (di
Michel Gondry, 2008, con Jack Black, Yasiin Bey, Danny Glover) nella
quale, per tutt’altri motivi, i protagonisti ricreavano
amatorialmente tutti i blockbuster dell’epoca. Queste parti di
entrambe i film sono veri e propri omaggi al cinema creativo e pover(issim)o
ma certamente “Good Bye, Lenin!” è di tutt’altra caratura,
confermata dalla Nomination al Golden Globe, 33 premi internazionali
e dall’essere stato scelto come candidato tedesco per gli Oscar.
Sorvolando su alcune esagerazioni (ma si tratta pur sempre di una
commedia), il film è molto arguto, specialmente per chi ricorda
quell’epoca di enormi differenze dai due lati del muro. Ottimo il
finale ... se si coglie la sottigliezza non completamente esplicita.
Forse le due ore, pur passando piacevolmente, sono un po’ troppe.
Comunque merita una visione.
IMDb 7,7 RT 90%
427 “Festen” (Thomas Vinterberg, Dan/Sve, 1998) tit. it.
“Festa in famiglia”, tit. int. “The Celebration” * con Ulrich
Thomsen, Henning Moritzen, Thomas Bo Larsen
Film “storico” in quanto si tratta del primo di quelli prodotti con
i crismi di “Dogma 95”, manifesto redatto e sottoscritto da Thomas
Vinterberg e Lars von Trier il 13 marzo del 1995 a Copenaghen.
Mi piacque quando lo vidi poco dopo la sua uscita e l’ho apprezzato
anche adesso, forse ancor di più della prima visione quando il
giudizio, senza dubbio, fu più influenzato dalla sorpresa e dal
fascino della novità. Come gli altri prodotti dei primi anni della
breve avventura di D.95 (meno di 50 film in 7 anni, ma solo 35
ufficialmente riconosciuti, l’esperienza fu dichiarata conclusa nel
2005) questo è uno dei più canonici in quanto al rispetto, per
quanto possibile, delle 10 regole fondamentali ... pressoché
impossibili da osservare alla lettera (e per questo veniva tollerata
una certa libertà di azione).
Indipendentemente da Dogma 95, sono sempre stato sostenitore della
cinematografia essenziale, semplice, di quella che si distingue per
le inquadrature, profondità di campo, tempi, montaggio e non per
effetti speciali, commenti sonori che anticipano l’azione, luci non
credibili e via discorrendo. Non ricordo da quanto tempo non vedevo
un accendino che emette la luce di un accendino e non illumina a
giorno l’intera stanza! Il crepuscolo ha la luce del crepuscolo e
non c’è la solita luna piena che crea ombre più nette di quelle
della luce solare.
A tutto ciò aggiungete una buona storia (soggetto dello stesso
Vinterberg, che per la sceneggiatura collaborò con Mogens Rukov),
piena di eventi e sorprese, con tanti personaggi ben tratteggiati
nonostante appaiano in poche scene; bravi gli attori, ottime riprese
(tutta camera a mano) e perfetto montaggio.
Budget: 1,3 milioni USD. Lo stesso anno i candidati agli Oscar più
ambiti furono “La vita è bella” 20M, “Shakespeare in Love” 25M,
“Elizabeth” 30M, “La sottile linea rossa” 52M, “The Truman Show” 60M
“Salvate il soldato Ryan” 70M ... con rating un poco migliori o
molto peggiori di “Festen” e di alcuni di essi quasi nessuno si
ricorda.
Come in molti altri campi, i soldi aiutano, ma non sono strettamente
indispensabili. Si possono realizzare ottimi film con relativamente
poco, di livello simile a quelli che costano 20, 30, 50 volte di
più!
IMDb 8,1 RT 92% assoluto 100% fra i
Top Critics * Nomination Golden Globe come miglior film
straniero - Nomination Palma d’Oro e Premio della Giuria a Cannes
’98 e altri 27 premi
APPENDICE: DOGMA 95: nella relativa
pagina Wikipedia in italiano (https://it.wikipedia.org/wiki/Dogma_95)
trovate un sunto indicativo, ma abbastanza reale, della storia del
movimento e un elenco di film ma chiaramente in rete, in particolare
se conoscete altre lingue, potrete trovare un miriade di altri
articoli più approfonditi. Una volta completati, i film venivano
sottoposti al vaglio di una apposita commissione per stabilire se
avessero rispettato “le regole e le intenzioni” del manifesto e solo
allora venivano catalogati ufficialmente con numeri progressivi.
Nell’ultima foto allegata vedete il “CERTIFICATO” NO. 1 relativo a
“The Celebration” (titolo internazionale di “Festen”), inserito fra
i titoli di testa.
426 “Sussurri e grida” (Ingmar Bergman, Sve, 1972) * con Harriet
Andersson, Liv Ullmann, Kari Sylwan
Con tutto il rispetto per la tecnica sopraffina di Bergman,
“Sussurri e grida” mi ha convinto molto meno di altri suoi film, pur
essendo generalmente considerato uno dei suoi migliori. Certo
affascina specialmente la prima parte, girata quasi esclusivamente
in “bianco e rosso” (protagoniste vestite completamente di bianco in
una casa con pareti, pavimenti e arredi rossi), con scene che
terminavano con dissolvenze al rosso, alla quale a metà film si
aggiunge improvvisamente il nero. Brave le interpreti della tragica
storia che, tuttavia, è la parte che mi ha lasciato più perplesso.
Pur sapendo che il modo di pensare e di agire degli scandinavi è in
genere abbastanza diverso dai nostri comportamenti
“mediterranei/latini”, non sono riuscito a farmi coinvolgere né a
comprendere i rapporti a dir poco insoliti fra la domestica, le tre
sorelle (delle quali una malata terminale) e i loro uomini. I
dialoghi sono pochi e troppo criptici per i miei gusti, e non
aiutano né i flashback né il finale quasi surreale. Ma forse sono io
a non essere abbastanza sensibile per calarmi nell’ambiente, nel
dramma, nei (gravi) problemi psicologici di ognuno dei protagonisti
(uomini e donne) e nella loro religiosità, molto lontana dal mio
modo di essere e di pensare.
In conclusione, oltre che abbastanza deprimente, l’ho trovato lento
nonostante la sola ora e mezza di durata ... e badate che non mi
sono assolutamente sembrati lenti i due film di Antonioni (spesso
accusato di esserlo) visti di recente, né quelli di Rivette (e “La
belle noiseuse” durava quasi 4 ore, con pochissima “azione” ...).
Comunque, continuerò a cercare altri film di Bergman a me
sconosciuti o visti oltre 30 anni fa per una visione con altri
occhi.
IMDb 8,2 RT 89%
* Oscar per la fotografia e 4 Nomination (miglior film,
regia, sceneggiatura, costumi)
425 “Il Generale della Rovere” (Roberto Rossellini, Ita, 1959) * con
Vittorio De Sica, Hannes Messemer, Sandra Milo
L’ultimo film di Rossellini che avevo visto, “Viaggio in Italia”
(1954) mi aveva deluso, mi era sembrato troppo “turistico”, con un
eccesso di panorami del Vesuvio, Golfo di Napoli e Capri, alternati
a visite a Pompei, Solfatara, centro di Napoli, e si reggeva pù che
altro sulle interpretazioni di George Sanders e Ingrid Bergman. Con
“Il Generale della Rovere”, di 5 anni successivo, il regista e
co-sceneggiatore (con Indro Montanelli, Diego Fabbri e Sergio Amidei)
torna ai temi della guerra, in particolare di come fu vissuta dai
civili.
Si potrebbe dire che più che la guerra, Rossellini segua
l’evoluzione e la catarsi del protagonista, in effetti anche lui
stesso attore visto che interpretava vari personaggi, molto diversi
fra loro. Al lato di un convincente De Sica, si vedono un sacco di
volti noti (all’epoca) come Ivo Garrani, Vittorio Caprioli, Sandra
Milo, Giovanna Ralli, Franco Interlenghi e, seppur per pochi attimi,
appare lo stesso Rossellini.
Sono molto ben rappresentati vari dei classici dilemmi quali il bene
di tutti contro il sacrificio di pochi e l’amore verso i familiari a
qualunque costo, situazioni che si presentano sempre uguali da
millenni e continueranno a dover essere affrontate da chi si trova
in zona di guerra.
Andrò ore alla ricerca dei primi, più famosi e universalmente
acclamati film di Rossellini come “Paisà” e “Roma città aperta”,
visti solo in tv tantissimi anni fa.
IMDb 7,9 RT 100% * Nomination Oscar per la sceneggiatura originale
424 “Maigret tend un piège” (Jean Delannoy, Fra, 1958) tit. it.
“Il Commissario Maigret”, trad. lett. "Maigret tende una trappola" *
con Jean Gabin, Annie Girardot, Olivier Hussenot
Dopo il noir
americano (moderno) senza infamia e senza lode con Denzel
Washington, ho scelto un classico poliziesco francese degli anni
'50, tratto da un ancor più classico romanzo di Simenon il cui ovvio
protagonista è Maigret, in questo caso interpretato dall'icona Jean
Gabin, e la differenza si nota. Il passo è diverso, suspense,
false piste, indizi e sorprese sono molto meglio distribuiti e il
classico bianco e nero francese avvince molto di più dei colori e
luci talvolta forti (e oserei dire fuori luogo) del noir americano.
Ciò assodato, è
apprezzabile il modo nel quale Simenon mostri un più che probabile
sospetto (quasi certo) solo dopo pochi minuti dall’inizio, per poi
sviare lo spettatore escludendo ipotesi e allargando il numero degli
indiziati fino a giungere ad un conclusivo drammatico confronto.
Bella l’ambientazione e bravi gli interpreti, soprattutto
l’enigmatica Annie Girardot.
Se piace il genere e non lo conoscete, ne consiglio senz’altro la
visione.
IMDb 7,3
423 “Devil in a Blue Dress” (Carl Franklin, USA, 1995) tit. it.
“Il diavolo in blu” * con Denzel Washington, Don Cheadle, Jennifer
Beals, Tom Sizemore
Non un granché ... ha l’originalità di un noir moderno (seppur
ambientato nel 1948, in California) di matrice afroamericana. La
trama, un po’ troppo densa di avvenimenti (e morti), pone quasi
tutti i “neri” dalla parte dei più o meno buoni e i bianchi da
quella dei cattivi. Aggiungete quelli che stanno a metà strada,
politici che concorrono alla carica di sindaco, pedofili, persone
dal grilletto molto facile, storie d’amore, ricatti incrociati e il
protagonista (Denzel Washington) che i guai se li va a cercare e
concorderete che per un’ora e mezza di film è un carico eccessivo.
Mi ha inoltre lasciato perplesso, in un film nel quale si tratta più
volte il tema del razzismo, la rappresentazione della comunità
afroamericana che vive tranquillamente e pacificamente in un
ordinatissimo quartiere con strade larghe adornate con palme, aiuole
perfettamente tenute davanti alle moderne case, macchine moderne e
splendenti e via discorrendo.
Qualche merito glielo riconosco, soprattutto per le fotografia e la
caratterizzazione di alcuni personaggi (altri, come quello di Don
Cheadle, sono quasi ridicoli), ma in linea di massima è appena
sufficiente.
IMDb 6,7 RT 69%
422 “Good Night, and Good Luck” (George Clooney, USA, 2005) * con
David Strathairn, George Clooney, Patricia Clarkson, Frank Langella
Ottimo film che mi ero perso all’epoca della sua uscita, dalla
Premiere al Festival di Venezia 2005 (dove ottenne 5 premi e la
Nomination al Leone d’Oro) alle 6 Nomination Oscar per miglior film,
regia, David Strathairn protagonista, sceneggiatura originale,
fotografia, scenografia (ma non ne ottenne nessuno). Mi ha fatto
pensare a “Spotlight” che proponeva una storia simile, vale a dire
un’inchiesta scottante e delicata che toccava ambienti potenti (e
pericolosi) anche se si trattava di carta stampata e non televisione
e i fatti (reali in entrambe i casi) si svolgevano a circa mezzo
secolo di distanza. Inoltre c’è da dire che nel film, nelle vesti di
attore, c’è anche quel Tom McCarthy che 10 anni dopo avrebbe diretto
“Spotlight” (Oscar come miglior film) e personalmente vinse l’Oscar
per la sceneggiatura (condiviso con Josh Singer) e ottenne la
Nomination per la regia. L’esperienza con Clooney gli sarà
probabilmente servita.
“Good Night, and Good Luck”, la frase con la quale il protagonista
era solito chiudere il suo programma sin da quando era
corrispondente radio da Londra, ha il fascino del bianco e nero e
ben si sposa con i tanti filmati d’epoca (tutti originali) che
vengono inseriti alla perfezione nello sviluppo della trama. In un
film a colori ci sarebbe stato troppo contrasto e non si sarebbe
creata la giusta atmosfera.
I testi delle trasmissioni, discorsi e articoli proposti sono fedeli
agli originali e spesso accompagnati dalle relative date, ciò ne fa
quasi un documentario per la precisione dei dati, pur rimanendo
chiaramente un film molto ben strutturato. Bravi gli interpreti,
piacevoli gli intermezzi musicali jazz dal vivo (si faceva proprio
così), ottima la fotografia e solida la regia di Clooney che nel
film ricopre un ruolo da non protagonista.
Alla fine del film si assiste al discorso che Edward R. Murrow
(interpretato da David Strathairn) fece nel 1958 alla riunione della
RTNDA (Radio-Television News Directors Association) ed il messaggio
di allora è valido ancora oggi, non solo per la televisione ma anche
per internet, in quanto ammoniva di non limitarne l’utilizzo al solo
intrattenimento a discapito dell’informazione, altrimenti non
sarebbe che uno scatolo con fili e luci.
Consiglio a chi, come me, se lo perse all’uscita e non l’avesse
ancora visto di procuraselo (non dovrebbe essere difficile) e
guardarlo con attenzione.
IMDb 7,5 RT 96%
421 “Borat” (Larry Charles, USA, 2006) * con Sacha Baron Cohen, Ken
Davitian, Luenell
Seppur spiritoso,”Borat” è irriguardoso, irrispettoso, in più parti
esagerato e volgare, propone i peggiori aspetti di razzismo,
machismo, omofobia, critica le religioni, deride interi paesi e
culture ... un provocatore al 100%. Tuttavia, non avendo risparmiato
nessuno e nessun soggetto ed essendo sia la storia che il
personaggio chiaramente fuori dalla realtà si è potuto districare
bene da accuse di antisemitismo (oltretutto è lui stesso ebreo),
razzismo, omofobia e maschilismo.
Ci sono anche parti dalla satira più sottile che, secondo me, sono
le migliori in quanto vere, anche se mischiate e mascherate fra
tante inserite quasi esclusivamente per strappare una risata. In
particolare quelle relative al falso perbenismo e al politicamente
corretto ad ogni costo, ridicolizzazioni meglio apprezzate se si
conoscono le più comuni fisime e lo scarso senso dello humor di
molti americani.
Sacha Baron Cohen
interpreta il protagonista oltre ad essere coautore di soggetto e
sceneggiatura, nonché creatore del personaggio Borat. Se
avesse avuto un miglior senso della misura, eliminando qualche
eccesso, avrebbe potuto essere ancor più divertente e piacevole.
IMDb 7,3 RT 96%
* Nomination Oscar per la sceneggiatura non originale.
420 “Caramel” (Nadine Labaki, Lib-Fra, 2007) tit. or. “Sukkar banat“
* con Nadine Labaki, Joanna Moukarzel, Gisèle Aouad
Francamente mi aspettavo di meglio ... probabilmente deve la sua
notorietà al presentare un mondo femminile poco conosciuto in
occidente. Pur non essendo del tutto mal realizzato, trovo che lasci
troppe situazioni in sospeso o non chiarite e che i personaggi delle
quattro “estetiste” (ai quali vanno aggiunti quelli in qualche modo
secondari di Rose a Lili) siano poco analizzati e per niente
approfonditi. Forse, limitandone il numero, la regista-protagonista
Nadine Labaki avrebbe potuto fare di più. Ovviamente i pochissimi
personaggi maschili sono relegati a parti minime e presentati quasi
come delle macchiette.
Classificato come “Comedy, Drama, Romance” l’ho trovato molto più
drammatico (più che altro un po' deprimente) che romantico, con poca
commedia.
IMDb 7,2 RT 92%
419 “Hellzapoppin'” (H.C. Potter, USA, 1941) * con Ole Olsen, Chic
Johnson, Martha Raye
Dopo i due Antonioni - che, sia chiaro, non ho trovato noiosi e
lenti come tanti affermano, ma certamente più “impegnativi” -
cercavo un film molto più leggero e quale scelta migliore se non
ri-godersi questo “nonsense” per eccellenza?!
Hellzapoppin' si ispira ad un movimentato musical di grande successo
a Broadway e, grazie alle maggiori possibilità fornite dai mezzi
cinematografici, lo trasforma in un film molto più caotico ed
esilarante. Non a caso il titolo è divenuto nome comune, con il
significato di “situazione fuori controllo, rumorosa, allegra,
confusionaria, ecc” e gli autori se ne rendevano ben conto tanto da
aggiungere questo cartello: “Ogni similitudine fra Hellzapoppin' e
un film è puramente casuale”. E si può affermare che è assolutamente
vero in quanto, oltre alle tante scene e personaggi
irreali/surreali, si passa continuamente da un film proiettato, ad
un musical teatrale, da un film in fase di realizzazione, alle
prove, alla sala con spettatori che interagiscono con gli attori, il
tutto interrotto da chi deve recapitare una pianta a tale "Miss
Jones!" e da una signora che cerca disperatamente il suo “Oscar!".
Il film chiaramente divenne ben presto un cult, non esistendo
prodotti simili e oltrepassando anche i nonsense dei fratelli Marx
che avevano spopolato nel decennio precedente. Secondo me è
imperdibile e da rivedere se sono passati vari anni dalla precedente
visione
IMDb 7,6
417 “L'avventura” (Michelangelo Antonioni, Ita, 1960) * con Gabriele
Ferzetti, Monica Vitti, Lea Massari
* IMDb 8,0 RT 95%
418 “Deserto rosso”
(Michelangelo Antonioni, Ita, 1964) * con Monica Vitti, Richard
Harris, Carlo Chionetti * IMDb 7,7 RT 100%
Dopo i due film di Kaneto Shindô, eccomi a due film di Antonioni,
primo e ultimo della cosiddetta “tetralogia dell'incomunicabilità”
(in mezzo ci sono “La notte”, 1961, e “L'eclisse”, 1962). Pur
essendo accomunati dal taglio sociale e psicologico tanto amato da
Antonioni, i film mi sono apparsi molto diversi, estremamente
lontani nella forma. Del primo ho apprezzato molto la sceneggiatura
ma non la messa in scena, con molti interpreti assolutamente poco
convincenti, troppi riferimenti a luoghi specifici incongruenti (e
oltretutto pressoché inutili ai fini dello sviluppo della trama) e
quasi nessuna scena o inquadratura mi è sembrata degna di
particolare nota. Al contrario, del secondo mi hanno particolarmente
entusiasmato sia le scelte scenografiche (nella quasi sempre deserta
e brumosa area industriale/marittima), i pochi colori inseriti ad
arte fra la nebbia e i fumi sullo sfondo del grigiore di edifici e
strutture metalliche, sia la tecnica di ripresa con tante sfocature
totali e minime profondità di campo, sia la composizione delle
inquadrature, molte delle quali “tagliate” da oggetti come tubi,
gru, spigoli e via discorrendo. Ma, ancora opposto a “L'avventura”,
ho trovato la sceneggiatura meno efficace e una Monica Vitti
stavolta molto più brava e convincente in un ruolo difficile, aveva
oltretutto di fronte un “pesce lesso” (Richard Harris, assolutamente
inespressivo, sia col volto che con il corpo) chissà perché pescato
oltreoceano.
Fra i temi ricorrenti che si trovano nelle rispettive sceneggiature
(dello stesso Antonioni, coadiuvato da Tonino Guerra) mi sembra sia
interessante il notevole peso dato al facile oblio e alla
volubilità, talvolta più dannosi dell’incomunicabilità, tema
“ufficiale” della tetralogia.
Sapendo di andare (forse) controcorrente, devo dire che in entrambe
ho trovato delle ottime qualità, ma non ho certo visto due
film-capolavoro come molti li definiscono.
415 “Onibaba” (Kaneto Shindô, Jap, 1964) tit. it. “Onibaba - Le
assassine” * con Nobuko Otowa, Jitsuko Yoshimura, Kei Satô IMDb 8,0
RT 83%
416 “Kuroneko” (Kaneto Shindô, Jap, 1968) tit. or.
“Yabu no naka no kuroneko” * con Kichiemon Nakamura, Nobuko Otowa,
Kei Satô IMDb 7,8 RT 100%
Questi due horror degli anni ’60
sono sicuramente i film più conosciuti di Kaneto Shindô, i suoi
migliori secondo Rotten Tomatoes. Nel cinema giapponese ha avuto un
posto di rilievo soprattutto come sceneggiatore, maturando all’ombra
di Kenji Mizoguchi; solo successivamente iniziò a dirigere e
continuò a farlo fino alla morte (a 100 anni), secondo solo al
portoghese Manoel de Oliveira che diresse il suo ultimo film a 104
anni per poi morire a 106.
Entrambi i film hanno ambientazione storica, all’epoca delle
infinite guerre e dei samurai, ma non ci sono combattimenti anche se
si parla molto di battaglie e fra i protagonisti ci sono vari
reduci. Le storie si sviluppano in ambiente rurale e in entrambe i
casi i personaggi principali sono due donne che devono sopravvivere
come possono essendo rimaste sole a seguito della coscrizione degli
uomini di casa.
Un ulteriore parallelo fra i due film sono le lunghe carrellate e
riprese dall’alto dei protagonisti che corrono in distese di alte
graminacee in Onibaba e una foresta di bambù in Kuroneko (e qui mi è
sorto il sospetto che per “La foresta dei pugnali volanti” Yimou
Zhang abbia preso spunto da questo film o abbia voluto omaggiare
Kaneto Shindô).
La regia è ottima per entrambi i film così come eccellenti sono le
riprese che alternano sapientemente campi lunghi e primi piani, con
un bel bianco e nero anche se le luci che improvvisamente rompono le
tenebre sono spesso abbastanza irreali.
Suggerisco di guardarli a distanza ravvicinata.
414 “Florence Foster Jenkins” (Stephen Frears, USA, 2016) tit. it.
“Florence” * con Meryl Streep, Hugh Grant, Simon Helberg
Temevo di peggio ... questo era uno dei pochissimi film con almeno
una Nomination Oscar 2017 nelle categorie principali che non avevo
ancora visto. Non sono un fan di Meryl Streep anche se riconosco che
nella sua carriera ha offerto interpretazioni più che buone (del
resto le 20 Nominaton dalle quali sono arrivati 3 Oscar non possono
essere tutte frutto di raccomandazioni, imbrogli, mancanza di serie
concorrenti, ecc.) e neanche Hugh Grant mi è troppo simpatico,
tuttavia entrambe si distinguono nei rispettivi ruoli non facili. La
sorpresa del film è Simon Helberg, che interpreta il simpaticissimo
pianista Cosmé McMoon.
Il fatto tragicomico è che i fatti narrati nel film sono molto
vicini alla realtà e gli spettatori si trovano dinanzi al dilemma se
apprezzare chi sostiene in ogni possibile modo una che non si rende
conto di essere assolutamente incapace o biasimare gli stessi per
averle permesso di spingersi troppo oltre, fino a cantare al
Carnegie Hall di New York! Nel complesso il film può essere quindi
letto sia come una commedia che come una tragedia.
Ben realizzato, con buone scenografie e costumi, non è memorabile ma
almeno non c si pente di averlo guardato.
IMDb 6,9 RT 92% 2 Nomination (Meryl Streep protagonista e costumi)
413 “Eraserhead” (David Lynch, USA, 1977) tit. it.
“La mente che cancella” * con Jack Nance, Charlotte Stewart, Allen
Joseph
Film di esordio di Lynch, quasi un lavoro di tesi (sviluppato in ben
5 anni), girato in un bianco e nero “sporco”, in stile molto simile
a quello dei muti, con pochi e brevi dialoghi, soggetto fra
l’onirico ed il surreale. In precedenza si era cimentato solo in
corti, il lungometraggio successivo sarebbe stato “The Elephant Man”
(1980, 8 Nomination Oscar).
Sulla padronanza del mezzo cinematografico penso ci sia poco da
discutere, ma il pubblico resta spesso disorientato dalle storie
raccontate da Lynch, autore delle sceneggiature dei suoi soli 11
lungometraggi con l’unica eccezione di “The Straight Story” (1999).
In particolare in “Eraserhead” ha inserito tanti eventi, personaggi
e situazioni non chiarite, lasciando agli spettatori ampia libertà
di interpretazione. Chi è l’uomo che muove le leve e dove si trova?
Come si producono/riproducono gli abnormi esseri al centro della
storia? Qual è il vero ruolo/significato della nonna (?)? Qual è il
significato delle immagini iniziali? Che dire del negozio dove il
ragazzo vende la testa? e si potrebbe continuare all’infinito sia ad
elencare che a discutere di ciascun elemento senza - ovviamente -
venire a capo di niente!
Un film unico nel suo genere, che si dovrebbe guardare
“coscientemente”, nel senso che si deve avere almeno una vaga
conoscenza di Lynch e sapere e che cosa si va ad assistere. Dopo il
film gli argomenti di discussione non mancheranno di certo!
IMDb 7,4 RT 91%
PS - Mi sono imbattuto in una
interessante nota che spiegava come sia il ricorrente sibilo (come
quello di un forte vento) che “the Man in the Planet” siano ispirati
a “Glen or Glenda” (1953, primo lungometraggio di Ed Wood, il
peggior regista di tutti i tempi), uno dei film preferiti da Lynch.
Di Ed Wood e della sua collaborazione con Bela Lugosi parlai tempo
fa ed ora sono ansioso di mettere mano alla visione di 5 dei suoi
film (già recuperati, rating di IMDb fra 3,3 e 4,2 ... su 10) a
cominciare proprio da “Glen or Glenda”. Cosa avrà conquistato Lynch?
Il fascino dell’orrido?
412 “Assassinio sull’Orient Express” (Kenneth Branagh, USA, 2017) *
con Kenneth Branagh, Johnny Depp, Willem Dafoe, Judi Dench, Penélope
Cruz
Dopo la lunga camminata del giorno prima e vista la nuvola che
oscurava il sole pur non minacciando pioggia (che in tanti qui
vorrebbero) ieri pomeriggio ho deciso di andarmi a rilassare
guardando un film leggero, con uno script certamente buono (di
Agatha Christie), ma a leggere i commenti non troppo promettente. Ed
è stato proprio così, buona storia con tanti attori di fama, ma nel
complesso resta un "giallo" di serie B (questo film, non il libro).
Remake della già famosa versione cinematografica del 1974 (regia di
Sidney Lumet, Oscar a Ingrid Bergman e 5 Nomination) la storia
essenziale segue inevitabilmente il racconto dell'omonimo romanzo di
Agatha Christie ma Branagh, secondo me, ha voluto ricamarci troppo
su, a cominciare dal pressoché inutile e abbastanza insulso
preambolo a Gerusalemme. Il regista shakespeariano non solo dirige
il film ma interpreta anche il baffuto detective belga Hercule
Poirot, protagonista assoluto di tanti gialli della Christie,
facendolo diventare più alto, snello, atletico e giovane. Le lacune
e inesattezze sono tante, troppe ed evidenti, e la volontà di
spettacolarizzare non è una giustificazione valida. Gli enormi
vagoni del treno (che mentre sfreccia in paesaggi innevati somiglia
tento al Polar Express, 2004), la galleria che si “allarga” tanto da
ospitare un tavolo “stile ultima cena” di traverso, stazioni in
mezzo al niente e poliziotti jugoslavi di colore sono fatti che
saltano agli occhi.
Uno stuolo di attori rispettabili non è sufficiente per realizzare
un buon film ...
IMDb 6,8 RT 58%
411 “Coffee & Cigarettes” (Jim Jarmusch, USA, 2003) * con Bill
Murray, Tom Waits, Roberto Benigni, Iggy Pop, Steve Buscemi, Cate
Blanchett, Alfred Molina, Steve Coogan, GZA e RZA (giusto per
menzionare i più conosciuti)
Non è un film a episodi, anche se qualcuno così lo classifica, bensì
una raccolta di 11 short girati in tempi diversi da Jim Jarmusch,
con vari suoi amici, fra i quali ci sono attrici, attori e musicisti
più o meno conosciuti. Anche se il filo conduttore / tema comune è
l’accoppiata caffè e sigarette, non in tutti ciò avviene. Inoltre ci
sono temi secondari ricorrenti come parenti (gemelli, fratelli e in
un paio di occasioni cugini, nel 7° Cate Blanchett interpreta
entrambe le cugine) o battute ripetute in sketch differenti.
Chiaramente, con questa struttura, ci sono episodi più divertenti e
altri che appaiono insensati e questa distinzione è oltretutto molto
soggettiva. Ci sono personaggi molto ben ritratti come il cameriere
troppo zelante o il tipo assillante che si vuol far raccontare i
problemi personali dell’amico (che per sua fortuna non ne ha) e i
due anziani italoamericani (molto ben interpretati dai caratteristi
Joseph Rigano e Vinny Vella). Se si conoscono gli attori e musicisti
che interpretano sé stessi certamente si può avere una chiave di
lettura molto differente, probabilmente, si apprezzerà molto di più
il film.
In sostanza, è un vero e proprio divertissement e come tale va
considerato.
IMDb 7,4 RT 68%
410 “2046” (Kar-Wai Wong, HK, 2004) * con Tony Chiu-Wai Leung, Ziyi
Zhang, Faye Wong, Carina Lau, Li Gong
Questa micro-recensione sarà perfino più breve del solito in quanto
“2046” rientra alla perfezione nel commento di carattere generale
che segue.
Per ciò che riguarda la storia in sé, ancora una volta WKW propone
pochi personaggi che si trovano e si lasciano, amori travagliati e
solitudine, con l’accompagnamento di ottima musica e considerazioni
socio-filosofiche... sempre e comunque nel suo eccelso stile.
Avendo visto i primi 8 film degli 11 che WKW ha finora diretto
nell'arco di 25 anni, posso tirare le somme ed esprimere una mia
opinione complessiva.
Trovo che sia uno dei migliori registi attualmente in attività, con
una straordinaria capacità di gestione di luci, colori e
inquadrature, vanta una sintassi e grammatica filmica pressoché
perfetta e sa sempre completare il prodotto con musiche coinvolgenti
e oggettivamente affascinanti.
Tuttavia, a mio parere, anche lui ha il suo tallone d'Achille: le
sceneggiature. Le sue storie (è autore dei soggetti e sceneggiature
dei suoi film) non mi coinvolgono, i protagonisti non mi
appassionano, i dialoghi non sempre sono all'altezza della grande
qualità delle immagini. Potrei riguardare ognuno dei suoi film più e
più volte, in lingua originale, senza sottotitoli, non capirei
niente di ciò che si dice ma sono certo che rimarrei incantato
comunque dalle sequenze di immagini e, forse, me le godrei ancora di
più non essendo “distratto” da parole proferite e/o scritte.
IMDb 7,5 RT 86%
409 “Wonder” (Stephen Chbosky, USA, 2017) * con Jacob Tremblay, Owen
Wilson, Izabela Vidovic
Discreto film che gode di buona fama, secondo me molto oltre i suoi
reali meriti. Mantiene le promesse e non delude le aspettative, non
è troppo lacrimevole, né calca troppo la mano sull'inevitabile (gli
ignoranti sono tanti e si trovano dovunque) bullismo, riesce a
proporre il piccolo Auggie come ragazzo "normale", a dispetto dal
suo aspetto quantomeno "insolito". Tratta il tema della diversità
esteriore in modo garbato e bilanciato senza lanciarsi in crociate
senza senso e senza proporre situazioni limite, esagerate.
Ovviamente c’è tanta morale buonista ed il finale (come molte altre
cose nel corso del film) è scontato.
Interessante la prima metà nella quale Chbosky mostra le diversità
di punti di vista di una medesima situazione da parte di 4 dei
giovani protagonisti.
Jacob Tremblay (apprezzato in “Room”, 2015) interpreta Auggie grazie
ad un pesante ma ben realizzato trucco ed è affiancato da un nutrito
gruppo di giovani attori che si difendono più che bene. Al
contrario, una palla aI piede si rivelano essere i genitori,
interpretati da un inespressivo Owen Wilson e dall’altrettanto
scialba Julia Roberts che neanche stavolta riesce a dimostrare di
essere un’attrice (personalmente non l’ho mai apprezzata),
oltretutto sono assolutamente poco credibili come coppia.
Leggendo fra le righe della sceneggiatura (tratta da un romanzo di
R.J. Palacio) si possono trovare anche tanti altri spunti di
“critica sociale” come ricchi/poveri, razzismo, ambizione e
competitività, valore dell’aspetto anche nell’abbigliamento (...
troppa carne a cuocere), nessuno dei quali è tuttavia è
approfondito, neppur minimamente.
Prodotto ben realizzato, sopra la media dei film per famiglie, ma
certamente non vale gli attuali rating che, prevedo, scenderanno.
IMDb 8,1 RT 85% (voto medio 7)
408 “As tears go by” (Kar-Wai Wong, HK, 1988) tit. or.
“Wang Jiao ka men“ * con Andy Lau, Maggie Cheung, Jacky Cheung
Opera prima assoluta di WKW (anche i suoi corti sono successivi)
nella quale si nota chiaramente che è ancora “acerbo”, ma allo
stesso tempo sono già evidenti, seppur in nuce, alcuni aspetti del
suo modo di muovere la macchina da presa e comporre l’inquadratura,
nonché l’attenzione ai colori. Molti l’hanno associato a “Mean
Streets” (di Scorsese, 1973) per le tante similitudini nella trama,
ma non si può certo parlare né di remake né di semplici citazioni.
Il film non è che mi abbia entusiasmato, anzi l’ho trovato un po’
noioso, ripetitivo e inconcludente, assolutamente distante dal film
di Scorsese, uno dei suoi migliori. I numerosi pestaggi rasentano il
ridicolo per come vengono presentati e ancor più incredibili sono i
minimi “danni” causati e le successive rapidissime e miracolose
guarigioni. Anche i comportamenti dei protagonisti lasciano molto
perplessi.
Con un po’ di “cattiveria” mi preme sottolineare che quasi tutti
quelli che hanno parlato bene di questo film l’hanno fatto ben
dentro il corrente secolo ... avrebbe fornito gli stessi giudizi se
non avessero visto almeno alcuni degli acclamati film di WKW come
"Days of Being Wild”, “Ashes of Time”, “Chungking Express”, “Fallen
Angels”, “Happy Together”, “In the Mood for Love” e “2046”?
IMDb 7,2 RT 86%
407 “Ashes of time” (Kar-Wai Wong, HK, 1994) tit. or.
“Dung che sai duk” trad. lett. “Ceneri del tempo” * con Leon Lai,
Michelle Reis, Takeshi Kaneshiro
Continuando a visionare la filmografia di WKW, eccomi giunto a
questo quasi wuxia che si rivelò un impegno gravosissimo per il
regista. Si deve necessariamente sottolineare che ne esistono due
versioni ben distinte e, stranamente, quella “redux” del 2008 è più
breve dell’originale di circa 7 minuti (di solito con i director’s
cut accade il contrario). Io ho guardato quella lunga dalla quale, a
quanto ho letto, sono poi state tagliate varie scene di
combattimenti. Oltre a ciò, pare che nella versione redux Kar-Wai
Wong abbia apportato lievi modifiche al montaggio e abbia rieditato
colonna sonora e, soprattutto, i colori, caricando molto i gialli e
i verdi. Le riprese esterne (fotografia diretta dall’australiano
Christopher Doyle che conta ben 7 collaborazioni con WKW oltre a
film come “Hero”) le ho trovate già spettacolari di per sé, posso
immaginare cosa siano poi diventate con i dovuti ritocchi. Un’idea
l’ho avuta guardando alcune foto reperite in rete (allegati alcuni
esempi).
Come al solito ci sono più storie e non solo un’unca semplice trama,
quasi tutti i protagonisti sono dei “solitari”, i temi ricorrenti
oltre alla solitudine sono legati ai ricordi e alla memoria. In
merito a ciò WKW (anche sceneggiatore adattando il romanzo di Louis
Cha “"The Eagle Shooting Heroes") ha incluso nei dialoghi molti
pensieri e considerazioni quasi filosofiche estremamente
interessanti.
Visivamente affascinante, la parte che meno mi è piaciuta è
ovviamente quella dei vari combattimenti esagerati e risibili.
Spinto dalla curiosità di apprezzare i colori editati, forse
guarderò anche la versione redux non rimpiangendo certo le scene
tagliate (di combattimenti).
IMDb 7,1 RT 80%
406 “Fallen Angels” (Kar-Wai Wong, HK, 1995) tit. or. “Do lok tin si”
tit. it.
“Angeli perduti” * con Leon Lai, Michelle Reis, Takeshi Kaneshiro
IMDB lo classifica
come “Crime, Drama, Romance” ma io aggiungerei senz’altro “comedy”,
specialmente per il segmento del muto quasi folle. Anche
questo film di WKW è visualmente affascinante e rispetto ad altri ha
la particolarità di varie alternanze colore / bianconero sgranato,
scene rallentate e accelerate. A ciò si aggiunga l’uso diffuso del
grandangolo, sfocature, colori forti, interni variopinti, primissimi
piani e veloci movimenti di macchina con immagini conseguentemente
mosse e i soliti spazi quasi per definizione affollati mostrati
deserti (stazioni, stadio, vagone di metropolitana,...).
Anche in mancanza di grandi soggetti, Kar-Wai Wong riesce comunque a
produrre film che affascinino gli spettatori attenti.
Senza dubbio è da guardare, ma focalizzando l’interesse più sulle
accattivanti immagini che sulle due storie e sui dialoghi, peraltro
abbastanza ridotti.
IMDb 7,7 RT 100%
PS - Guardando questi 3 film di WKW
in tempi ravvicinati, ho notato che in tutti (pur non essendo
un’azione realmente funzionale ai fini delle storie) c’è sempre
qualcuno che si affanna a pulire, lucidare, sfregare pavimenti,
ripiani, vetri ... Dovrò effettuare una ricerca per capirne di più.
405 “Chungking Express” (Kar-Wai Wong, HK, 1994) tit. or. “Chung
Hing sam lam” tit. it.
“Hong Kong Express” * con Brigitte Lin, Takeshi Kaneshiro, Tony
Chiu-Wai Leung
Rispetto alla qualità standard dei film WKW, questo mi ha deluso un
po’ sia per la mancanza di una degna colonna sonora (alla quale ci
ha abituati) sia per la pochezza della storia, oltretutto divisa in
due parti quasi del tutto avulse l’una dall’altra.
Per fortuna non ha perso il suo linguaggio cinematografico, nel
senso stretto della parola, e quindi è un piacere seguire le sue
acrobazie fra riflessi, specchi, sfocature, rifrazioni con
conseguenti moltiplicazione di immagini, minime profondità di campo,
angoli di ripresa originali, montaggi rapidi al momento opportuno.
I personaggi sono ancora una volta al limite della realtà e
sostanzialmente soli ... fa eccezione il serafico ristoratore.
Quindi non fra i migliori ma resta comunque un prodotto d’autore.
IMDb 8,1 RT 90%
404 “Days of being wild” (Kar-Wai Wong, HK, 1990) tit. or.
“Ah fei zing zyun” * con Leslie Cheung, Maggie Cheung, Andy Lau
Questo secondo lungometraggio di Kar-Wai Wong mi è piaciuto come gli
altri, per le ottime prospettive, punti di vista, cambi di fuoco,
tempi, luci e inquadrature in genere, per non parlare dei pochi
pezzi musicali di sottofondo, scelti con maestra e gusto.
Ascoltate la
musica che accompagna i titoli di testa.
Ciò che, al contrario, non ho digerito tanto è la storia, lontana
dal senso comune, spesso deprimente per mostrare persone
estremamente sole che invano si aggrappano ad altre, scegliendo
sempre quelle sbagliate. Non per niente sono pochissime le scene
nelle quali compaiono altre persone oltre alla mezza dozzina di
protagonisti.
Film affascinante che merita senz’altro la visione, nonostante gli
“insopportabili” i personaggi.
IMDb 7,6 RT 93%
403 “Night Train to Lisbon” (Bille August, Ger, 2013) * con Jeremy
Irons, Mélanie Laurent, Jack Huston, Charlotte Rampling, Bruno Ganz,
Christopher Lee
Metto subito il dito nella piaga ... un film partito molto bene si
guasta strada facendo con molte pecche e lacune, e si rovina del
tutto con un "sonoro" insulso, in gran parte pessimo. Ho guardato la
versione inglese che, a leggere IMDb, è quella ufficiali del film.
Il cast è molto variamente assortito, con attori inglesi, tedeschi,
svedesi, portoghesi, quindi di madre lingua molto diversa e tutti
parlano in inglese, ognuno con il proprio (abbastanza evidente)
accento di origine. Pur vantando molti di loro una lunga e onorata
carriera alle spalle (scorrete i nomi del cast) il film diventa una
specie di torre di Babele oltretutto insensata visto che la storia
inizia a Berna ma si sviluppa quasi interamente a Lisbona. Il prof.
Raimund Gregorius (Jeremy Irons), svizzero, dovrebbe essere l'unico
non portoghese e parla un perfetto inglese con tanti locali che non
hanno difficoltà a dialogare di argomenti assolutamente non banali
con un altro inglese, grammaticalmente perfetto, ma con accenti
stranissimi. Almeno si sarebbe dovuto optare per un cast portoghese
che parlasse un decente inglese (e la loro inflessione sarebbe
caduta a pennello) o tutti attori che avessero poco accento, come se
fosse un doppiaggio.
Il professore in questione in modo assolutamente imprevedibile viene
in possesso di un piccolo libro biografico che, oltre a
considerazioni filosofiche e morali, descrive una serie di
avvenimenti degli anni della dittatura di Salazar e quindi si reca a
Lisbona per tentare di ricostruire quelle drammatiche vicende
cercando tracce dei reali protagonisti sopravvissuti. Riuscirà ad
incontrarne alcuni per fortuna, altri facilmente, ma non tutti sono
disposti a svelare i loro segreti. Fra racconti e “interviste” il
film procede con continui salti temporali fra presente ed anni '70,
con attori diversi per ciascun personaggio considerati i circa 40
anni di differenza.
Il soggetto in sé è più che buono, ma ho trovato la messa in scena
abbastanza scadente in quanto in vari punti passa improvvisamente
dalla narrazione storica all'esagerato, dal drammatico credibile a
quello molto poco plausibile ... oltre al già commentato problema
linguistico.
Forse, in un caso come questo, guardare il film effettivamente
doppiato suonerebbe meno strano ...
In questo bailamme di pro e contro, alti e bassi, è ovvio che, pur
avendone le potenzialità il film non va molto oltre la mera
sufficienza. Peccato ...
IMDb 6,8 RT 44%
402 “Paris nous appartient” (Jacques Rivette, Fra, 1961) * con Betty
Schneider, Giani Esposito, Françoise Prévost
Eccellente sceneggiatura per oltre il 90% del film, con una serie di
dialoghi e incontri in qualche modo connessi fra loro, paragonabile
ad un lunghissimo piano sequenza. Ci sono due fili conduttori che
corrono quasi paralleli: la comprensione dei motivi del suicidio
(non certo) di tale Juan e ricerca di un nastro sul quale è
registrato un suo assolo di chitarra. La studentessa Anne
casualmente viene a conoscenza di ciò grazie al fratello che la
introduce in un ambiente “alternativo” parigino composto da
esiliati, attivisti, teatranti, studenti stranieri e pensatori, e
s'incaponisce in questa doppia ricerca coinvolgendoli quasi tutti.
Molti di loro, tuttavia, sembra che nascondano grandi segreti e
tentano di dissuaderla in quanto, a loro detta, se svelati
potrebbero avere gravi conseguenze.
Film complicato e misterioso, ma affascinante, nel quale in alcuni
momenti è difficile ricordare immediatamente chi è legato a chi ed
in che modo, data la serie di intrecci in continua evoluzione.
Come anticipato, ciò è valido per la gran parte del film, ma il
finale mi ha lasciato alquanto perplesso, preferendo una conclusione
drastica accompagnata da un quasi proclama ad una più elaborata e
varia.
Questo fu il primo lungometraggio di Jacques Rivette che, dei 5
registi ritenuti i fondatori della Nouvelle Vague (con Truffaut,
Godard, Chabrol e Rohmer), è stato certamente il meno prolifico e
quello che ha mantenuto un suo stile personale e al di fuori degli
schemi anche nei decenni successivi.
Anche con il finale per me deludente, “Paris nous appartient” mi è
piaciuto molto. Lo consiglio.
IMDb 6,9 RT 92%
401 “The Human Condition I: No Greater Love” (Masaki Kobayashi, Jap,
1959) tit. or.
“Ningen no jôken I”, tit. it. “Nessun amore è più grande” * con
Tatsuya Nakadai, Michiyo Aratama, Chikage Awashima
Primo dei tre film (ognuno di oltre 3 ore) con i quali Kobayashi ha
portato sullo schermo il romanzo autobiografico di Junpei Gomikawa
“Ningen no jōken” (1958), nel quale l’autore è molto critico a
riguardo della politica (soprattutto bellica) del Giappone nella
prima metà del secolo. Il romanzo fu un best-seller con quasi 2
milioni e mezzo di copie vendute nei primi tre anni ma per Kobayashi
non fu facile trovare finanziatori per i film che poi si rivelarono
anche loro di successo.
Questa primo elemento della trilogia si svolge praticamente tutto in
un campo di prigionia in Manciuria, dove sono alloggiati migliaia di
cinesi (civili e militari) costretti a lavorare in una miniera di
carbone. Il giovane idealista Kaji viene inviato a dirigere un
settore dei lavoratori (forzati), normalmente trattati in modo
brutale, e lì dovrà tentare di mettere in pratica le sue teorie
umanitarie per dimostrare che trattando meglio i prigionieri si
migliora anche i loro rendimento. Ovviamente le cose non sono così
semplici in quanto gli altri dirigenti non sono del tutto d’accordo
(e spesso neanche sua moglie che lo ha accompagnato), i
rappresentanti dei prigionieri fanno il doppio gioco e, seppur
saltuariamente, ci sono interventi repressivi della polizia
militare.
L’eccellente fotografia bianco/nero (2.35:1) e la sapiente regia di
Kobayashi ne fanno un ottimo film, con il limite della durata
(2h21’) e, per qualcuno, dell’essere “giapponese”, stile che non
tutti apprezzano.
IMDb 8,6 RT 89%
400 “Dear Frankie” (Shona Auerbach, UK, 2004) *
con Emily Mortimer, Jack McElhone, Gerard Butler
Shona Auerbach è una cineasta molto singolare, in origine fotografa,
è stata sia regista che direttore della fotografia di questo film
(inusuale combinazione) che oltretutto è al momento ancora l’unico
suo lungometraggio, sia in una veste che nell’altra. Solo adesso,
dopo 14 anni, sembra che un secondo film (Grace and Beauty) sia in
fase di pre-produzione.
Leggendo l’argomento, ci si potrebbe aspettare un film melenso,
lacrimevole e pieno di luoghi comuni e invece mantiene un ottimo
livello per tutta la durata e nell’ultima parte non mancano sorprese
e colpi di scena. Film “delicato” eppure profondo, ben interpretato,
ben diretto.
Resta il rammarico (e il mistero) per il fatto che questo sia un
pezzo “unico”.
IMDb 7,8 RT 81%
PS - ho trovato qualche difficoltà a seguire alcuni dialoghi nei
quali l'accento scozzese è più marcato
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