300 "The Snake Pit" (Anatole Litvak, USA,
1948) tit. it.
“La fossa dei serpenti” * con Olivia de Havilland, Mark Stevens, Leo
Genn * IMDb 7,6 RT 83% * Oscar per il sonoro e 5 Nomination: miglior
film, regia, Olivia de Havilland protagonista, sceneggiatura,
commento musicale.
Un film audace per quei tempi,
basato su un libro autobiografico, quindi una storia tristemente
vera, che fece conoscere vari aspetti degli ospedali psichiatrici
pubblici americani. Sia libro (1946) chefilm suscitarono grande
scalpore per trattare tali argomenti e si sarebbe dovuto aspettare
quasi un trentennio per qualcosa di simile, con il rinomato
“Qualcuno volò sul nido del cuculo”.
Una bravissima Olivia de Havilland
(Nomination come miglior attrice protagonista) è la paziente
schizofrenica che deve penare non poco per risolvere i suoi problemi
mentali, supportata dal marito e da un bravo dottore, contrastata
dalla perfida capo infermiera Davis (Helen Craig, seconda foto),
antesignana della altrettanto perfida Nurse Ratched (Lousie
Fletcher) del film di Forman. Nel film appare anche la brava Betsy
Blair, in una piccola ma significativa parte; peccato che, per cause
politiche, ebbe difficoltà ad ottenere scritture e la parte in "Marty"
(1955), Nomination come migliore attrice non protagonista, la
ottenne solo in quanto il marito (la star dell'epoca Gene Kelly)
ricattò la MGM minacciando di non lavorare più per loro.
Questo film mostra elettroshock e
idroterapie, nonché ampio uso di psicoanalisi, ancora poco diffusa.
Molto interessante e anche molto ben
realizzato e interpretato, ma certamente un po’ deprimente.
299 "Hamlet" (Laurence Olivier, UK, 1948) tit. it.
“Amleto” * con Laurence Olivier, Jean Simmons, John Laurie, Anthony
Quayle, Peter Cushing * IMDb 7,8 RT 91% * 4 Oscar (miglior film,
Laurence Olivier protagonista, scenografia, costumi) e 3 Nomination
(Jean Simmons non protagonista, regia e commento musicale) * a
Venezia furono premiati Laurence Olivier, Jean Simmons e Desmond
Dickinson per la fotografia
Un classico di un classico ... che
tuttavia resta troppo teatrale. Comunque, non penso sia immaginabile
un Amleto cinematografico fedele all’originale shakespeariano che
possa staccarsi dalla rappresentazione in palcoscenico. Laurence
Olivier dirige una ottima messa in scena, ma di cinematografia pura
non se ne vede molta. Per apprezzare il film (e le interpretazioni)
è indispensabile la versione originale ... con sottotitoli inglesi,
considerato l’inglese aulico di 4 secoli fa al quale anche molti di
coloro che hanno dimestichezza con la lingua sono poco avvezzi.
Solo per intenditori di teatro.
298 "El angel exterminador" (Luis Buñuel, Mex, 1962) tit. it.
“L’angelo sterminatore” * con Silvia Pinal, Claudio Brook, Tito
Junco, Luis Beristáin, Jacqueline Andere * IMDb 8,2 RT 96% *
Premio FIPRESCI e Nomination Palma d’Oro a Cannes * al 16° posto
migliori film messicani del secolo scorso
Un film che non dovrebbe aver
bisogno di presentazioni, in merito al quale sono stati scritti
fiumi di parole pur senza giungere ad alcuna conclusione. Buñuel,
oltre 30 anni dopo il suo corto “Un chien andalou”, quasi un
manifesto del surrealismo cinematografico, torna a spiazzare critica
e pubblico con un film pieno di oggetti, animali, frasi, situazioni
e atteggiamenti senza dubbio allusivi e simbolici, ma ciascuno si
presta a molteplici interpretazioni ed è impossibile dare un sicuro
senso complessivo a tale combinazione. A chi gli chiedeva lumi,
Buñuel soleva ripetere che se il film sembra enigmatico anche la
vita lo è, e come essa è ripetitivo e soggetto a molte
interpretazioni. “La migliore spiegazione per “L'angelo
sterminatore” è che, ragionevolmente, non ne ha alcuna”.
Fra i più frequenti argomenti di
(accesissime) discussioni, oltre alla inspiegabile impossibilità
delle persone di valicare soglie (invitati intrappolati nel salone,
polizia, servitù e curiosi che non possono entrare nel parco, devoti
in chiesa), ci sono le singolari ripetizioni di scene e dialoghi
(che qualche operatore talvolta tagliava pensando si trattasse di un
errore di montaggio), varie apparizioni di agnelli e di un orso,
zampe di gallina, una mano mozzata che ricorda senz’altro quella con
la quale “giocava” per strada l’androgino di “Un chien andalou”, la
perdita della decenza borghese e del senso del tempo, e i mille
riferimenti alla sensualità e alla religione, quest’ultima già
tirata in ballo non solo nel titolo definitivo (l’angelo
sterminatore è descritto nell’Apocalisse) ma anche in quello
previsto inizialmente “Los náufragos de la calle Providencia”.
Dopo la breve e travagliata
parentesi europea con “Viridiana” e prima di iniziare il suo lungo e
conclusivo periodo francese, Buñuel tornò a girare in Messico, dove
già c’era una certa crisi economica e si dovette “arrangiare” con
mezzi e budget molto limitati. Più volte asserì che il film l’aveva
pensato per una produzione europea, possibilmente in Francia. Anche
per il soggetto di questo film Buñuel contò sulla collaborazione del
fedele Luis Alcoriza, ma solo lui si occupò della sceneggiatura ...
e si vede che si tratta di un’opera tutta sua.
Pur essendo stato presentato a
Cannes nel 1962, solo nel ’66 poté circolare in Messico mentre sia
in Spagna che in Italia giunse solo nel 1968.
Film assolutamente imperdibile! A
prescindere dal gradimento, poi non si potrà fare a meno di
discuterne.
297 "Ensayo de un crimen" (Luis Buñuel, Mex, 1955) tit. it. “Estasi
di un delitto”, aka “La vida criminal de Archibaldo de la Cruz” e
relative traduzioni letterali * con Ernesto Alonso, Rita Macedo,
Miroslava Stern * IMDb 7,9 RT 100%
Al contrario dell’altro film di
Buñuel appena guardato (“El rio y la muerte”) reputo questo un po’
sopravvalutato, soprattutto per le interpretazioni. Probabilmente
molti si sono fatti irretire dal personaggio principale Archibaldo,
feticista fin da bambino, e dalle tante immagini di gambe e scarpe,
al posto giusto e “staccate”, biancheria femminile, manichini e
statuette, in puro stile buñueliano.
Certamente ben diretto e con mille
interessanti dettagli mostrati più o meno esplicitamente al posto
giusto nel momento giusto, penso sia indubbio che Ernesto Alonso non
valga Arturo de Cordova né Fernando Soler; Miroslava Stern, Rita
Macedo e Ariadne Welter tutte insieme non valgano Silvia Pinal o
altre protagoniste femminili dei film di Buñuel. Sarà forse dovuto
al cambio di produttore e a problemi di budget, ma il film si regge
quasi esclusivamente su una certa dose di suspense e sulla
creatività (soprattutto feticista, quasi perversa) di Buñuel, a
partire da un buon romanzo di Rodolfo Usigli (adattato dal regista
stesso e Eduardo Ugarte e non dal solito Luis Alcoriza) ... il che
comunque non è poco.
Tuttavia, qualunque sia il giudizio, è un film da guardare
obbligatoriamente, possibilmente a breve distanza di tempo dalla
visione di “El” con il quale condivide numerose situazioni, a
cominciare dalle paranoie dei protagonisti in quanto ai loro
rapporti con le donne.
296 "El rio y la muerte" (Luis Buñuel, Mex, 1954) tit. it. “Le rive
della morte” * con Columba Domínguez, Miguel Torruco, Joaquín
Cordero * IMDb 7,0 RT 61% Nomination Leone d’Oro a Venezia
Basato sul romanzo “Muro blanco en
roca negra” (1952) di Miguel Álvarez Acosta, adattato da Buñuel e
dal solito Luis Alcoriza, ha molti punti in comune con due
successive opere di Gabriel García Márquez, poi adattate a
sceneggiatura (“Tiempo de morir” e “Cronaca di una morte
annunciata”) in quanto verte sull’ineluttabilità dell’assassinio,
seppur secondo ben precise prassi “d’onore”, in una piccola comunità
rurale messicana.
Si segue la faida fra gli Anguiano e
i Menchaga che va avanti da generazioni così come varie altre nello
stesso pueblo, dove sono in un modo o nell’altro accettate, perfino
dal parroco (anche lui armato di pistola) che le giustifica come
volontà di Dio e dalle autorità che a chi uccide “per onore” concede
il tempo necessario per attraversare il fiume e autoesiliarsi,
mettendo in atto solo un blando fittizio inseguimento.
Alcuni lo accomunano a “Tierra sin
pan” (1933) e “Los olvidados” (1950) per occuparsi delle miserie del
sottosviluppo delle comunità chiuse che vivono secondo le proprie
“leggi”, formando così un trilogia. Buñuel, che non credeva al
prevalere della modernità e della ragione su ataviche barbare
tradizioni (e forse aveva ragione visto quello che accade ancora
oggi), raccontò che non gli fu concesso di aggiungere
all’ottimistico finale una ennesima sparatoria, per poi concluderlo
con il cartello “Altri morti la settimana prossima”.
Sottovalutato da molti, a me è
ri-piaciuto per il suo preciso taglio antropologico, con ottima -
per quanto stringata - descrizione di personaggi, ambiente ed
eventi, nonché per il sapiente montaggio dei lunghi flaskback. Una
eccellente critica sociale, che mette ancora una volta in risalto la
stupidità umana.
Pur essendo stato presentato in
anteprima al Festival di Venezia 1954 (Nomination al Leone d’Oro)
uscì solo l’anno successivo in Messico e non sono sicuro del fatto
che sia poi stato effettivamente distribuito in Italia.
295 "El" (Luis Buñuel, Mex, 1953) tit. it.
“Lui” * con Arturo de Córdova, Delia Garcés, Aurora Walker * IMDb
7,9 RT 100% - Nomination Grand Prix a Cannes * al 7° posto nella
classifica dei migliori film messicani del secolo scorso
In questa sommaria rivisitazione del
periodo messicano di Buñuel, eccomi giunto a un film veramente suo a
cominciare dai primi minuti con immagini che mostrano il rito della
lavanda dei piedi del giovedì santo. Sfruttando proprio la lentezza
di questa ritualità, in un silenzio quasi assoluto, il regista
indugiano nei primi piani dei piedi dei bambini mentre vengono
lavati e poi baciati, per poi passare alle caviglie delle devote
convenute.
Basato su un romanzo di Mercedes
Pinto, l’adattamento cinematografico è opera dello stesso Buñuel e
del suo solito grande amico e collaboratore Luis Alcoriza. Anche se
IMDb lo classifica semplicemente come “drama, romance”, in “El” c’è
una grande componente di thriller visto il comportamento a tratti
paranoico-psicopatico di Francisco (Arturo de Córdova) per lo più
innescati dalla gelosia e dalla sua fissazione per recuperare una
proprietà che già era stata dei suoi avi. Una menzione particolare
merita l’enorme, splendido palazzo in stile liberty, ... ma non sono
riuscito a trovare notizie in merito.
In quanto ai collegamenti con altri
film famosi, ne vedo uno (ma non ho trovato conferme) nei cinici
commenti dei protagonisti che osservano dall’alto i passanti: in
“The Third Man” (1949) Orson Welles li vede come formiche dall’alto
della ruota panoramica mentre in "El" Arturo de Cordova li addita
come vermi dal campanile della chiesa, stando proprio sotto la
campana, scena poi ripresa da Hitchcock (dichiarato ammiratore di
Buñuel) in “Vertigo” (1958).
Guardare per credere ...
Un ottimo film, angosciante quanto
basta, nel quale il machismo si alterna alla passione e le minacce
all’amore più puro.
Da non perdere.
294 "La hija del engaño" (Luis Buñuel, Mex, 1951) trad. lett. “La
figlia dell’inganno” * con Fernando Soler, Alicia Caro, Fernando
Soto, Rubén Rojo * IMDb 7,0 RT 64%
Al pari di “El gran calavera” (1949)
anche questa fu definita da Buñuel una “película alimenticia” = film
per poter mangiare. Ma se il primo può essere definito una commedia
un po’ drammatica, questo è un dramma con qualche tocco di commedia,
soprattutto a carico dei due inetti “guardaspalle” del protagonista,
non proprio una comedia negra. In Spagna fu distribuito con il
titolo “Don Quintín, el amargao” che è quello del “sainete”
originale del 1927 dal quale fu adattato dal solito Luis Alcoriza
(con sua moglie Janet, aka Raquel). I “sainete” sono brevi lavori
teatrali, in uno o due atti, per lo più tendenti alla farsa, con
commento musicale dal vivo.
Don Quintín (Fernando Soler),
tradito dalla moglie, diventa una specie di gangster irascibile,
violento, pronto a cogliere l’occasione per venire alle mani o
mettere mano alla pistola e, se l’occasione non si presenta, la crea
lui.
Oltre al sempre ottimo Soler nel
ruolo di protagonista, ritroviamo anche Rubén Rojo, di nuovo
innamorato della figlia.
Anche questo film è più che
sufficiente, ma si dovrà aspettare per i veri Buñuel.
293 "El gran calavera" (Luis Buñuel, Mex, 1949) tit. int. “Il grande
teschio” * con Fernando Soler, Rosario Granado, Andrés Soler, Rubén
Rojo * IMDb 7,3 RT 75%
Comincio con il titolo italiano, che
stavolta i “geni” dei distributori/titolisti hanno voluto tradurre
letteralmente ... e hanno preso una cantonata! Infatti, si sono
fermati al primo e più comune significato, e possono essere
eventualmente giustificati solo per non aver visto il film. In
Messico un “calavera” (persona) è un irresponsabile, spendaccione,
amante di bisbocce, feste, alcool, ecc. e questo è il senso del
titolo originale.
Si tratta di una divertente commedia
di Adolfo Torrado (adattata dal solito Luis Alcoriza, che ha anche
una parte nel film) che come in tante altre occasioni pone a
confronto ricchi e poveri, avidità e generosità, machiavellismi e
buoni sentimenti. Chiaramente non è in puro stile Buñuel, ma il
regista, dopo 10 anni di “silenzio” era tornato alla regia appena un
paio di anni prima con “Gran Casino” (un fiasco commerciale
nonostante la presenza di star come Jorge Negrete e Libertad
Lamarque) e quindi, essendo quasi al verde, colse al volo
l’occasione di dirigere Fernando Soler che in un primo momento
avrebbe dovuto essere regista e protagonista. I fratelli Soler si
distinguono come al solto per la loro bravura e versatilità, e in
questo caso godono anche di buona compagnia anche se i comprimari
sono meno noti.
Scordatevi del Buñuel surrealista
e/o feticista che conoscete e godetevi questa commedia, comunque ben
diretta.
PS - Nel 2013 Gary Alazraki diresse
il quasi remake “Nosotros los nobles” (di qualità abbastanza
inferiore all’originale) eppure ottenne un successo eccezionale
quanto insperato, incassando in sole 10 settimane il doppio del
precedente record al botteghino che resisteva da una decina di anni.
Chiaramente gran parte del pubblico non conosceva il film diretto da
Buñuel oltre 60 anni prima ...
292 "Peppermint Frappé" (Carlos Saura, Spa, 1967) tit. it. “Frappè
alla menta” * con Geraldine Chaplin, José Luis López Vázquez,
Alfredo Mayo * IMDb 7,2 RT 77%
Film molto sui generis, chiaro
omaggio di Saura a Buñuel, esplicitato chiaramente nei titoli di
coda. L'impareggiabile José Luis López Vázquez (260 film in 60 anni
di attività) è un radiologo feticista, che stravede per il trucco
femminile (in particolare occhi e labbra), ma soprattutto per le
gambe (rif. Buñuel).
L'oggetto dei suoi desideri diventa
la bionda moglie di un suo amico di infanzia appena rientrato in
Spagna, incredibilmente somigliante alla sua assistente mora, fino a
quel momento ignorata. Entrambe sono interpretate da Geraldine
Chaplin, all’epoca già compagna di Saura, e questo fu il primo dei 7
film che interpretò diretta dal regista spagnolo. Ennesima tipica
storia partorita dal genio della comedia negra Rafael Azcona.
In partenza un po’ farraginoso,
recupera ampiamente nella seconda parte e con il finale fra noir e
thriller.
Saura ottenne a Berlino l‘Orso
d'Argento per la miglior regia, due anni dopo aver vinto identico
premio con “La caza” per il quale fu anche candidato all’Orso d’Oro,
come per l’ancora precedente “Llanto por un bandido” (1964).
Interessante visione, ma non certo
il top fra i film di Saura.
291 "Reservoir dogs" (Quentin Tarantino, USA, 1992) tit. it. “Le
iene” * con Harvey Keitel, Tim Roth, Steve Buscemi, Michael Madsen
* IMDb 8,3 RT 96% 76° nella classifica IMDB dei migliori film di
tutti i tempi
Pur essendo il primo vero
lungometraggio di Tarantino, resta uno dei suoi migliori film, se
non il migliore. Stringato, essenziale, pochi set, pochissimi
esterni, un numero limitato di (buoni) attori. Dialoghi taglienti,
relativamente poca azione ma tanto sangue. Senza ombra di dubbio fu
quello che lanciò Tarantino nell'élite dei grandi registi, anche se
molto discusso per il suo inconfondibile stile.
Con lo stesso titolo, l'anno
precedente Tarantino aveva realizzato un video per il Sundance
Institute Film Lab.
Dando per certo che tutti coloro che
leggono lo conoscano (e avranno la propria rispettabile opinione) mi
limiterò a dire che lo trovo un ottimo film, in particolare per le
situazioni “teatrali” (poca azione, tanto parlare, attesa per quello
che potrebbe avvenire da un momento all’altro) mentre vedo un
Tarantino ancora un po’ acerbo per quanto riguarda gli esterni.
Mirabile è la scelta dei
protagonisti, così come le loro performance. Singolare e
perfettamente calzante la colonna sonora, con la geniale chiusura di
“Coconut” (interpretata dal suo autore Harry Nilsson) sui titoli di
coda.
C’è poco da aggiungere ...
ri-guardatevelo.
290 "Bring me the Head of Alfredo Garcia" (Sam Peckinpah, USA, 1974)
tit. it.
“Voglio la testa di Garcia” * con Warren Oates, Isela Vega, Emilio
Fernández * IMDb 7,5 RT 83%
Questo western moderno / noir / road
movie è uno dei miei preferiti fra i film diretti da Peckinpah, non
solo per l'originalità della storia e l’eccellente ambientazione
messicana, ma anche per avere come protagonista un ottimo Warren
Oates, attore di più che buon livello, forse penalizzato dal suo
singolare aspetto, e per la partecipazione di Emilio Fernandéz “el
Indio”.
Volere la testa di qualcuno è una
espressione utilizzata di solito in senso figurato, ma in questo
caso c'è un “jefe” (Fernández) che la vuole fisicamente come prova
dell’eliminazione definitiva del giovane Alfredo e quindi il
discorso è ben diverso. Ma è solo il titolo italiano a creare
l'equivoco, in inglese è molto più chiaro e significativo
traducendosi letteralmente come "Portatemi la testa di Garcìa".
E detta testa farà un lungo e
travagliato viaggio per strade polverose e desolate, in pueblos con
fiestas e funerali, fra furti, agguati, inseguimenti e sparatorie.
Fra quelli che hanno brevi ma sostanziali parti, ci sono anche guest
stars come Kris Kristofferson che l’anno prima era stato Billy The
Kid al fianco di Pat Garret (James Coburn) diretti dallo stesso
Peckinpah, la star TV Robert Webber e Gig Young (Oscar per “Non si
uccidono così anche i cavalli?”, 1969), e tanti extra e comparse
messicani con un’infinità bambini.
Trovo geniale l’inizio che per
costumi e ambienti lascia per vari minuti lo spettatore dubbioso su
epoca e luogo in cui si svolge la storia, che poi terminerà nello
stesso ranch con un finale in tipico stile Peckinpah.
Non meraviglia il fatto che, pur
essendo stato un quasi fiasco al botteghino e anche poco apprezzato
dalla critica all'uscita, sia poi diventato un cult, definito
l'ultimo vero film di Peckinpah il quale dichiarò che questo fu
l'unico suo film uscito come lui lo aveva immaginato, quindi un
director’s cut senza interventi della produzione.
Né meraviglia leggere che, per il
suo taglio che tende al noir, alla black comedy e quasi allo
splatter con tante sparatorie e un buon numero di morti, "Bring me
the Head of Alfredo Garcia" sia fra i preferiti in assoluto di
registi come Tarantino, Lynch e Takeshi Kitano.
Visto per l'ultima volta poco più di
6 anni fa ne avevo nostalgia.
289 "El esqueleto de la señora Morales" (Rogelio A. González, Mex,
1960) tit. int. “Skeleton of Mrs. Morales” * con Arturo de Córdova,
Amparo Rivelles, Elda Peralta * IMDb 8,2 RT 88%
Una delle poche "comedias negras"
della Epoca de Oro del Cine Mexicano (19° nella classifica dei film
del secolo scorso), senz’altro un classico amatissimo anche per la
presenza come protagonista del poliedrico Arturo de Córdova, capace
di passare brillantemente dai noir ai film romantici, alle commedie
e a film impegnati come “El” (Luis Buñuel, 1962) e ancora prima
aveva interpretato Agustin in “Per chi suona la campana” (Sam Wood,
1943) al fianco di Gary Cooper e Ingrid Bergman.
Si assiste ad una continua presa in
giro del bigottismo di un certo tipo di media borghesia messicana,
simboleggiato alla perfezione da Gloria, moglie del pacifico
tassidermista Dr. Pablo Morales, e dalla sua “corte” capitanata da
un prete e composta da varie amiche sempre vestite di nero con tanto
di velo, nonché da sua sorella sempre accompagnata dal marito che si
atteggia a “guappo” mostrando la pistola alla cintola e un
“historiador” che interviene sempre a sproposito.
Gloria, a dispetto della sua pretesa
“aura di santità” è perfida tanto da derubare il marito, accusarlo
delle peggiori ignominie, rovinare ogni sua semplice innocua
passione. Dando uno sguardo ai commenti ne ho visto uno che si
intitola: “uno dei pochi film nel quale il pubblico spera vivamente
che l’uomo uccida la moglie”.
La sceneggiatura è firmata da Luis
Alcoriza (citato nei precedenti post per i suo lavori Buñuel, e ciò
mi ha riportato in mente questo film), che ha brillantemente
adattato il racconto "The Islington Mystery" (1927) di Arthur Machen,
autore gallese che trattava soprattutto di soprannaturale,
fantastico e horror.
Rivisto con molto piacere, lo
consiglio vivamente.
288 "El Bruto" (Luis Buñuel, Mex, 1953) tit. it. “Il bruto” * con
Pedro Armendáriz, Katy Jurado, Rosa Arenas, Andrés Soler * IMDb
7,4 RT 88%
Film molto poco conosciuto di Buñuel che molti, compreso me,
giudicano ampiamente sottovalutato. Lo si potrebbe vedere quasi come
un sequel di “Los olvidados”, per la violenza, l’acrimonia e la
povertà che condizionano la vita in ambienti marginali delle grandi
città. Stavolta, però, non si tratta di giovani ma di adulti e il
sesso (appena accennato nell’altro) gioca qui un ruolo devastante
visto che si accompagna a avidità e gelosia. La perfidia e malvagità
di Paloma (Katy Jurado, Premio Ariel come non protagonista) che
spesso appare come una fiera predatrice è forse peggiore della
brutalità del “bruto” Pedro (l’ottimo Pedro Armendáriz, perfetto per
questo ruolo). Nel variegato cast che include tanti buoni
caratteristi e la insipida Rosa Arenas, spicca anche Andrés Soler
(Nomination Ariel come non protagonista) fratello di Fernando,
Domingo e Julián tutti attori, alcuni anche registi e sceneggiatori
... una vera famiglia di cineasti.
Anche in questo caso Buñuel si
affida ad uno stimato direttore della fotografia in bianco e nero (Agustín
Jiménez) che lo assisterà anche nei successivi Abismos de pasión
(1954) e Ensayo de un crimen (1955); in quanto alla sceneggiatura il
suo co-autore è ancora una volta Luis Alcoriza.
I personaggi e gli ambienti sono ben
proposti, le scene appropriate e quasi sempre allusive (come quella
nel mattatoio), negli interni spesso si percepisce che la violenza
sta per esplodere così come incutono timore le strade buie, teatro
di percosse e inseguimenti.
Non manca il solito criptico
simbolismo di Buñuel distribuito in più punti, con la perla finale
dell’inquietante gallo padrone della scena dopo una serie di eventi
distruttivi e fatali.
Penso sia chiaro che suggerisco di
guardare anche questo film, seppur reputato “minore” da molti.
287 "Los Olvidados" (Luis Buñuel, Mex, 1950) tit. it.
“I figli della violenza” * con Alfonso Mejía, Roberto Cobo, Miguel
Inclán, Estela Inda, * IMDb 8,3 RT 94%
Terzo film messicano di Buñuel, il
primo veramente suo dopo i commerciali “Gran Casino” (1947) e “El
gran calavera” (1949) - girati dopo un’assenza di una decina d’anni
dai set- e la differenza è lampante; nella classifica dei migliori
film messicani del secolo scorso si trova al secondo posto.
"Los Olvidados" riscosse
immediatamente un enorme successo in Messico vincendo l’Ariel d’Oro
come miglior film e ottenendo ben 10 premi e 2 Nomination nelle
altre categorie, ma ancora più importante fu il premio per la
miglior regia conquistato a Cannes da Buñuel, insieme con la
Nomination al Grand Prix. Al di là dei suoi riconosciuti meriti come
regista, Buñuel fu premiato anche per soggetto e sceneggiatura
(insieme con Luis Alcoriza, suo collaboratore in tanti altri suoi
film: El gran calavera, La hija del engaño, El bruto, El, El rio y
la muerte, La fièvre monte à El Pao, El ángel exterminador); i
membri del cast ottennero 3 Ariel e una Nomination e il solito
Gabriel Figueroa fu premiato per la fotografia.
Fra i giovani attori qualcuno aveva
già un po’ di esperienza, altri erano all’esordio, ma tutti
risultano molto credibili. Oltre Estela Inda che già godeva di
relativa fama, si può dire che l’unico “professionista” è l’ottimo
Miguel Inclán (del quale ho appena scritto nel post sulle peliculas
cabareteras) nei panni di un equivoco suonatore ambulante cieco.
Il film si apre con una serie di
immagini di metropoli (New York, Londra, Parigi, ...) e una voce
fuori campo ricorda che la delinquenza giovanile è una piaga comune
a tutte le grandi città del mondo. La storia, veramente cruda e
violenta, è incentrata su un gruppo di giovani e giovanissimi che
vivono nella povera e per lo più squallida periferia di Città del
Messico. Quasi a voler sostenere tale tesi, il film è volutamente
molto realista concedendo solo qualche divagazione surrealista,
specialmente nelle brevi parti oniriche, ma in sintesi riesce ad
essere un vero pugno nello stomaco presentando un ambiente di
piccoli delinquenti, lavoro minorile, sfruttamento, pedofilia,
bullismo, tradimenti e omertà.
Eppure, in tutto questo squallore,
Buñuel riesce ad inserire in più occasioni scene nelle quali mostra
gambe femminili abbastanza scoperte (per l’epoca), indugiando sulle
immagini qualche secondo più del necessario, come suo solito.
Essendo ancora banditi in patria sia
il regista che i suoi film, questo giunse nelle sale spagnole (e
anche in quelle italiane) solo nel 1964.
Film assolutamente imperdibile per i
cinefili in quanto, come ricordano i registi Carlos Saura e José
Luis Borau negli extra del dvd, chiunque si occupi del cinema del
‘900 non può prescindere dai lavori di Buñuel.
Visioni 284-285-286 del 2018
284 Salón México (Emilio Fernández,
Mex, 1949) * con Marga López, Miguel Inclán, Rodolfo Acosta * IMDb
7,6 * sceneggiatura: Emilio Fernández e Mauricio Magdaleno *
direttore fotografia: Gabriel Figueroa
285 Víctimas del pecado (Emilio Fernández, Mex, 1950) * con Ninón
Sevilla, Tito Junco, Rodolfo Acosta * IMDb 7,7 RT 86% *
sceneggiatura: Emilio Fernández e Mauricio Magdaleno * direttore
fotografia: Gabriel Figueroa
286 Aventurera (Alberto Gout, Mex, 1950) * con Ninón Sevilla, Tito
Junco, Andrea Palma, Miguel Inclán * IMDb 7,6 RT 81% *
sceneggiatura: Álvaro Custodio, Alberto Gout e Carlos Sampelayo *
fotografia: Alex Phillips
Film poco conosciuti (ma che vale senz’altro la pena guardare) della
Epoca de Oro del Cine Mexicano durante la quale si distinsero grandi
registi, ottimi direttori della fotografia e tanti buoni attori,
caratteristi e cantanti.
Del genere, spesso più affine al noir che al musical, e dei 3 film
ne ho parlato in questo post su Discettazioni Erranti.
282 "Los tres Garcia" (Ismael Rodríguez, Mex, 1946) * con Pedro
Infante, Abel Salazar, Sara García, Víctor Manuel Mendoza, Fernando
Soto IMDb 8,0
283 "Los tres Huastecos" (Ismael Rodríguez, Mex, 1948) * con Pedro
Infante, Blanca Estela Pavón, María Eugenia Llamas, Fernando Soto "Mantequilla"
IMDb 8,0
Due classiche commedie di Ismael Rodríguez, entrambe vedono Pedro
Infante quale protagonista e ovviamente canta alcune canzoni,
entrambe sono basate sui movimentati rapporti fra tre parenti,
cugini nel primo caso, fratelli nel secondo.
José Luis, Luis Antonio e Luis
Manuel sono i 3 cugini Garcia, tenuti più o meno a bada da una
energica nonna (interpretata da Sara Garcia), perennemente con il
sigaro in bocca. La competitività fra i 3 (il ricco, il povero e il
viveur), sempre pronti a litigare, aumenta ulteriormente all'arrivo
della bella e bionda lontana cugina messicano-americana (Marga
Lopez) accompagnata dal padre. Equivoci, dispetti, continui
tentativi di rissa (qualcuna messa in atto) fanno passare
velocemente le quasi 2 ore del film. L'immancabile cura (parroco)
dovrà faticare non poco per evitare spargimenti di sangue,
considerato che ci sono anche i 3 Lopez che vogliono far fuori i 3
Garcia per una annosa faida fra le loro famiglie.
Nel complesso abbastanza banale, ma
le commedie leggere di questo tipo di erano quelle che avevano
successo nell’immediato dopo-guerra, anche grazie ai cast pieni di
attori bravi, famosi e, soprattutto, amatissimi dal pubblico.
Più insolito e divertente,
certamente originale in assoluto, è "Los tres Huastecos",
soprattutto grazie alla intricata trama. Tre fratelli gemelli
(separati alla nascita per la morte della madre), si ritrovano già
adulti in una stessa cittadina in vesti molto diverse Juan de Dios
(parroco), Lorenzo (pistolero gestore di una malfamata cantina) e
Víctor (nuovo comandante della guarnigione). I tre sono tutti
interpretati da Pedro Infante e il regista e co-sceneggiatore Ismael
Rodríguez è più che abile a mantenere un ritmo fluido di immagini
anche quando sullo schermo compaiono due fratelli contemporaneamente
e in qualche caso anche tutti e tre. Questo “esperimento”
(soprattutto considerati i mezzi tecnici dell’epoca) riuscì quindi
molto bene anche per la versatilità di Infante il quale oltre a
interpretare i tre, si esibisce anche nei panni di uno travestito da
un altro. Oltre a lui si devono comunque menzionare un altro paio di
personaggi memorabili quali l’onnipresente caratterista Fernando
Soto (oltre 150 film in 30 anni, noto col soprannome di Mantequilla
= burro) e l’esordiente giovanissima (4 anni) María Eugenia Llamas
nei panni di Tucita, l’incontrollabile figlia di Lorenzo, che gioca
con serpenti e tarantole, vuole dormire con la pistola sotto al
cuscino per “sentirsi sicura” e si mette a piangere dopo aver
sparato al padre, ma solo perché non lo ha colpito! Questo ruolo la
rese subito famosa e nei film successivi il suo nome apparì come
“Ma. Eugenia Llamas 'Tusita'”.
Pedro Infante è tutt'oggi il più
amato attore messicano e nel 1994 anche Hollywood gli rese onore con
la “Star on the Walk of Fame”.
281 "Raise the Red Lantern" (Yimou Zhang, Cina/HK/Taiwan, 1991) tit.
or.
“Da hong deng long gao gao gua”, tit. it. “Lanterne rosse “ * con Li
Gong, Jingwu Ma, Saifei He * IMDb 8,2 RT 96% * Nomination Oscar
miglior film non in lingua inglese
Senz’altro uno dei migliori film di
Yimou Zhang (quasi tutti ottimi, sono buone perfino le sue commedie
più banali) ma non il mio preferito. Penso che il regista si sia
espresso meglio nei film più ricchi di azione e di colori. Qui,
fedele al titolo, il predominante è il rosso e l’atmosfera (seppur
giustificata dalla drammaticità della storia) è quasi sempre cupa.
In ogni caso, la descrizione degli ambienti e dei ruoli dei vari
personaggi nella gerarchia della enorme dimora apre agli spettatori
un mondo sconosciuto ai più.
La lentezza della vita del palazzo,
le silenziose pause, gli annunci “gridati” dei movimenti del
signore, il lento procedere dei personaggi principali nei cortili e
sulle terrazze e quello più affrettato della servitù, i dettagli
delle attività rituali quasi giornaliere, i particolari degli
oggetti e degli arredi, creano un atmosfera fantastica e
affascinante.
Film da non perdere.
280 "Bang the Drum Slowly" (John D. Hancock, USA, 1973) tit. it.
“Batte il tamburo lentamente“ * con Robert De Niro, Michael Moriarty,
Vincent Gardenia * IMDb 7,0 RT 92% * Nomination Oscar per
Vincent Gardenia non protagonista
Un buon dramma di ambientazione
sportiva, che riesce a bilanciare i vari aspetti messi in ballo,
senza alcuna esagerazione o predominanza. Pur gravitando nel mondo
del baseball di alto livello non si vede molto gioco, De Niro
interpreta un giocatore malato ma non si insiste sulla parte medica,
i dottori si vedono appena, parimenti Hancock non annoia con beghe,
ripicche e scherzi dei giocatori mostrando solo il giusto
necessario, il cambiamento di atteggiamento dei compagni di squadra
è graduale e non appare mai falso e melenso, bensì genuino. La
sceneggiatura (tratta dal romanzo omonimo di Mark Harris e adattata
dall’autore stesso) è di ottimo livello e il cast è più che adeguato
per i personaggi molto eterogenei.
La star del baseball Henry Wiggen
(interpretato da Michael Moriarty, proprio il procuratore Ben Stone
di “Law & Order” dal 1990 al ’94), grazie al suo potere
contrattuale, riesce ad ottenere un contratto per il suo amico Bruce
Pearson (De Niro), giocatore non eccezionale e malato ... ma ancora
nessuno lo sa. L’allenatore “Dutch” (Vincent Gardenia,
inconfondibile per il suo naso aquilino e la bocca “contorta”)
sospetta qualcosa ma non riesce a venire a capo di niente. Ben
delineati da buoni caratteristi anche vari altri personaggi dello
spogliatoio fra i quali si nota anche l’esordiente Danny Aiello
(all’epoca già 40enne), il cui ruolo successivo sarebbe stato quello
di Tony Rosato in “The Godfather: Part II” (1974). L’iconico
caratterista italoamericano newyorkese, ha poi lasciato il segno
come capo della polizia in “Once Upon a Time in America” (Sergio
Leone, 1984) e nelle vesti di Sal proprietario/gestore della
pizzeria in “Do the Right Thing” (Spike Lee, 1989).
De Niro si difende bene in un ruolo
per lui inusuale, assolutamente poco esuberante, sempre dal tono
dimesso, accomodante con tutti.
In quanto al regista Hancock, questo
è il secondo dei suoi solo nove film ed è unanimemente giudicato di
gran lunga il suo migliore.
Curiosità: in questo film si
mostrano brevemente alcune partite del fantasioso e geniale gioco di
carte TEGWAR, acronimo di “The Exciting Game Without Any Rules”
(emozionante gioco privo di regole), giocato di solito da 3 o 4
persone, uno dei quali è il “pollo” da spennare o semplicemente
prendere in giro. Regole inventate al momento, combinazioni dai nomi
strani e giocate prive di alcun criterio si susseguono a ritmo
vertiginoso non permettendo al novellino di capire cosa stia
effettivamente accadendo.
279 "Alice doesn't live here any more" (Martin Scorsese, USA, 1974)
tit. it.
“Alice non abita più qui“ * con Ellen Burstyn, Kris Kristofferson,
Diane Ladd, Harvey Keitel * IMDb 7,4 RT 88% * Oscar a Ellen
Burstyn protagonista, Nomination per sceneggiatura e Diane Ladd non
protagonista * Nomination Palma d’Oro a Cannes * 4 premi e 3
Nomination BAFTA
Quarta regia di Scorsese, subito
dopo “Mean Streets” (1973) e immediatamente prima di “Taxi Driver”
(1976), di conseguenza è già di tutt’altro livello rispetto ai suoi
primi due film. Il soggetto è abbastanza insolito per lui, ma conta
su una ottima sceneggiatura (Nomination per l’autore Robert Getchell)
e su un buon cast con la sola palla al piede di Kris Kristofferson
... il solito broccolo lesso, assolutamente inespressivo. Al
contrario, la protagonista Ellen Burstyn (che qui ottenne il suo
unico Oscar da 6 Nomination) è affiancata da Harvey Keitel (quasi
onnipresente nei primi film di Scorsese), ma soprattutto dagli
caratteristi che impersonano lavoratori e gestori di bar, fast food
e night, in primis l’ottima Diane Ladd (meritata la sua Nomination)
e Vic Tayback. Bravi anche i due 12enni, l’esordiente Alfred Lutter
III (attore bambino con poche apparizioni, solo fra il ’74 e il ‘77)
nei panni dell’insopportabile e indisponente figlio della Burstyn e
la più esperta Jodie Foster (già al quinto film e da 5 anni in tv)
che sarebbe diventata famosa due anni dopo per “Taxi Driver”).
Un dramma sentimentale con sprazzi
di commedia, che si fa guardare con piacere.
277 "Who's that knocking at my door" (Martin Scorsese, USA, 1967)
aka “I Call First” (da una battuta/gag ripetuta più volte nel corso
di una scena)., tit. it. “Chi sta bussando alla mia porta?“ * con
Harvey Keitel, Zina Bethune, Anne Collette * IMDb 6,7 RT 71%
278 "Boxcar Bertha" (Martin Scorsese, USA, 1972) tit. it. “America
1929 - Sterminateli senza pietà“ * con Barbara Hershey, David
Carradine, Barry Primus * IMDb 6,1 RT 48%
Sono i primi due film di Martin Scorsese, che successivamente
sarebbe divenuto un emblema del nuovo cinema americano, molti
esponenti del quale (sia attori che registi) oltre a segnare
un'epoca sono ancora sulla cresta dell'onda: Spielberg, Lucas,
Coppola, De Niro, Nicholson, Keitel, Ford, Walken, ...
Tempo fa
scrissi degli inizi (non proprio brillanti) di altri due famosi
registi: Kubrick e Coppola; alla pari di costoro, anche Scorsese
non può essere molto fiero dei suoi primi film, nel complesso
confusionari, slegati, ripetitivi ... ma andiamo per ordine.
Nel primo sceneggiatura e dialoghi
sono scadenti, Keitel non era certo ancora diventato l’egregio
attore di The Duelists (1977), Bugsy (1991), Reservoir Dogs (1992),
The Piano (1993), Pulp Fiction (1994), in alcuni momenti sembra di
guardare dei provini per "Mean Streets" o "Taxi Driver" (entrambi
con Keitel e De Niro). Siamo nell'ambiente degli giovani
italoamericani sfaccendati (non veri criminali), quindi ci sono
“l’amichevole bullismo”, qualche battuta in dialetto meridionale, il
"pentimento" in chiesa, le ubriacature, la caccia a ragazze
“facili”, ecc.
Molta camera a spalla, tanti interni
“originali” (non set, evidente conseguenza del limitato budget),
riprese ripetute, scene inutilmente allungate. Solo di tanto in
tanto, e con il senno di poi, si riescono ad apprezzare inquadrature
originali che saranno poi riproposte (perfezionate) in film
successivi.
Il secondo, oltre al patire di una
pessima traduzione del titolo (oltretutto la storia si sviluppa
negli anni successivi), l’ho (ri)trovato veramente inconsistente,
nonostante Scorsese potesse contare su una certa esperienza e su
maggiori e migliori mezzi (il produttore fu Roger Corman). Si
appoggia molto sulla belloccia e spesso volutamente discinta Barbara
Hershey, su John e David Carradine (padre e figlio, il primo già
attore di successo) e su una buona dose di violenza, ma l’insulsa
sceneggiatura è veramente da dimenticare.
Per la fortuna degli spettatori,
dopo questi relativi obbrobri, Martin Scorsese si mise sulla retta
via già con il film successivo (“Mean Streets”, 1973) per poi
“esplodere” definitivamente nel 1975 con “Taxi Driver”.
Da guardare esclusivamente per
curiosità cinefila ...
276 “Affair in the Snow“ (Yoshishige Yoshida, Jap, 1968) tit. or.
“Juhyo no yoromeki“ * con Mariko Okada, Isao Kimura, Yukio Ninagawa
* IMDb 7,0
Ancora una volta sono rimasto
affascinato dal modo di girare di Yoshishige Yoshida, che con il suo
stile molto particolare riesce a far tenere gli occhi incollati allo
schermo anche se la sceneggiatura è basata sugli sviluppi
psicologici di un insolito (e abbastanza irreale) triangolo amoroso.
Ogni volta che può (certamente non nei campi lunghi su campi
innevati) inquadra i soggetti in “cornici”, non sempre regolari. In
più, in questo film ha utilizzato tanta macchina a spalla, spesso
con riprese circolari attorno agli attori ed in un caso (veramente
pregevoli sia idea che realizzazione) un attore gira attorno
all’altro mentre la camera li riprende girando attorno ad entrambi
in verso opposto.
Ottimo il bianco e nero, buona la
recitazione (forse un po’ troppo teatrale, ma del resto ci sono in
effetti solo tre personaggi), accattivante il commento sonoro;
avendo già elogiato la regia resta solo da dire che il punto debole
è il comportamento fra lo snervante e l’insopportabile dei
protagonisti, dettato per lo più dai loro trascorsi e dalla perenne
indecisione.
In conclusione, un film che
senz’altro consiglio a chi è attento a inquadrature e composizione
dell’immagine, ma non a quelli che badano troppo alla trama. Appena
di poco inferiore ai suoi successivi Eros + Massacre (1969) e Heroic
Purgatory (1970). Da quel poco che ho trovato in rete, sembra che il
soggetto sia molto simile al suo immediatamente precedente "Flame
and Women” (tit. or. “Honô to onna”, 1967), ma non mi è chiaro quale
sia il legame fra i due.
275 “Twenty-Four Eyes”“ (Keisuke Kinoshita, Jap, 1954) tit. or.
“Nijûshi no hitomi“, tit. it.
"Ventiquattro occhi" * con Hideko Takamine, Chishû Ryû, Takahiro
Tamura, Yumeji Tsukioka * IMDb 8,1 RT 60% * Golden Globe
come miglior film e Nomination Leone d’Oro a Venezia
Il titolo si riferisce agli occhi
dei dodici bambini di prima elementare che al primo giorno di scuola
incontrano la loro giovane maestra, al suo primo incarico. Così
comincia un particolare rapporto di affetto che viene descritto
attraverso vari momenti distribuiti nell’arco di 18 anni, passando
dai periodi delle guerre in Cina e Manciuria, fino ad oltre la fine
della II Mondiale, dal 1928 al 1946.
In poco più 2 ore e mezza Keisuke
Kinoshita (poi definitivamente affermatosi come regista con
“Narayama bushikô”, La leggenda di Narayama,1958) mostra la vita di
una relativamente povera comunità che vive lungo le rive del mare
interno giapponese. Non ci sono solo eventi commoventi e
disavventure, ma anche tanti momenti gioiosi sottolineati da giochi
e canzoncine infantili, nonché vari riferimenti alla caccia ai
comunisti e una aperta critica al nazionalismo e all’inutilità della
guerra.
Classico film giapponese degli anni
’50, con riprese curate, ottima recitazione, in stile quasi
neorealstico ... forse si è un po’ ecceduto con le canzoni, troppe
per i miei gusti, sia infantili che patriottiche.
274 “El verdugo“ (Luis Berlanga, Spa, 1963) tit. it. “La ballata del
boia” * con Nino Manfredi, Emma Penella, José Isbert * IMDb 7,4 RT
91% * Premio FIPRESCI e Nomination Leone d’Oro a Venezia
Un film geniale realizzato alla
perfezione, ancor più pregevole se si considerano ambiente e periodo
storico, ma gran merito va senz’altro attribuito agli sceneggiatori
(lo stesso Luis Berlanga e il sempre sorprendente Rafael Azcona, con
la collaborazione ai dialoghi di Ennio Flaiano).
Senza dire troppo della trama,
voglio comunque accennare a questa storia di un necroforo (evitato
dai più) che si innamora della figlia del boia (e per questo evitata
da tutti). Queste sono le ottime premesse per un eccezionale
“comedia negra” in puro stile latino. Per questioni familiari,
economiche e sociali, l’anziano “verdugo” vuole che il genero
(assolutamente contrario ad ogni forma di violenza) prenda il suo
posto. José Luis Rodríguez (Nino Manfredi) arriverà alla sua prima
esecuzione, seppur controvoglia? Grazie a questa incertezza, la
seconda parte del film diventa quasi un thriller. Fra i protagonisti
si fanno notare l’ineffabile José Isbert Emma Penella,
l’onnipresente José Luis López Vázquez e, seppur in una breve parte,
l’italiano Guido Alberti.
Con questo, concludo in mini-ciclo
dedicato ai 5 film simbolo dell’opposizione alla censura del regime
del “Caudillo” Francisco Franco analizzati, insieme con “Bienvenido
Mr. Marshall” (Luis Berlanga, 1953), “Calle Mayor“ (Juan Antonio
Bardem, 1956), “El pisito“ (Marco Ferreri, 1959), “Viridiana“ (Luis
Buñuel, 1961) in
questo dettagliato articolo
273 “Viridiana“ (Luis Buñuel, Spa/Mex, 1961) * con Silvia Pinal,
Fernando Rey, Francisco Rabal * IMDb 8,2 RT 95% * Palma d'Oro a
Cannes
Uno dei più apprezzati film di
Buñuel, il primo (semi)europeo dopo il suo lungo forzato "esilio"
negli Stati Uniti e poi in Messico dove ne aveva comunque diretto di
ottimi fra i quali “Los olvidados” (1950), “El” (1953), “Ensayo de
un crimen” (1955), “Nazarin” (1959) e, l’anno dopo “Viridiana”,
avrebbe diretto uno dei suoi indiscussi capolavori: “El angel
extermidador".
Ho scritto “(semi)europeo” in quanto
fu girato in Spagna - dove Buñuel era temporaneamente tornato fra
mille polemiche e critiche sia da parte dei repubblicani che dei
franquisti -, con la star e sua musa messicana Silvia Pinal
(all’epoca moglie di Gustavo Alatriste, produttore messicano che
finanziò questo e altri due film di Buñuel), fu presentato
ufficialmente a Cannes come pellicola spagnola ma a seguito di una
durissima presa di posizione dell'Osservatore Romano che la definì
“blasfema e sacrilega” il direttore del settore cinematografico, che
appena un paio di giorni prima aveva presenziato orgogliosamente
alla consegna della inaspettata Palma d’Oro, fu costretto a
dimettersi, il film fu bandito su tutto il territorio spagnolo e le
copie distrutte. Per fortuna, una copia fu salvata e trasportata in
Francia al seguito di un gruppo di toreri ... il divieto di
proiezione nelle sale spagnole fu tolto solo nel 1977.
Ovviamente, e forse più di altri, il
film non è di semplice lettura. Si ritrovano tanti elementi classici
buñueliani (scarpe, piedi e gambe in primis), ma abbondano anche
simboli e oggetti proposti e riproposti in situazioni molto
differenti, le inquadrature che alludono a opere pittoriche così
come i brani musicali (classici, sacri e moderni) sono certamente
significativi e non casuali, i vari animali e oggetti che spesso
appaiono solo brevemente non sono certamente un inutile
“riempitivo”. Comprensibilmente, la Chiesa (di fondamentale
importanza il regime di Franco ) non poteva essere “contenta” della
storia proposta da Buñuel e il fatto che meraviglia è del come la
sceneggiatura possa aver ottenuto l’approvazione preventiva e film
(una volta completato) il visto per la proiezione.
“Viridiana“ è senza dubbio un
(capo)lavoro da rivedere più volte e, fra una visione e l’altra,
vale la pena leggere qualche analisi e informarsi sul contesto
storico e sulle idee di Buñuel in merito a religione e clero.
Mettetevi all’opera, procuratevelo o
recuperatelo dalla vostra filmoteca.
272 “El pisito“ (Marco Ferreri, Spa, 1958, co-sceneggiato con Rafael
Azcona, dal suo romanzo omonimo) tit. it. “L’appartamentino” * con
Mary Carrillo, José Luis López Vázquez, Concha López Silva * IMDb
7,3 RT 67%
Probabilmente non tutti sanno che
Marco Ferreri iniziò la sua carriera di regista in Spagna, con una
trilogia di film fra neorealismo e comedia negra. Questo primo è
un’ottima combinazione fra i due generi, seguiranno “Los chicos”
(1959, più drammatico e non al livello degli altri due) e “El
cochecito” (1960, di nuovo con Rafael Azcona come co-sceneggiatore).
Il tema, già esplicitato dal titolo,
è quello del problema delle case nella Madrid di fine anni ’50. La
grande migrazione dalle campagne verso le città, e soprattutto verso
la capitale, creò una penuria di appartamenti, singoli e intere
famiglie condividevano quelli più grandi occupando ognuno una
stanza, i fitti aumentarono in modo vertiginoso e si facevano salti
mortali per mantenere quelli bloccati. Questo è il caso di Rodolfo
che dopo 12 anni di fidanzamento ancora non si può sposare per
mancanza di un alloggio. Vive in subaffitto in un appartamento al
centro, presso la Gran Via, e si illude di poter subentrare
all’anziana titolare del contratto. Dopo che gli hanno spiegato che
questo è possibile solo per vincoli diretti, accetta di sposarla in
modo da acquisire i diritti come vedovo. Ma la “vecchia”, che
sembrava avere i giorni contati, resiste, la aspirante vera sposa
diventa sempre più impaziente e il libretto di risparmio (promesso
in eredità) non si trova ...
Aggiungete i coinquilini (Mari Cruz,
una “allegra” e procace signorina e il callista Dimas, squatrinato e
incapace), la badante di Doña Martina, il datore di lavoro (e che
lavoro) di Rodolfo, il padrone di casa che spera di poter vendere
l’edificio, onnipresenti ragazzini terribili e altri personaggi
singolari e capirete come le situazioni da “commedia tragica” si
presentano in ogni momento.
Una eccellente analisi del film è
compresa nel precedentemente citato documento “Disidencia
en el franquismo”.
271 “Calle Mayor“ (Juan Antonio Bardem, Spa, 1956) * con Betsy
Blair, José Suárez, Yves Massard * IMDb 7,9 RT 83% Gran Premio
della critica internazionale a Venezia
Juan Antonio Bardem (nato in una
famiglia di attori e cineasti, zio di Javier) ha diretto vari film
notevoli, e ne ha sceneggiato molti altri, anche questi di buon
livello. Qui ritroviamo Betsy Blair, (Nomination Oscar per “Marty”,
guardato pochi giorni fa) e stranamente interpreta di nuovo la
"zitella" di buona famiglia e sani principi, ma in questo caso, dopo
essersi illusa di aver trovato l'amore della vita dovrà presto
ricredersi.
Dall'ambiente di Villar del Rio (il
paesino rurale nel quale si svolgeva "Bienvenido mr. Marshall")
siamo passati ad una cittadina qualunque, in qualunque regione (come
dice la voce narrante all’inizio del film) con differenti problemi
sociali; i vitelloni locali, nullafacenti, perditempo e privi di
alcuna considerazione per gli altri (la scena iniziale è eloquente).
Per prendere in giro una “zitella”, nei suoi confronti architettano
un piano forse peggiore del bullismo, l'illudono per poi umiliarla
... situazione certo sfruttata anche in altri film, di solito
conseguenza di stupide scommesse.
In questo dramma neorealista, più
che la vena drammatica risalta quella amara in quanto niente di ciò
che accade è ineludibile o dovuto a pura sfortuna, ma è conseguenza
della superficialità, dei vincoli del conformismo e soprattutto
della cattiveria umana e della mancanza di principi morali. Un
tardivo ripensamento del protagonista non riuscirà a sanare la
situazione, ormai spinta troppo all’estremo, e quindi qualunque
“soluzione” lascerà conseguenze per niente piacevoli, forse
disastrose.
Ottima la sceneggiatura (dello
stesso Bardem) e ottime le interpretazioni, ennesima dimostrazione
di come si possano produrre film di qualità senza grandi budget
(affermazione valida ancora oggi). Oltre a rappresentare
egregiamente un certo tipo di società piccolo-borghese di provincia,
nel film ci sono vari espliciti riferimenti alla censura spagnola e
anche al famoso “Hays Code" americano.
IMDb non fornisce notizie in merito
alla distribuzione in Italia, né ho trovato un titolo italiano, ciò
nonostante la presentazione al Festival di Venezia dove ottenne il
Gran Premio della critica internazionale; fu preso in seria
considerazione per l’attribuzione del Leone d’Oro, che tuttavia
quell’anno non fu assegnato. Per aver preso posizione contro la
censura, Bardem fu arrestato proprio mentre girava “Calle Mayor” ...
qualcuno dice che il fatto lo aiuto ad avere successo
internazionale. Il suo precedente film (altra pietra miliare della
storia del cinema spagnolo) era stato “Muerte de un ciclista”,
distribuito in Italia con titolo “Gli egoisti”.
270 “Bienvenido Mr. Marshall“ (Luis Berlanga, Spa, 1953) tit. it.
“Benvenuto Mr. Marshall!* con Lolita Sevilla, Manolo Morán , José
Isbert * IMDb 8,0 RT 95% * 2 premi e Nomination al Gran Prix a
Cannes
Terminata la breve serie di film
americani vincitori di Oscar mezzo secolo fa e oltre che non avevo
ancora guardato, torno in Spagna con i 5 film analizzati in questa
ottima e dettagliata analisi dal titolo “Disidencia
en el franquismo”. Chiaramente si parla di censura e dei
salti mortali che sceneggiatori e registi (in questo caso Luis
Berlanga e Juan Antonio Bardem) erano costretti a fare per evitare
troppi tagli.
Questo “Bienvenido Mr. Marshall“ è
un film cult, apprezzato dovunque e non solo in patria per la
furbizia e l’acume con i quali riuscì a rappresentare personaggi,
mestieri, ambiente e i vari responsabili dei “poteri” senza
incorrere in troppi ostacoli, che comunque ci furono. La cosa non
era facile in quanto nel film compaiono il Delegado General
(portavoce delle disposizioni della dittatura), l’alcalde, il
parroco, l’hidalgo senza un soldo, eterno bastian contrario e si
parla anche (come intuibile dal titolo) del Piano Marshall e quindi
degli americani ... protestarono anche loro per una bandiera portata
via dalla corrente.
Durante i primi 7 minuti la voce
narrante di Fernando Rey mostra i vari ruoli dei suddetti, ma
descrive anche le attività di farmacista, maestra e allievi, autista
della corriera, barbiere, impresario con cantante al seguito,
banditore con l’immancabile trombetta e via discorrendo. L’ora e
poco più del resto del film è pieno di battute sagaci ed equivoci,
fino ad arrivare al mesto eppure significativo finale. L’unica parte
secondo me discutibile è quella onirica, nella quale Berlanga mostra
sogni e incubi dei vari protagonisti durante la notte prima
dell’arrivo degli americani. Spunti geniali si alternano a idee
banali e talvolta scontate.
“Bienvenido Mr. Marshall“ si rifà in
parte al neorealismo, ma all’epoca non s poteva eccedere in quanto
era assolutamente proibito di mostrare povertà e situazioni
disdicevoli per il governo, ma c’è anche un evidente omaggio al
cinema classico russo con un perfetto piano Pudovkin (massa di
persone con cappelli, ripresi di spalle, seconda foto).
A chi non leggerà l’articolo
suggerito in apertura, anticipo che questo miniciclo continuerà con
“Calle Mayor“ (regia e sceneggiatura di Juan Antonio Bardem, 1956),
“El pisito“ (regia di Marco Ferreri, co-sceneggiato con Rafael
Azcona, 1959), “Viridiana“ (regia e sceneggiatura di Luis Buñuel,
1961), “El verdugo “ (regia di Luis Berlanga, co-sceneggiato con
Rafael Azcona, con la collaborazione di Ennio Flaiano, 1963).
269 “Who's Afraid of Virginia Woolf?“ (Mike Nichols, USA, 1966) tit.
it.
“Chi ha paura di Virginia Woolf?” * con Elizabeth Taylor, Richard
Burton, George Segal, Sandy Dennis * IMDb 8,0 RT 100% * 5 Oscar
(Elizabeth Taylor protagonista, Sandy Dennis non protagonista,
fotografia b/n, scenografia, costumi b/n) + 8 Nomination (miglior
film, regia, Richard Burton protagonista, George Segal non
protagonista, sceneggiatura, montaggio, sonoro, musica originale)
Si nota chiaramente la sua origine
teatrale, ma ciò non pesa più di tanto (nonostante le due ore e
passa di durata) grazie all'ottima sceneggiatura e alle
interpretazioni. Praticamente solo 4 personaggi (2 coppie) e 3 scene
in poche ore notturne, da mezzanotte all'alba, compaiono solo per
pochi attimi due altri personaggi (personale del bar deserto)
interpretati dai coniugi Frank e Agnes Flanagan.
Tutto ruota attorno al travagliato
rapporto di odio/amore/disprezzo fra Martha e Geroge, interpretati
da Elizabeth Taylor e Richard Burton (all’epoca sposi anche nella
vita reale), i quali, complice anche una discreta quantità di alcool
si accusano e si rinfacciano di tutto e di più, si insultano e si
provocano a vicenda anche in presenza della giovane coppia ospite
anche loro in preda ai fumi dell’alcool.
I dialoghi sono brillanti e colti (i
due uomini sono professori universitari), soprattutto considerando
la quasi assenza di freni inibitori e la rabbia che monta, ed è un
piacere ascoltarli seppur spesso urlati. Solo nell’ultima parte,
forse per esaurimento delle energie, i contrasti diminuiscono e
qualcuno deve ammettere la sconfitta, ma si può ben star sicuri che
al risveglio tutto ricomincerà.
Film/dramma teatrale da non perdere.
268 “Marty“ (Delbert Mann, USA, 1955) tit. it.
“Vita di un timido* con Ernest Borgnine, Betsy Blair, Joe Mantell,
Esther Minciotti * IMDb 7,7 RT 100% *
4 Oscar (miglior film, regia, Ernest
Borgnine protagonista, sceneggiatura) + 4 Nomination (Betsy Blair e
Joe Mantell non protagonisti, fotografia b/n, scenografia) * Palma
d'Oro a Cannes
Al contrario del film visto in
precedenza (The Quiet Man) questo mi ha un po’ deluso, anche se sono
senz'altro buone le caratterizzazioni dei personaggi e le
interpretazioni. Ne avevo letto buone recensioni e da tempo era in
lista d’attesa quando è tornato in ballo con “Quiz Show” (di Robert
Redford, visto pochi giorni fa) nel quale è argomento di una domanda
cruciale a John Turturro.
Certo il timido e non certo un Adone
macellaio italoamericano Marty/Ernest Borgnine (che si autodefinisce
“dog”, appellativo utilizzato anche dai suoi amici nei confronti
Clara/Betsy Blair) ha i suoi problemi a socializzare, accompagnato
com’è da un branco di “vitelloni”. A ciò si aggiungono i problemi
familiari avendo una madre (vedova e italiana) che lo incalza per
indurlo a trovarsi una moglie. L’insegnante Clara, oggettivamente
avrebbe più possibilità di lui, sia per il lavoro che svolge che per
non essere proprio brutta, ma si sa, ognuno ha le proprie
fissazioni.
Interessanti i personaggi della
madre e della zia di Marty, entrambe vedove, entrambe molto
italoamericane, che si raccontano i loro guai e preoccupazioni ed
anche quelli degli altri. Esther Minciotti (la madre) e Augusta
Ciolli (esordiente, la zia) sono caratteriste che hanno partecipato
a pochissimi film ma sono ricordate soprattutto per questo in quanto
interpretano quasi sé stesse o quantomeno personaggi che ben
conoscevano.
Merita comunque di essere guardato,
oltre che per l’ottima performance di Borgnine (una volta tanto vero
protagonista) per l’interessante spaccato della vita newyorkese
degli anni ’50, soprattutto nell’ambiente degli immigrati italiani
(non gangster).
Due parole sulla strana carriera
cinematografica di Betsy Blair, appena 21 film nell’arco di 40 anni.
In origine ballerina e benché sposata con Gene Kelly dal 1941 al
1957, non trasse alcun vantaggio specifico dall’essere moglie di
tale star del musical in quanto non apparve mai in nessun film del
genere. Subito dopo aver girato “Marty“ (e aver ottenuto la
Nomination Oscar) finì nella black list dei maccartisti e per questo
si trasferì in Europa dove fu protagonista di buoni film drammatici
fra i quali “Calle Mayor” (J. A,. Bardem, 1956, uno dei migliori
film spagnoli dell’epoca), “Il grido” (Antonioni, 1957), “Senilità”
(Bolognini, 1962).
267 “The Quiet Man“ (John Ford, USA, 1952) tit. it.
“Un uomo tranquillo” * con John Wayne, Maureen O'Hara, Barry
Fitzgerald, Victor McLaglen * IMDb 7,8 RT 90% * 2 Oscar (regia e
fotografia/colore) e 5 Nomination (miglior film, Victor McLaglen non
protagonista, sceneggiatura, scenografia, sonoro) * 3 Premi a
Venezia per John Ford e Nomination Leone d'Oro
Scavando fra classifiche e vincitori
di Oscar, sono giunto a “The Quiet Man“, una vera sorpresa per me,
sembra che la versione doppiata sia stata proposta più volte in
televisione, che io guardo molto poco.
In uno spiritoso ruolo insolito per
lui, troviamo John Wayne e la sua partner di scena è una abbastanza
insipida Maureen O'Hara (per lo più si limita a strabuzzare gli
occhi), ma attorno a loro c’è una pletora di ottimi caratteristi,
perfettamente calati nei rispettivi ruoli.
Si tratta di un fantastico film
americano ma la storia si svolge nelle campagne irlandesi, con un
sacco di personaggi molto particolari, tradizioni e accento molto
Irish, una brillante commedia romantica ben scritta e messa in
scena. Questo è un altro di quei film per i quali la lingua
originale è imprescindibile per goderselo, casomai dai sottotitoli
inglesi per ovviare ad eventuali problemi di comprensione dovuti non
solo all’accento ma anche all’utilizzo di termini desueti se no
proprio obsoleti.
Un Oscar lo avrei senz’altro dato
all’ineffabile Barry Fitzgerald, che non riesco ad immaginare come
possa essere stato doppiato, in particolare nel suo ruolo
professionale di paraninfo!
Da non perdere ... in versione
originale
266 “The Manchurian Candidate“ (John Frankenheimer, USA, 1962) tit.
it.
“Va' e uccidi” * con Frank Sinatra, Laurence Harvey, Angela Lansbury,
Janet Leigh * IMDb 8,0 RT 98% * 2 Nomination Oscar per
montaggio e a Angela Lansbury (la “signora in giallo” della serie tv
“Murder, She Wrote”) non protagonista
L’omonimo film con Denzel Washington
(2004, regia di Jonathan Demme) è indicato come remake di questo di
Frankenheimer ma le storie, pur essendo entrambe concettualmente
congruenti con il romanzo di Richard Condon (1959), sono abbastanza
diverse, soprattutto in quanto contestualizzate in epoche e
situazioni ben distinte. Questa prima versione cinematografica,
infatti, resta molto più fedele al libro e quindi è ambientata a
metà anni ’50, i reduci sono veterani della guerra in Corea e il
dibattito politico verte sugli strascichi della “caccia alle
streghe” promossa da McCarthy; nell’altro, come molti ricorderanno,
la guerra è quella “del Golfo”, la situazione politica è ben diversa
e si tirano in ballo le Corporation.
I due protagonisti sono Frank
Sinatra che impersona Bennet Marco (Denzel Washington nel 2004)
mentre Laurence Harvey è Raymond Shaw (Liev Schreiber nel 2004).
Essendo oltretutto un po’ diversi sia ruoli che la conclusione,
consiglio di guardare questo film, indubbiamente molto migliore come
realizzazione e più interessante, anche se avete visto il film di
Demme e casomai vi ha lasciato un po’ freddini.
265 “Bonnie and Clyde“ (Arthur Penn, USA, 1967) tit. it.
“Gangster Story” * con Warren Beatty, Faye Dunaway, Michael J.
Pollard, Gene Hackman, Estelle Parsons * IMDb 7,9 RT 89% * 2 Oscar
(miglior fotografia e Estelle Parsons non protagonista) e 8
Nomination (miglior film, regia, sceneggiatura, costumi, Warren
Beatty e Faye Dunaway protagonisti e Gene Hackman e Michael J.
Pollard non protagonisti)
Da Arthur Penn sarebbe stato lecito
aspettarsi molto di più ... invece questo “Bonnie and Clyde“ è un
film fatto con i piedi. Non c’è una sequenza credibile, luci
impossibili, posizioni che cambiano, sole che compare e scompare e
ombre fuori controllo, le sequenze in auto sono ridicole con le
scene sullo sfondo che “girano” anche se il volante non viene
assolutamente mosso, i poliziotti restano fulminati con un solo tiro
e loro con ferite multiple o addirittura crivellati di colpi restano
vivi, le auto pur percorrendo strade sterrate e spesso attraversando
campi sono sempre lucide e splendenti, e così via. Ciò dal punto di
vista cinematografico, ma molti dei sostenitori di questo film lo
esaltarono soprattutto per un diverso motivo: il cambio nella
rappresentazione della violenza (considerata l’epoca, è quasi uno
splatter).
Oltretutto l’intera banda viene
presentata come un gruppo di disadattati incapaci (che non sarebbero
restati vivi o in libertà una sola settimana) tanto che i produttori
furono citati in giudizio e furono costretti a pagare un
risarcimento.
Comunque, non condivido i rating e
non capisco il successo che ottenne all’epoca con Oscar e tante
Nomination.
264 “Nashville“ (Robert Altman, USA, 1975) * con Keith Carradine,
Karen Black, Ronee Blakley, Ned Beatty, Geraldine Chaplin, Cristina
Raines, Henry Gibson, Michael Murphy, ... IMDb
7,8 RT 100% * Oscar migliore canzone orinale per "I'm Easy",
composta ed interpretata da Keith Carradine, e 4 Nomination (miglior
film, regia, Ronee Blakley e Lili Tomlin come attrici non
protagoniste)
Nashville, uno dei famosi film
corali di Altman, con tanti protagonisti che si incrociano più vote
ed in varie situazioni nel corso di pochi giorni nei quali tutto
ruota attorno alla musica e all'organizzazione di uno spettacolo
canoro a sostegno di Hal Phillip Walker, un candidato indipendente
alle primarie presidenziali.
Si possono contare un paio di
dozzine di co-protagonisti, ciascuno dei quali è legato in qualche
modo a vari altri secondo uno schema che graficamente potrebbe
essere rappresentato come una intricatissima ragnatela. Ovviamente
ciò fornisce ottime occasioni ad Altman di porne vari nella stessa
scena e passare da uno all'altro con i suoi famosi piano-sequenza.
Tanti sono i volti conosciuti ma non
ci sono grandi nomi, qualche sorpresa viene anche dal fatto che
molti degli attori cantano effettivamente e si scopre così una Karen
Black compositrice e interprete di “Memphis” e “Rolling Stone”,
Keith Carradine è l’autore, oltre che della canzone che gli fece
vincere l’Oscar, anche di “It Don't Worry Me” interpretata da
Barbara Harris in chiusura di film, 3 sono i pezzi composti ed
interpretatati dalla cantautrice Ronee Blakley praticamente al suo
esorsio sul grande schermo che tuttavia dopo la notorietà acquisita
con film e Nomination non si dimostrò molto interessata a continuare
la sua carriera di attrice, Henry Gibson (il piccoletto capo
neonazista di The Blues Brothers) è interprete di 4 pezzi della
colonna sonora e autore di due di essi.
Un film notevole non solo per la
tecnica di Altman ma anche per buone interpretazioni dell’intero
cast, tutti perfettamente calati nel rispettivi personaggi. Molto
piacevole la musica country - con un po’ di bluegrass e gospel - ma
se non la sopportate questo non è il vostro film.
263 “Sullivan's Travel“ (Preston Sturges, USA, 1941) tit. it.
“I dimenticati” * con Joel McCrea, Veronica Lake, Robert Warwick *
IMDb 8,1 RT 100%
Commedia drammatica che comprende
momenti molto vari, dai “parlatissimi” minuti iniziali a varie
sequenze verso la metà del film assolutamente senza dialoghi nelle
quali la narrazione procede solo per immagini, da situazioni
esagerate quasi da slapstick a parti drammatiche, dal ricco ambiente
di cineasti hollywoodiani con tanto di ville, chaffeurs, maggiordomi
e piscine alla vita di senzatetto e vagabondi nonché ad un bagno
penale per i condannati ai lavori forzati.
Joel McCrea è abbastanza
convincente, molto meno lo è Veronica Lake, il resto dei personaggi
sono rappresentati in modo un po’ caricaturale ma gli interpreti
fanno bene la loro parte. Dialoghi brillanti al limite del nonsense,
gag azzeccate e qualche colpo di scena riescono in un modo o
nell’altro a tenere in piedi una sceneggiatura traballante ed in
vari punti scontata.
In sostanza una decente commedia
d’epoca con tanti buoni sentimenti e qualche riferimento alla
situazione sociale (siamo nei primi anni della II Guerra Mondiale),
secondo me sopravvalutata ma tenuta in alta considerazione negli
States.
Una curiosità tutta cinematografica: viene più volte citato un
fantomatico libro "Oh Brother, Where Art Thou?" (di un inesistente
autore Sinclair Beckstein) dal quale il regista Sullivan
(protagonista di questo “I dimenticati”) avrebbe dovuto trarre un
film, cosa che solo oltre mezzo più tardi fecero effettivamente i
fratelli Coen utilizzando esattamente lo stesso titolo (2000, con
George Clooney e John Turturro)
262 “Mean Streets“ (Martin Scorsese, USA, 1973) tit. it. “Domenica
in chiesa, lunedì all'inferno” * con Robert De Niro, Harvey Keitel,
David Proval, Cesare Danova, Richard Romanus, George Memmoli *
IMDb 7,4 RT 96% * presentato nella Quinzaine des Réalisateurs al
Festival di Cannes 1974 e riproposto nel 2018
Vai al post su Discettazioni Erranti
Mean Streets, Scorsese e De Niro insieme
per la prima volta insieme
261 “Quiz Show“ (Robert Redford, USA, 1956) * con Ralph Fiennes,
John Turturro, Rob Morrow * IMDb 7,5 RT 96% * 4 Nomination Oscar
(miglior film, regia, sceneggiatura, Paul Scofield non protagonista)
Questo è un altro di quei film degli
anni ’90 che mi era sfuggito all’epoca della sua uscita (non
riuscivo a seguire molto il cinema) e del quale non avevo neanche
mai sentito parlare, nonostante le 4 Nomination Oscar.
Fra i protagonisti si fa notare
l’allora giovane promettente e rampante Ralph Fiennes, solo alla sua
quarta interpretazione, ma quella precedente era stata in “Schindler
List” per la quale ottenne la sua prima Nomination Oscar come non
protagonista alla quale seguirà un paio di anni più tardi quella
come protagonista di “The English Patient” ... poi sembra essersi
perso, riapparendo qui e là anche in film buoni ma in ruoli poco
incisivi.
Il suo “collega e antagonista” è
John Turturro che, al contrario, aveva già un buon numero di film
alle spalle, inclusi vari con i fratelli Coen e Spike Lee.
I due sono affiancati da un gran
numero di caratteristi e volti noti , fra i quali c’è anche Martin
Scorsese che ha un proprio ruolo e non limitandosi a fare da
comparsa.
La sceneggiatura è basata su una
storia vera e certamente fa aumentare i dubbi in merito alla
regolarità dei tanti “Quiz Show” che ancora riempiono i palinsesti
delle televisioni di tutto il mondo. La buona regia di Redford porta
avanti la storia con una giusta dose di suspense rendendo piacevoli
e scorrevoli le circa due ore di visione.
Niente di eccezionale, ma
onestissimo prodotto senza alcuna particolare pecca.
260 “The Searchers“ (John Ford, USA, 1956) tit. it.
“Sentieri selvaggi” * con John Wayne, Jeffrey Hunter, Vera Miles *
IMDb 8,0 RT 100%
Classico western, di quello con gli
indiani e le immense praterie del west e non del tipo saloon,
sceriffi e allevatori prepotenti.
Certamente spettacolare, con buone
inquadrature, scene ed interpretazioni, tuttavia mi sembra che in
più occasioni manchi di continuità, sia in senso strettamente
cinematografico (sequenza di scene non congruenti), sia come storia
nel suo complesso, con grandi salti temporali ... alla fine si
scopre che fra inizio e conclusione sono passati ben 5 anni!
Comunque è un cult del suo genere e
non solo per la direzione di Ford e l’interpretazione di Wayne.
Ovviamente i titoli inglese/italiano
non sono corrispondenti e quello nostrano mi sembra che abbia poco
senso.
259 “Ángel de fuego“ (Dana Rotberg, Mex, 1991) ) tit. int. “Angel of
Fire” * con Evangelina Sosa, Roberto Sosa, Lilia Aragón * IMDb 6,8
* presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes
1992 * al 78° posto nella famosa lista dei migliori 100 film
messicani
Singolare regista Dana Rotberg, una
delle poche messicane che si sono dedicate ai lungometraggi, ma ne
ha diretti solo 4 nell’arco di ben 25 anni, tutti incentrati sulla
condizione femminile o, almeno, con donne al centro della trama.
In questo caso si tratta di una
giovane trapezista-mangiafuoco, “star” di un malridotto circo di
infima categoria. Figlia di circensi separati, resta incinta dopo un
rapporto incestuoso, si allontana dal circo e si aggrega ad una
specie di santona che rappresenta scene bibliche nel suo teatro
itinerante di marionette, gestito insieme con un paio di giovani
assistenti.
Si può ben comprendere che lo
squallore regna sovrano, ma nel complesso il film è ben fatto.
258 “El vampiro“ (Fernando Méndez, Mex, 1957) tit. it. “La stirpe
dei vampiri” * con Abel Salazar, Ariadne Welter, Carmen Montejo *
IMDb 7,2
Reputato dagli esperti (e
aficionados) un classico del genere horror in America latina, "El
vampiro" compare addirittura al 35° posto nella famosa lista dei
migliori 100 film messicani.
Fedele agli elementi classici dei
vari Nosferatu e Dracula, include ovviamente canini, trasformazioni
in pipistrello, morti che escono dalle bare di notte con tanto di
mantello, picchetti di legno, morsi sul collo e via discorrendo,
eppure la trama non è delle solite viste e riviste, né delle più
banali. Mai sopra le righe, usufruisce di un più che degno commento
sonoro e anche realizzazione, ambientazione e fotografia sono di
ottimo livello, soprattutto se comparato all’infinità di scadenti
B-movies del settore.
In precedenza avevo già visto
“Ladrón de Cadáveres” (1957) anch’esso piacevole e originale.
257 “Bringing up Baby “ (Howard Hawks, USA, 1938) ) tit. it.
“Susanna!” * con Katharine Hepburn, Cary Grant, Charles Ruggles *
IMDb 8,0 RT 95% fino ad una ventina di anni fa era incluso fra i
migliori 100 film americani di sempre (!) e 14° fra le commedie. Non
sono tanto d'accordo per nessuna delle due valutazioni.
Classica commedia americana degli
anni '30 con una coppia di protagonisti d'eccezione, diretti da un
grande regista quale Howard Hawks, che tuttavia sarà ricordato per
ben altri film di tutt’altro genere (p.e western come “Rio Bravo” e
noir come “The Big Sleep”).
In quanto alle commedie interpretate
da Cary Grant, resta insuperabile “Arsenic and Old Laces” (“Arsenico
e vecchi merletti”) di Frank Capra, con Peter Lorre e Raymond Massey,
che quindi resta il mio preferito.
La trama è abbastanza originale ma
scontata in più occasioni, la recitazione un po’ sopra le righe.
Comunque trattandosi di una commedia leggera, ciò è quasi normale e
certamente non guasta la visione.
Per la cronaca, Baby è un simpatico
leopardo.
256 “Svengali “ (Archie Mayo, USA, 1931) * con John Barrymore,
Marian Marsh, Donald Crisp * IMDb 6,9 RT 83% * 2 Nomination
Oscar (fotografia e scenografia)
A distanza di 6 anni ho voluto
ri-guardare questa piccola perla dei primi anni del sonoro. La
storia di Svengali (impostore, musicista e ipnotizzatore) e Trilby
(la sua “vittima”, ma con benefici) è quella di un classico e famoso
feuilleton di fine '800 di George L. Du Maurier, portato molte volte
sullo schermo, talvolta con il titolo originale del romanzo (Trilby)
altre con titolo Svengali. La prima versione è del 1914, la più
recente (diretta da Anthony Harvey, 1983) è interpretata nientemeno
che da Peter O'Toole e Jodie Foster ... un fiasco! L'ottimo John
Barrymore "è" Svengali e l'allora 17enne Marian Marsh (al suo primo
ruolo da protagonista) non può essere che superiore all'insipida
Jodie Foster.
Sostanzialmente drammatico, ma in
più punti emergono chiari toni da commedia per come sono presentati
Svengali, il suo assistente e i suoi vicini aspiranti pittori.
Archie Mayo fu regista eclettico e
noto per il suo cattivo carattere, affrontò i generi più disparati
dai crime con James Cagney ai noir con Humphrey Bogart, alle
commedie con i fratelli Marx.
Le ottime le scenografie di chiara
ispirazione espressionista sono opera di Anton Grot, che per esse
ottenne la prima delle sue 5 Nomination Oscar. Penso che anche la
Nomination per la fotografia di Barney McGill sia stata meritata.
Pur non essendo un capolavoro, e se
non rifuggite dai film degli anni ’30 per partito preso, “Svengali “
merita senz’altro una visione.
255 “Sin City“ (Frank Miller e Robert Rodriguez + Quentin Tarantino
special guest director, USA, 2005) * con Jessica Alba, Clive Owen,
Bruce Willis, Benicio Del Toro, Mickey Rourke * IMDb 8,0 RT 77%
* Technical Grand Prize e Nomination Palma d'Oro a Cannes
Grafica molto accattivante con tanto
cupo e molto contrastato bianco e nero dal quale emergono pochi
colori “sparati” (soprattutto rossi, blu e gialli), trattandosi di
qualcosa simile a un noir è tutto perfetto. La combinazione fra
grafica e attori (alcuni dei quali sostanzialmente “modificati”)
funziona più che bene. Tuttavia, mi sembra che si sia ecceduto con
la voce narrante, classica dei noir.
Tanti attori dai volti molto
peculiari e tutti legati in un modo o nell’altro a film violenti,
crime o thriller.
L’originale montaggio di quattro
storie, diverse ma con qualche scena in comune, mi è sembrato un è
po’ confusionario. C’è un prologo, la prima parte di una storia, poi
due storie a sé stanti, la seconda parte della prima storia, e
infine la conclusione del prologo ...
Un film da guardare senz’altro a
prescindere dall’essere o meno aficionados di graphic novel, ma i
più “sensibili” sappiano che (pur se chiaramente esagerata finzione)
c’è tanta violenza da fare invidia ai film splatter (e non c’è da
meravigliarsi visti i registi).
Particolarmente apprezzabili i
passaggi al b/n quasi negativo; concettualmente, il finale mi ha
ricordato quello di “Man on Fire” (Tony Scott, 2004, con Denzel
Washington).
254 “Alice in Wonderland “ (Tim Burton, USA, 2010) * con Mia
Wasikowska, Johnny Depp, Helena Bonham Carter * IMDb 6,5 RT 57% *
2 Oscar (scenografia e costumi), 1 Nomination (effetti speciali)
Ottimi i disegni e l’animazione,
buona l’interazione con gli attori (tutti sottotono) che risultano
così l’anello debole della catena.
Inizio e fine (le parti con solo
attori) risultano ovviamente banali e poco avvincenti.
Nel complesso scadente, considerato
il curriculum di Tim Burton, il budget elevato e grandi nomi
coinvolti (secondo me tutti sopravvalutati).
253 “The Nightmare before Christmas“ (Henry Selick, USA, 1993) *
animazione - stop motion * IMDb 8,0 RT 96% * Nomination Oscar per
gli effetti speciali
Pur se non ne è il regista, questo
film è inequivocabilmente di Tim Burton, ufficialmente sceneggiatore
e produttore.
Ci propone un mondo popolato dai
“mostri” più amati, quelli preferiti per Halloween, e mette a
confronto questa festa per lo più macabra/horror tutta anglosassone
con il tradizionale buonismo natalizio: The Pumpkin King vs Sandy
Claws (letteralmente “artigli di sabbia”, libera interpretazione di
Santa Claus).
Visivamente molto accattivante, ha
secondo me il limite di comprendere troppe parti cantate (che a me
proprio non vanno giù) il che inevitabilmente rallenta l’azione. A
partire dalle rappresentazioni classiche di vampiri, scheletri, ecc.
sono stati creati “mostri” ad hoc e l’animazione (pur con tutti i
limiti dello stop motion) risulta piacevole e creativa, quindi
divertente e apprezzabile.
Per la cronaca, in italiano le
canzoni sono interpretate da Renato Zero, quelle originali da Danny
Elfman, fedele collaboratore di Tim Burton non solo come cantante ma
anche come compositore.
252 “Il cavaliere inesistente” (Pino Zac, Ita, 1969) * con Stefano
Oppedisano, Hana Ruzickova, Evelina Vermigli-Gori + animazione * IMDb
7,3 RT 77%
Dal romanzo omonimo (1959) di Italo
Calvino, terzo elemento della "trilogia araldica" intitolata “I
nostri antenati”, dopo “Il visconte dimezzato” (1952) e “Il barone
rampante” (1957).
Questa fantastica (in entrambe i
sensi) versione cinematografica del famoso romanzo di Calvino è
stato realizzato con tecnica mista, tanti disegni, stop motion e
pochissimi attori, in pratica solo due (tre volendo considerare
anche Evelina Vermigli-Gori che interpreta Suor Candida), gli sono
semplici comparse. Ciascuno di loro interpreta più personaggi
(ovviamente ben riconoscibili dall’abbigliamento e dalla
situazione), Stefano Oppedisano è di volta in volta Torrismondo,
Rambaldo e Rinaldo, la cecoslovacca Ana Kozyokova veste i panni
della conversa Teodora, Bradamante, Priscilla e Sofronia. Renato
Cominetti dà voce al “cavaliere inesistente” Agilulfo del quale è
possibile vedere solo la (vuota) armatura bianca.
Il siciliano Pino Zac (al secolo
Giuseppe Zaccaria) mette in scena in maniere divertente e geniale
l’arguta storia creata da Calvino, aggiungendo in quasi ciascuna
scena rifermenti a elementi, personaggi ed eventi di epoche
successive, dei generi più disparati, eppure tutti al posto giusto
al momento giusto se visti in modo ironico. Beethoven, Verdi e i
Beatles, orsi/cavalieri del Walhalla con insegne naziste e del Ku
Klux Klan, riviste moderne e parole crociate, Carlo Magno che
canticchia la Marsigliese, carri armati, giocatori football
americano, morra, carabinieri, radiocronache di calcio, sigla
dell’eurovisione e antenne televisive, cancan, tutto si combina
egregiamente alle situazioni paradossali proposte da Calvino.
Un paio di "tormentoni" sono
ambientati nel convento dove si ascoltano le interminabili oziose
discussioni provenienti dal chiostro sulla distinzione fra cardi e
sedani e Suor Candida che continuamente propone alla scrivana
Teodora camomilla, infusi e tisane di ogni tipo di erbe.
Una perla fra letteratura e cinema,
che non dovrebbe essere dimenticata.
Invito a leggere questo interessantissimo, dotto e approfondito post
di Pier Paolo Argiolas
Più che consigliato (in particolare
a chiunque abbia un minimo di cultura classica).
251 “Perceval le gallois “ (Eric Rohmer, Fra, 1978) tit. it.
“Perceval” o “Il fuorilegge” * con Fabrice Luchini, André Dussollier,
Solange Boulanger * IMDb 7,2 RT 89%
Messa in scena in stile teatrale sulla base di parte degli ottonari
di “Le conte du Graal ou le Roman de Perceval” (opera incompiuta di
Chrétien de Troyes, XII sec.) riadattati dallo stesso Rohmer in un
francese più moderno e comprensibile
Fondali e scene sono minimaliste e stilizzate, la musica è dal vivo
con strumenti medioevali e accompagna canti che commentano (quasi
sempre in rima) le azioni di Perceval, mentre i protagonisti parlano
di sé stessi in terza persona.
In quanto alla scenografia, si nota che l’edificio merlato è sempre
lo stesso anche se di volta in volta cambiano le composizioni dei
suoi elementi, gli addobbi, le insegne e i vessilli, e ci sono solo
pochi alberi fra esso e il fondale. Molto scarne, eppure efficaci
nel loro genere, le poche altre scenografie con rocce, la riva di
uno specchio d’acqua, borghi in distanza.
Poco conosciuto anche in patria, giunse nelle sale italiane solo nel
1984 (sottotitolato). Io ebbi la fortuna di guardarlo in occasione
della première assoluta al Festival di Parigi 1978 e ne rimasi
affascinato. A 40 anni di distanza sono riuscito a recuperarlo e
questa opera “anomala” della filmografia di Eric Rohmer mi ha
nuovamente incantato.
Vi invito a leggere questo
ottimo e illuminante articolo che chiarisce e approfondisce vari
aspetti del film
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