200 “Silver Lininig Playbook” (David O.
Russell, USA, 2012) tit. it.
“Il lato positivo” * con Bradley Cooper, Jennifer Lawrence, Robert
De Niro
Commedia drammatico/romantica
abbastanza insensata, con dei buoni interpreti (sulla carta) ma
personaggi poco credibili, a cominciare da quello interpretato da
Robert De Niro. Non del tutto scontata, giustamente trattando di
persone bipolari, procede fra discorsi più o meno insensati, scatti
anche violenti, strilli e insulti ... non avendo esperienze in
merito non posso dire quanto la descrizione dei protagonisti sia
plausibile o accurata.
Avendo soggiornato a lungo e
viaggiato più volte negli States, posso però dire che molte
reazioni, fisime, abitudini sono tipicamente americane e poco
europee, e in vari punti della sceneggiatura mi sembra di vedere
posizioni critiche rispetto a tali atteggiamenti convenzionali.
“Il lato positivo” ha quindi qualche
buono spunto, ma non va oltre la mera sufficienza. Varie delle 7
Nomination non stanno né in cielo né in terra, a cominciare da
quelle di Robert De Niro e Jacki Weaver non protagonisti, ma c’è da
dire che il livello medio dell’edizione Oscar 2013 fu relativamente
scadente tranne poche eccellenze come “Django Unchained” che,
tuttavia, ottenne solo 2 Oscar e 3 Nomination ... ma dai!
IMDb 7,8 RT 92% * Oscar
a Jennifer Lawrence protagonista + 7 Nomination (miglior film,
Bradley Cooper protagonista, Robert De Niro e Jacki Weaver non
protagonisti, regia, sceneggiatura e montaggio)
199 “The dancer upstairs” (John Malkovich, USA, 2002) tit. it.
“Danza di sangue” * con Javier Bardem, Laura Morante, Juan Diego
Botto
Al contrario di "Under the Volcano",
visto il giorno precedente, questo film mi ha molto deluso. Apprezzo
molto John Malkovich attore, ma fare il regista sembra non essere
arte sua e questo è rimasto il suo unico tentativo (forse qualcuno
l’ha consigliato in tal senso).
La storia è tratta da un romanzo
dell’inglese Nicholas Shakespeare che però, essendo figlio di un
diplomatico, è cresciuto fra Estremo Oriente e America Latina e ciò
giustifica l’ambientazione in un non meglio identificato paese
sudamericano al limite della dittatura, fra attentati, intrighi
politici e leggi marziali. Può far pensare alle situazioni viste e
riviste soprattutto in Argentina e Cile ma si mantiene sul vago e
comunque fu parzialmente girato in Ecuador.
Si avvale di un cast etnicamente
vario ma per niente convincente, con lo spagnolo Bardem (non certo
al suo meglio), l’italiana Morante che grande attrice non è,
l’argentino Botto che non cambia mai espressione, qualunque sia il
ruolo e la situazione, l’inglese Cotton, il peruano Manrique, ...
Pur essendo un thriller, i tempi, le
scene e la narrazione in genere non riescono ad essere coinvolgenti,
né a creare suspense.
Tranquillamente evitabile, non vi
perdete molto.
IMDb 7,0 RT 64%
198 “Under the Volcano” (John Huston, USA, 1984) tit. it. “Sotto il
vulcano” * con Albert Finney, Jacqueline Bisset, Anthony Andrews
IMDb 7,1 RT 75% * 2 Nomination
(Albert Finney miglior attore protagonista e commento musicale)
Senza sapere molto del romanzo e
niente del suo autore, ho guardato questo film contando sulla sua
reputazione generale, su Huston e su Albert Finney, attore
sottovalutato nonostante le sue 5 Nomination, 4 delle quali come
protagonista.
L'ho trovato molto al di sopra delle
mie aspettative, sia per la sceneggiatura, sia per l'ottima prova di
Finney e anche per l'eccellente ambientazione ... un piccolo paesino
messicano ai piedi del Popocatepetl, alla fine degli anni '30.
Bastano poche scene per rendere evidente il fatto che sia Malcolm
Lowry (autore dell’omonimo romanzo) che John Huston conoscessero
alla perfezione le tipologie di personaggi rappresentati, le
cantine, la festa del Dia de muertos (ormai conosciuta da tanti
grazie a "Coco"), i combattimenti di galli, le "corride" di
quart'ordine nelle quali chiunque si può cimentare, i bordelli e via
discorrendo.
Cerando ulteriori notizie sul
romanzo ed il suo autore ho scoperto infatti che Lowry (di origini
inglesi) fu un gran viaggiatore e visse a lungo in Messico e negli
USA ed era veramente alcolizzato, fu apprezzatissimo scrittore in
entrambe i continenti, ottenendo innumerevoli riconoscimenti e
onorificenze pur avendo completato solo due romanzi: Ultramarine
(1933) e Under the Volcano (1947). Tanti suoi altri scritti sono
stati pubblicati postumi e si sa che, una volta completati ed
insieme con i due pubblicati, avrebbero dovuto costituire un’opera
unica di proporzioni eccezionali dal titolo “The Voyage That Never
Ends” (Il viaggio che non finisce mai).
Tutti gli avvenimenti di “Under the
Volcano” sono concentrati in un paio di giorni, in un paesino in
festa per il Dia de muertos (2 novembre) che in vari paesi
dell’America Latina ed in particolare in Messico è un evento
gioioso, riunisce le famiglie, dura in effetti più giorni e è
praticamente molto più sentito anche del Natale. In questo clima il
protagonista (ex console inglese) beve quasi continuamente, ragiona
e sragiona, si confronta con la ex moglie (Jacqueline Bisset)
tornata all’improvviso, vaga per le strade fra bambini che giocano,
si ferma a parlare con il medico, anziane veggenti, si scontra con
le autorità.
Secondo me è un ottimo film
realizzato con evidente amore per i messicani e il loro stile di
vita, che con garbo mette anche in evidenza tante differenze
culturali fra i latini, gli inglesi e gli americani.
Mi sembra sia stato sottovalutato
dalla critica e certamente non sono d’accordo con i rating poco più
che sufficenti.
Più che consigliato!
PS - Per puro caso mi è capitato di
guardare "Under the Volcano" pochi giorni dopo un altro ottimo film
incentrato su un alcolizzato allo stadio terminale ("The Lost
Weekend", Billy Wilder, 1945, con Ray Milland). Può essere
interessante guardarli a breve distanza di tempo per le tante
similitudini: protagonista alcolizzato con moglie/fidanzata che
vorrebbe “salvarlo” e fratello affezionato ma più scettico e forse
poco leale, storia concentrata in un paio di giorni, finale tragico.
197 “All the President's Men” (Alan J. Pakula, USA, 1976) tit. it.
“Tutti gli uomini del presidente” * con Dustin Hoffman, Robert
Redford, Jack Warden Martin Balsam, Jason Robards, Jane Alexander
IMDb 8,0 RT 93% * 4 Oscar (Jason Robards non protagonista,
sceneggiatura, scenografia, sonoro) + 4 Nomination (Miglior film,
regia, Jane Alexander non protagonista, montaggio)
Come forse qualcuno saprà, la storia
di questo film inizia dove finisce quella del recente “The Post” (di
Spielberg. 2017) ed ovviamente segue gli sviluppi dello scandalo
Watergate. Si tratta di uno dei migliori film di indagine
giornalistica, in questo caso basato su una storia vera e narrato in
modo relativamente fedele alla realtà dei fatti. Pakula dirige alla
perfezione un cast di ottima qualità nel quale spiccano tanti non
protagonisti e non solo Jason Robards (Oscar) e Jane Alexander
(Nomination).
Eccellente la chiusura con le
notizie battute dalla telescrivente.
Per goderlo appieno è bene conoscere
un po’ di storia di quegli anni, non solo americana, e essere
addentro ai ruoli di FBI e CIA.
Molto interessante ... consigliato.
196 “The Best Years of Our Lives” (William Wyler, USA, 1946) tit.
it.
“I migliori anni della nostra vita” * con Myrna Loy, Dana Andrews,
Fredric March, Harold Russell
IMDb 8,1 RT 96% 249° * 7 Oscar (miglior film, regia, Fredric March
protagonista, Harold Russell non protagonista, sceneggiatura,
montaggio, commento musicale + Nomination per il sonoro e
riconoscimento onorario ad Harold Russell per il supporto)
I 7 Oscar più uno extra mi facevano
sperare in qualcosa di meglio. Resta senz’altro un buon film ma è
troppo scontato, prevedibile, didascalico, insomma di propaganda. Si
deve tuttavia ricordare che la guerra era appena finita e i reduci
feriti e/o traumatizzati erano tanti e non sempre era facile
reinserirsi nella società. A questi si devono aggiungere vedove,
orfani e famiglie colpite da lutti.
Il film si sviluppa seguendo tre
reduci che per puro caso tornano insieme in una piccola cittadina
del midwest, dove avranno diversi tipi di problemi di adattamento in
campo lavorativo e affettivo, ma rimarranno tuttavia amici.
In sostanza, buone le
interpretazioni e la regia, ma la sceneggiatura lascia a desiderare.
195 “Miracle on 34th Street” (George Seaton, USA, 1947) tit. it.
“Il miracolo della 34ª strada” * con Edmund Gwenn, Maureen O'Hara,
John Payne, Natalie Wood
IMDb 7,9 RT 96% * 3 Oscar (Edmund Gwenn non protagonista, miglior
soggetto, miglior sceneggiatura) + Nomination come miglior film
Un intramontabile classico natalizio
per le famiglie americane, commedia garbata e allo stesso tempo
acuta, che propone vari livelli di lettura. Tralasciando la parte
legata al protagonista Kris Kringle (alias di Santa Claus = Babbo
Natale), si trovano infatti tanti spunti critici in merito al
consumismo, alla pubblicità, all’uso errato della psicologia
soprattutto quando è affidata ad incompetenti presuntuosi, potere
giudiziario sottomesso a quello politico, e altro ancora.
Alle ottime interpretazioni degli
adulti, alcuni dei quali si cimentano in ruoli quasi caricaturali,
si aggiunge quella di una giovanissima Natalie Wood (9 anni), già
con vari film alle spalle fra i quali “The Ghost and Mrs. Muir”
uscito pochi mesi prima. Con questo film la giovane attrice si
affermò come enfant prodige e per anni fu la più amata dal pubblico
americano prima di diventare definitivamente famosa a soli 17 anni
con la sua partecipazione a “Rebel without a cause” (Gioventù
bruciata, 1955, di Nicholas Ray) al fianco di James Dean.
Anche se non siamo in periodo
natalizio, lo consiglio.
194 “Psycho” (Alfred Hitchcock, USA, 1946) * con Anthony Perkins,
Janet Leigh, Vera Miles
IMDb 8,5 RT 97% * 4 Nomination
Oscar (miglior regia, Janet Leigh non protagonista, fotografia,
scenografia) * 34° nella classifica IMDb di tutti i tempi
Uno dei miei Hitchcock preferiti e,
in questo caso, sembra che anche la maggior parte di critici e
spettatori siano d’accordo con me. Viene proposta una storia
essenziale, con pochi personaggi ognuno dei quali appare sullo
schermo per un tempo molto limitato. Dialoghi secchi e stringati,
lunghe scene “mute” nelle quali il “maestro del thriller” riesce a
focalizzare l’attenzione dello spettatore su particolari, mostrati e
non mostrati (fa solo vedere lo sguardo di qualcuno puntato nella
direzione di qualche oggetto fuori campo). Tempi perfetti e una
bella fotografia, insieme con il motel isolato dominato dalla
sinistra magione arroccata su una piccola altura fanno il resto.
Eppure c’è qualcosa che secondo me
stona in tutta questa “quasi perfezione” ... la lunga disquisizione
dello psicologo che quasi alla fine del film illustra in dettaglio
(ed in modo eccessivamente prolisso) la doppia personalità del
protagonista è in contrasto stridente con la laconicità del resto
del film ed oltretutto si svolge per intero in una stessa stanza,
senza che niente di rilievo accada. Ma questi sono dettagli,
sottigliezze, che non intaccano il valore
assoluto del film.
Nel caso esistesse qualcuno che non
l’abbia ancora visto ed avesse intenzione di colmare questa sua
grave lacuna, stia attento a recuperare il film giusto (Hitchcock,
1960) e non un (ignobile) remake del diretto da Gus Van Sant, con
Vince Vaughn, Anne Heche, Julianne Moore (IMDb 4,6 RT 37%)
193 “The Postman Always Rings Twice” (Tay Garnett, USA, 1946) tit.
it.
“Il postino suona sempre due volte” * con Lana Turner, John Garfield,
Cecil Kellaway
Originale del noto omonimo film del
1981 diretto da Bob Rafelson (“5 pezzi facili”, “Il re dei giardini
di Marvin”, ...), interpretato da Jack Nicholson e Jessica Lange,
dai più reputato di qualità inferiore al precedente, come la maggior
parte dei remake.
Una torbida storia in una stazione
di servizio/ristorante in California è l’asse portante di questo
noir, che include una parte legale sostanziale, seppur breve, e una
certa suspense, tendendo al thriller.
Nel complesso offre buone
interpretazioni, la meno convincente, tendente allo scialbo, è
quella di Lana Turner (come spesso accade con le bellocce o vamp
hollywoodiane).
Un buon noir d’epoca, ma certamente
non memorabile.
IMDb 7,5 RT 95%
192 “The Lost Weekend” (Billy Wilder, USA, 1945) tit. it.
“Giorni perduti” * con Ray Milland, Jane Wyman, Phillip Terry
IMDb 8,0 RT 100% * 4 Oscar (miglior
film, regia, Ray Milland protagonista e sceneggiatura) + 3
Nomination (fotografia, montaggio e commento musicale)
Seguendo le tracce di film
pluripremiati e di quelli inseriti più spesso in “classifiche” ed
elenchi di vario genere, sono giunto a quest’altro ottimo, seppur
poco conosciuto, lavoro di Billy Wilder, forte di una eccezionale
interpretazione da parte di Ray Milland, a detta di molti la
migliore della sua carriera.
Eccellente dramma della solitudine
ed alcolismo, che ha per protagonista uno scrittore una volta di
belle speranze, ma ora assolutamente incapace di scrivere,
handicappato dal fatto di essere un bevitore compulsivo. Nonostante
gli sforzi del fratello (che praticamente lo mantiene) e della
devotissima fidanzata, riesce sempre a trovare il modo di recuperare
una bottiglia di Rye. Molto ben proposto il rapporto con il suo
bartender “di fiducia” (un ottimo Howard Da Silva), un buon uomo
che, pur avendo interesse a vendere, cerca di dissuaderlo dal bere
nel suo modo esagerato. Da non sottovalutare il pur breve ruolo
della giovane hooker di turno (Doris Dowling), che ha messo gli
occhi sullo scrittore. Interessante il flash back proposto come
ipotetico inizio di un romanzo.
In breve, un film da non perdere.
Come il film visto ieri (To have and
have not), giunse nella sale italiane solo nel 1947.
191 “To Have and Have Not” (Howard Hawks, USA, 1944) tit. it.
“Acque del Sud” * con Humphrey Bogart, Lauren Bacall, Walter Brennan
IMDb 8,0 RT 97% - giunto nella sale
italiane solo nel 1947, con doppiaggio effettuato negli USA, da
attori italo-americani
Ottimo “noir d’avventura” nelle
acque dei Caraibi, diretto da un regista che si cimentò (con
successo) nei generi più diversi, dalle commedie ai noir, dai
polizieschi ai western, e avente come protagonista un’icona di
Hollywood già all’apice del successo quale Bogart, un astro nascente
come l’esordiente Lauren Bacall ed famoso e ineffabile caratterista
Walter Brennan (3 Oscar, oltre 200 film, famoso “vecchietto
terribile” di tanti western).
Ottime le interpretazioni non solo
dei protagonisti ma anche del resto del cast fra i quali spiccano
Dan Seymour (Key Largo, Johnny Belinda, ...) nei panni del
commissario e Marcel Dalio nel ruolo di Frenchy. In questa sua prima
apparizione sullo schermo Lauren Bacall si esibisce anche come
cantante e particolarmente nel canto si nota e sorprende la sua voce
profonda, quasi mascolina, quasi in contrasto con il suo aspetto.
Un film ben costruito con vari
personaggi interessanti, nel quale a una buona dose di suspense fra
qualche sparatoria, interrogatori, ferimenti e successive cure non
professionali, si affiancano una love story, battute di pesca e
riferimenti alla situazione francese fra Governo di Vichy,
partigiani e colonie d’oltremare.
Liberamente tratto dal romanzo
omonimo (ma solo in inglese, in italiano il titolo era correttamente
tradotto in “Avere e non avere”, 1937) di Ernest Hemingway. Un
adattamento un po’ più fedele fu realizzato nel 1950 da Michael
Curtiz con titolo “The Breaking Point” (tit. it. Golfo del Messico)
e infine Don Siegel ne diresse una ulteriore versione nel 1958. Nel
romanzo la storia si svolge fra Florida e Cuba (Key Islands, fra
contrabbando e trasporto clandestini e rivoluzionari), nel film del
’44 alla Martinica con i contrasti politici fra partigiani francesi
e potere fedele a Vichy, in quello del ‘50 nelle acque del Pacifico
fra California e Messico, in quello del ‘58 a Cuba all’epoca dei
primi moti rivoluzionari,
Ancor più distanti dal testo
originale sono (1977) con l’azione spostata fra Bermuda e Haiti, con
traffico di droga e addirittura una versione iraniana diretta da
Nasser Taghvai, ambientata nel Golfo Persico.
Curiosità: fu su questo set che
nacque l’amore fra Bogart e Bacall (25 anni di differenza), i quali
si sposarono l’anno successivo e rimasero uniti fino alla morte di
lui, nel 1957, una delle coppie più durature e più amate dal
pubblico.
190 “La vita è bella” (Roberto Benigni, Ita, 1997) tit. int. “Life
is Beautiful” * con Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Giorgio
Cantarini
IMDb 8,6 RT 80% - 3 Oscar come
miglior film non in lingua inglese, Benigni protagonista e musica
(Alberto Piovani) + 4 Nomination come miglior film, regia,
sceneggiatura e montaggio * al 26° posto nella classifica IMDb dei
migliori film di tutti i tempi
Visto che sono certo che tutti conoscano questa commedia pseudo
drammatica, sarò ancor più breve del solito nell’esprimere il mio
punto di vista.
Il garbo con cui ha trattato il
problema dell’olocausto lo pone certamente al di fuori di quel
filone di film tutti più o meno simili fra loro. Lo vedo come un
sapiente esercizio sul come trattare certi argomenti con ironia,
dicendo e mostrando fatti e avvenimenti tabù per tanti altri.
Sicuramente è un omaggio ad un certo tipo di comicità, rifacentesi
soprattutto a Charlie Chaplin e al molto più moderno Troisi
(scomparso 3 anni prima). Non penso sia un caso che abbia inserito
citazioni “cult” di “Ricomincio da 3”, film di esordio
dell’attore/regista partenopeo del quale era grande amico e con il
quale aveva scritto e diretto l’altra famosa commedia “Non ci resta
che piangere” (1984), quali il “giro del palazzo” per ritrovarsi di
fronte alla sua fiamma e i tentativi di telecinesi (strano che non
siano stati riportati su IMDb). Similmente penso che il cavallo
Robin Hood dipinto di verde sia una citazione di Hollywood Party
(Blake Edwards, 1968), anche se in quel caso si trattava di un
elefante,
I tempi e le ricorrenze di eventi
quasi incredibili sono pressoché perfetti, i personaggi, le
situazioni e i concisi dialoghi sono ben delineati e ben proposti.
La traduzione estemporanea delle disposizioni urlate nel campo di
concentramento è semplicemente geniale.
189 “Les quatre cents coups” (François Truffaut, Fra, 1959) tit. it.
“I 400 colpi” * con Jean-Pierre Léaud, Albert Rémy, Claire Maurier
Alcuni cinefili mi potranno tacciare
di eresia, ma trovo che questo film, per quanto abbia fatto storia
soprattutto per essere innovativo e originale, è più che
sopravvalutato. Appena dopo averlo ri-visto (storcendo un po’ il
naso) sono andato a scavare fra recensioni e “analisi” (mi
piacerebbe chiedere ai registi quanto di vero ci sia nelle
elucubrazioni filosofiche-psicologiche ai quali sono soggetti ...) e
ho scoperto di non essere certo l’unico a ridimensionare questo film
di esordio di Truffaut, pietra miliare della Nouvelle Vague
francese. Fra i fondatori di questa scuola, gli preferisco
senz’altro Godard (che comunque ha dei limiti) e in parte Rivette.
Tutto il gran parlare della problematica giovanile-adolescenziale e
i rapporti fra giovani e istituzioni (considerando tale anche la
famiglia) mi sembra pretestuoso e si sono andati a evidenziare e
analizzare aspetti profondi che probabilmente non erano neanche
negli obiettivi del regista. In quanto alla cinematografia, non mi
sembra che siano state proposte innovazioni radicali e poche riprese
originali non giustificano il clamore suscitato.
Lo vedo come una singola storia, in
parte autobiografica, di un ragazzino certamente molto particolare
che quindi non può trasmettere concetti e valutazioni assolute o,
quantomeno, di carattere generale.
IMDb 8,1 - Nomination Oscar come
sceneggiatura originale - a Cannes 2 Premi e Nomination Palma d’Oro
per Truffaut - al 205° posto nella classifica IMDb dei migliori film
di tutti i tempi
188 “Espaldas mojadas” (Alejandro Galindo, Mex, 1955) * con David
Silva, Víctor Parra, Martha Valdés
Galindo non è inserito fra i vari
ottimi registi della Epoca de Oro del Cine Mexicano, ma certamente è
uno stimato e rispettato regista e sceneggiatore, attivo in Messico
per oltre 50 anni, dopo aver fatto pratica e studiato in ambiente
Hollywoodiano. Nella maggior parte dei suoi film descrive un ceto
medio-basso con un notevole realismo, ma senza cadere nel
melodramma. David Silva fu uno dei suoi attori preferiti e, come
Galindo, fu certamente apprezzato e famoso ma non riuscì mai ad
avvicinarsi alla fama e al successo delle star dell’epoca come Pedro
Infante, Cantinflas, Arturo de Córdova, Pedro Armendariz, Fernando
Soler, Jorge Negrete, ...
In “Espaldas mojadas” Galindo
affronta i temi della immigrazione clandestina dal Messico verso gli
Stati Uniti, dello sfruttamento dei “sin papeles” sia da parte dei
datori di lavoro (nero) che di quelli che li aiutano a passare la
frontiera. Con il termine del titolo (trad. lett. “spalle bagnate”)
sono indicati quelli che attraversano il Rio Bravo (per un lungo
tratto frontiera fra USA e Mexico) in questo caso fra Ciudad Juarez
e El Paso. A oltre 60 anni di distanza poco è cambiato come
concetto, sono solo cambiati i tipi di affari, gestiti da potenti
“intoccabili” ... tutti sanno, tutti criticano, nessuno muove un
dito.
Forse Galindo mette troppa carne a
cuocere e quindi tocca solo superficialmente vari temi connessi
all’immigrazione e lavoro illegali.
Onesto film drammatico, quasi
“impegnato”.
IMDb 7,2
187 “El Callejón de los Milagros” (Jorge Fons, Mex, 1995) tit. int.
“Midaq Alley” * con Ernesto Gómez Cruz, María Rojo, Salma Hayek
IMDb 7,5 - Premio Speciale a Berlino
’95 e Nomination all’Orso d’Oro
Al di sotto delle aspettative. Si è parlato molto di questo film la
cui sceneggiatura è adattata dal romanzo “Midaq Alley” (1947)
dell’egiziano Naguib Mahfouz, premio Nobel per la letteratura 1988.
La storia, anzi le storie che sono
più o meno intrecciate fra loro, sono portate negli anni ’90 e “Il
vicolo del mortaio” del Cairo diventa “El Callejón de los Milagros”
(letteralmente Il vicolo dei miracoli) di Città del Messico. A
quanto ho letto, molti dei personaggi mantengono le proprie
peculiarità e rapporti sociali, tuttavia è impensabile che nella
trasposizione si sia potuta mantenere l’essenza della mentalità e
stile di vita egiziano (arabo) riscrivendo la storia per la cultura
messicana (latina) di fine secolo scorso. Tutti i protagonisti
appartengono ad una stessa comunità di persone non povere, ma
certamente spesso in difficoltà economiche, si conoscono da sempre e
conoscono vita morte e miracoli di ciascuno dei loro vicini; alcuni
di loro sono piccoli imprenditori e hanno una certa cultura,
Nel montaggio, varie scene sono
ripetute da punti di vista diversi ... operazione non certo
originale che in vari casi risulta essere ripetitiva e un po’
stucchevole. Nel complesso penso che ci sia stata molta presunzione
da parte degli autori e produttori di questa commedia drammatica.
Restano comunque buoni spunti,
tipici personaggi ben interpretati sia da attori famosi che da
caratteristi, comunque bravi.
186 “The Razor's Edge” (Edmund Goulding, USA, 1946) tit. it. “Il
filo del rasoio” * con Tyrone Power, Gene Tierney, John Payne, Anne
Baxter, Clifton Webb
IMDb 7,5 RT 83% - 1 Oscar e 3
Nomination
Come si notano le buone sceneggiature basate su romanzi di veri
scrittori, dai cui lavori si possono trarre ottimi film non solo
grazie alla meticolosa caratterizzazione dei personaggi ma anche, e
forse soprattutto, per i dialoghi mai banali. Somerset Maugham è uno
dei miei autori preferiti, insieme con Graham Greene, anche lui
autore di eccellenti romanzi ambientati in ogni parte del mondo e di
scritti pensati direttamente come sceneggiatura, (The Third Man,
Fallen Idol, Our Man in Havana, The Comedians, The Honorary Consul,
The End of the affair, ...).
Come già accaduto in altri film come
Quartet, Trio, Encore, sembra che l’autore inglese si diverta ad
inserirsi nei film, ma in questo caso non in prima persona ma con
come personaggio, interpretato da Herbert Marshall.
Quanto detto per “Colonel Blimp”
(pressoché sconosciuto ma ottimo) vale anche per questo film nel
quale si apprezza un Tyrone Power che non si limita a fare il
“bello” della situazione ma offre una prova più che convincente,
attorniato da altri buoni attori e attrici in ottima vena, fra i
quali Anne Baxter (Oscar non protagonista), Clifton Webb (Nomination
non protagonista), Gene Tierney, John Payne e il già citato Herbert
Marshall.
“The Razor's Edge” ottenne anche
altre due Nomination, come miglior film e per la scenografia. Ne è
stato prodotto un remake nel 1984,diretto da John Byrum, con Bill
Murray ... con scarsi risultati.
Molto del merito deve comunque
essere attribuito alla penna di Somerset Maugham, come al solito
molto caustico nel descrivere i lati peggiori dell’alta società
americana e internazionale.
L’originale è più che consigliato!
Se deciderete di recuperarlo, accertatevi che sia la versione giusta
...
185 “The Life and Death of Colonel Blimp” (Michael Powell e Emeric
Pressburger, UK, 1943) tit. it.
“Duello a Berlino” * con Roger Livesey, Deborah Kerr, Anton Walbrook
In questo pregevole film non si
seguono le vicende del colonello Blimp (come sarebbe lecito pensare)
bensì quelle di Clive Candy, militare di carriera, protagonista di
varie guerre nell’arco di una quarantina di anni. Il “Blimp” del
titolo era il nome di un personaggio di una famosa striscia satirica
pubblicata sui quotidiani inglesi dell’epoca.
La storia è narrata mediante un
unico lungo flash-back che termina ritornando alle scene iniziali
del film. Si parla soprattutto della guerra in sud-Africa (ma la
trama ci porta a Berlino dove si svolge il duello che dà il titolo
alla versione italiana), alla fine della prima Guerra Mondiale e
alla contemporanea (all’uscita del film ) seconda Guerra Mondiale.
In tutti e tre i casi i militari inglesi si confrontano con quelli
tedeschi (o austroungarici) con mentalità e codici diversi.
Si tratta di una commedia
drammatico-satirica, abbastanza critica nei confronti dei militari
più che della guerre in sé per sé, ma soprattutto si auto-ironizza
sull’essere inglesi. In più punti si sottolinea l’irrazionalità dei
militari, i problemi derivanti da preconcetti e propaganda
tendenziosa, il gioco sporco dei tedeschi e la correttezza degli
inglesi (ma ricordate che il film è inglese),
Giunto nelle sale in piena guerra
non fu ben visto dai poteri politi e militari e, ovviamente, non fu
distribuito nei paesi nemici o occupati da nemici ...in Italia
giunse solo nel 1950.
Piacevole, spesso divertente,
arguto, caricaturale, drammatico nella giusta misura ... e non
mancano vari strali nei confronti dei “barbari alleati” americani,
con i quali gli inglesi non si capiscono ...
Personalmente non l’avevo mai
sentito nominare e quindi è stato una piacevolissima scoperta. Viene
quasi sempre inserito fra i migliori film inglesi di tutti i tempi.
IMDb 8,2 RT 96%
PS - Deborah Kerr interpreta 3
diversi personaggi, in epoche diverse, tutti con identiche
sembianze. In quanto agli altri protagonisti, un ottico trucco li fa
invecchiare di 40 anni. Notevole, per l'epoca, il trattamento del
colore
184 “A Touch of Zen” (King Hu, HongKong, 1971) tit. or. “Xia nü”
tit. it.” La fanciulla cavaliere errante” * con Feng Hsu, Chun Shih,
Ying Bai
Pare che questo sia stato il film
che ha dato la stura alla serie moderna di wuxia, con i suoi
incredibili salti e voli. La trama è degna di un western di Leone o
di un thriller, ben congegnata e piena di sorprese e personaggi
enigmatici che spesso non sono quelli che dicono di essere.
Tuttavia, c’è da dire che “A Touch of Zen”, oltre a soffrire di una
eccessiva lunghezza (3h20’ originali, ridotta a 3 ore per la
versione dvd, nei cinema venne spesso proposto in due parti) è molto
poco bilanciato. Gli appassionati di arti marziali possono
lamentarsi del fatto che per vedere il primo combattimento devono
aspettare quasi un’ora, mentre chi è rimasto coinvolto dagli
intrighi e suspense di tale prima parte rimane deluso della
“inutile“ (per loro) lungaggine dei soliti combattimenti pieni di
rovesciamenti di situazione prima di giungere alla scontata
conclusione.
Col senno di poi anche i “voli”, che
all’epoca sembrarono straordinari, sono ben poca cosa rispetto a
realizzazioni più moderne come quelle spettacolari di “House of
Flying Daggers” (1994, diretto da Yimou Zhang, or. “Shi mian mai
fu”, it. “La foresta dei pugnali volanti”), che riprende quasi come
una citazione gli scontri nella foresta di bambù.
Le ambientazioni in genere sono di
ottimo livello, da quelle del forte in rovina a quelle del monastero
buddista immerso nella foresta, al lato di un torrente pieno di
enormi massi levigati, per finire con l’affascinante paesaggio
semidesertico delle scene conclusive.
IMDb 7,6 RT 96% - Gran Premio per
la tecnica e Nomination alla Palma d’Oro a Cannes1975
183 “Double Suicide” (Masahiro Shinoda, Jap, 1969) tit. or.
“Shinjû: Ten no Amijima” * con Kichiemon Nakamura, Shima Iwashita,
Shizue Kawarazaki
Film che rasenta la perfezione (che
secondo me non esiste) e quindi è assolutamente eccellente. I motivi
sono molteplici; ad una precisa fotografia in bianco e nero, piena
di contrasti linee rette e curve, si aggiungo un’ottima recitazione,
una interessante storia d’amore/dipendenza, fra dovere e volere, le
scenografie spesso teatrali e la originalissima commistione fra la
rappresentazione bunraku (grandi marionette, ciascuna manovrata da
tre persone, visibili sulla scena) ed il teatro classico.
Masahiro Shinoda non lascia niente
al caso ed ogni singola inquadratura è ben studiata, organizzata e
filmata. Piani sequenza, composizioni e movimenti di macchina sono
congegnati e combinati in modo esemplare.
Questo è uno di quei film nei quali
la trama è di secondaria importanza, il suo fascino risiede tutto
nella cinematografia: scene, attori, riprese, montaggio compongono
uno spettacolo ammaliante per qualsiasi cinefilo.
Tutto ciò in bianco e nero e senza
effetti speciali!
Questo è vero cinema!
IMDb 7,8 RT 87%
182 “Tales of the Taira Clan” (Kenji Mizoguchi, Jap, 1955) tit. or.
“Shin Heike monogatari” tit. it.
“Nuova storia del clan di Taira” * con Narutoshi Hayashi, Raizô
Ichikawa, Tatsuya Ishiguro
Penultimo film di Mizoguchi, l’anno
successivo (1956, anno della sua morte, a soli 58 anni) avrebbe
diretto “La strada della vergogna” (Akasen Chitai), uno dei suoi
film più conosciuti, premiato a Venezia.
Le storie alle quali si riferisce il
titolosono per lo più relative intrighi e politici e lotte di
potere, ma di combattimenti e scontri se ne parla tanto ma si mostra
poco ... e questo è per me un pregio. Siamo nel XII secolo, un
periodo nel quale si confrontavano (come spesso accadeva e talvolta
ancora oggi accade) le forze legate al clero/religione e quelle
legate alla nobiltà/potere economico, con i samurai e i loro clan
usati più o meno come mercenari, che avrebbero voluto avere voce in
capitolo ma non sempre ci riuscivano.
Inutile dire che anche in questo
caso, da una trama più o meno banale, fra cortigiane, tradimenti e
figli illegittimi, Mizoguchi riesce a dare consistenza ai personaggi
e alle situazioni, producendo un film di grande pregio.
IMDb 7,5 RT 87%
181 “Carmen torna a casa” (Keisuke Kinoshita, Jap, 1951) tit. or.
“Karumen kokyō ni kaeru” * con Hideko Takamine, Shûji Sano, Chishû
Ryû
Questo l’ho scelto per curiosità
cinefila, essendo il primo film a colori girato in Giappone. Nulla
di eccezionale al di là di essere una piacevole commedia destinata
al grande pubblico, interpretata da attori famosi e di notevole
livello. I colori non sono niente male e i variopinti vestiti delle
protagoniste e le scene all’aperto (teoricamente ... per quanto ben
realizzati, è evidenti che si tratti di fondali) aiutano a dare un
senso di allegria.
La Carmen del titolo è una ragazza
scappata dal villaggio nel quale si svolge il film quando era
adolescente e andata in città dove è diventata una famosa artista
... spogliarellista. Il suo ritorno in paese dopo molti anni,
accompagnata da una compagna di lavoro altrettanto disinibita e
appariscente, crea un prevedibile notevole scompiglio ... bisogna
tener presente che siamo negli anni del dopoguerra dell’abbastanza
puritano Giappone
Un divertente svago di un’ora e
mezza circa.
IMDb 6,7
180 “Il compleanno” (Akira Kurosawa, Jap, 1993) tit. or. “Maadadayo”
* con Tatsuo Matsumura, Hisashi Igawa, George Tokoro * IMDb 7,5 RT
87%
Ultimo della serie di 5 film diretti
da Kurosawa (una trentina di lungometraggi diretti fra il 1943 e il
1993) che non avevo ancora visto e che ho recuperato, ultimo dei
suoi 32, uscito 5 anni prima di morire.
Il regista conclude così la sua
lunga carriera con un acuto (seppur non perfetto) tornando allo
stile classico, con una storia che si svolge per lo più nel durante
e immediatamente dopo la guerra e solo la conclusione quasi 20 anni
dopo, in un ambiente famigliare degno di Ozu, con una ottima
descrizione del personaggio principale, il professor Hyakken Uchida,
letteralmente adorato dai suoi vecchi studenti. Notevoli sono le
interpretazioni, non solo di Tatsuo Matsumura (il professore) e
Hisashi Igawa (la devota moglie), ma anche degli studenti, del
dottore di famiglia e del monaco. Il makeup necessario per
invecchiare o ringiovanire i protagonisti non è tuttavia un granché.
Nel complesso, un film piacevole,
molto ben realizzato, tendente al sentimentale sia per il continuo
affetto dimostrato dagli studenti (e dei loro “discendenti”) nei
confronti del professore (dalla lacrima facile), per l’affetto di
quest’ultimo nei confronti di Nora (il gatto randagio da lui
adottato), per il suo ironico rapporto di sfida con la morte che lo
fa sembrare quasi un testamento/messaggio di Kurosawa.
A tal proposito, sappiate che il
titolo è una contrazione della risposta data agli studenti
all’inizio dei convivi per celebrare il compleanno del professore
che nell’occasione tracanna un grande rituale bicchiere di birra.
Loro chiedono in coro "Mada kai?" ("Sei pronto?") e lui risponde
"Mada dayo!" ("Non ancora!"),
Da non perdere, a prescindere dal
fatto di conoscere o meno i precedenti lavori di Kurosawa.
179 “Dodesukaden” (Akira Kurosawa, Jap, 1970) * con Yoshitaka Zushi,
Kin Sugai, Toshiyuki Tonomura
La sceneggiatura (alla quale
collaborò lo stesso Kurosawa) è un intreccio di storie tratte da un
romanzo di Shûgorô Yamamoto. Si svolgono in un ambiente estremamente
degradato e povero ai margini della città, fra macerie e rifiuti. Ho
trovato i personaggi descritti in modo non convincente, fra il
caricaturale e il surreale ... molto lontano dal realismo con il
quale tanti altri hanno “usato” ambienti simili, da Pasolini a
Buñuel, da Ghobadi a Walker.
Per me molto deludente, con colori
troppo manomessi, storie non convincenti, protagonisti labilmente
connessi fra loro.
Dodesukaden appartiene chiaramente
alla maturità di Kurosawa (all’epoca 60enne) ed è il secondo di una
serie di film che curiosamente il regista diresse (con alterne
fortune, in vari casi ben diversi dal suo stile “classico”) ogni 5
anni, non so se per scelta, contratto o per puro caso, dal ’65 al
’90.
Questo fu preceduto da Barbarossa
(1965) e seguito da Dersu Uzala (1975), Kagemusha (1980), Ran
(1985), Sogni (1990, l’altro flop).
Si deve comunque ricordare che
questo film fu incluso fra i 5 candidati all’Oscar 1972 come miglior
pellicola non in lingua inglese.
IMDb 7,4 RT 63%
178 “The Idiot” (Akira Kurosawa, Jap, 1951) tit. or. “Hakuchi”, tit.
it.
"L'idiota" * con Setsuko Hara, Masayuki Mori, Toshirô Mifune
Come qualcuno avrà già immaginato,
si tratta di uno dei tanti adattamenti di classici europei operato
da Kurosawa, che successivamente diverrà famoso soprattutto per
trasportare in Giappone vari drammi Shakespeariani.
Chiaramente, l’ambiente
completamente diverso non permette una fedele narrazione degli
eventi, ma certo non era questo l’intento del regista giapponese. In
questo caso il protagonista è Masayuki Mori (Kameda, l’omologo del
principe Myškin) e non il solito Toshirô Mifune che invece
interpreta il suo amico Akama, mentre l’onnipresente Takashi Shimura
(261 film in 47 anni) compare stavolta in un ruolo secondario. Le
due prime donne sono interpretate dalla musa di Ozu Setsuko Hara,
(Taeko Nasu = Natascia) contrapposta alla giovane, cocciuta e
combattiva Yoshiko Kuga (Ayako = Aglaja).
Sapendo di che si tratta, è inutile
sottolineare che il film risulta un po’ “pesante e deprimente”, sia
per la lunghezza (2h46’) sia per tutti i macchiavellismi e
cambiamenti di umore di Taeko Nasu ed Ayako che avrebbero
spazientito perfino il più tranquillo degli uomini e solo “l’idiota”
Kameda sembra esserne più o meno immune.
Film adatto agli amanti dei classici
ed in particolare a chi ha letto il romanzo originale che avrà modo
di notare (apprezzandoli o meno) tutti gli adattamenti dei
personaggi e degli eventi nel passaggio dalla Russia di metà ‘800 al
Giappone contemporaneo del dopoguerra.
IMDb 7,3 RT 86%
177 “Scandal” (Akira Kurosawa, Jap, 1950) tit. or. “Shûbun” * con
Toshirô Mifune, Takashi Shimura, Shirley Yamaguchi, Yôko Katsuragi
Kurosawa ripropone la coppia Toshirô
Mifune, Takashi Shimura in questa commedia drammatica, quanto mai
attuale. Come suggerito dal titolo, si tratta di uno scoop (non
vero) di una presunta relazione fra una famosa cantante e un noto
pittore che, per puro caso, si incontrano in un paesino di montagna
e vengono fotografati insieme sul balcone di un alberghetto. I due
decideono di far causa all’editore della rivista, ma la cosa si si
complica ulterioremente a causa dell’intervento di un
“azzeccagarbugli” interpretato da Takashi Shimura.
Ancora una volta, si nota il gran
cambiamento dei modi di vita giapponesi, già “corrotti” dagli stili
americani. Siamo in periodo natalizio e Toshiro Mifune porta un
albero di Natale sulla sua moto mentre nell’aria si diffondono le
note di “Silent Night, Holy Night” e “Jingle Bells”.
Film poco noto, ma di ottima
fattura.
IMDb 8,0 RT 96%
176 “Drunken Angel” (Akira Kurosawa, Jap, 1948) tit. or. “Yoidore
tenshi”, tit. it. “L’angelo ubriaco” * con Takashi Shimura, Toshirô
Mifune, Reizaburô Yamamoto
Interessante noir drammatico che
ruota attorno allo strano rapporto di eterna sfida fra un dottore
alcolizzato (Takashi Shimura) ed un gangster malato di tubercolosi (Toshirô
Mifune). Al margine degli scontri fra i due ci sono ovviamente donne
e vari altri malviventi.
Il film scorre fluido, con numerose
svolte e sorprese, e quasi non ha momenti di pausa. Forse, solo la
scena nella quale i due gangster si affrontano è tirata un po’ per
le lunghe e appare troppo drammatizzata.
Nel complesso, un altro ottimo
lavoro di Kurosawa che, oltre ai succitati Shimura e Mifune, dirige
alla perfezione anche le varie attrici e i tati caratteristi.
IMDb 7,8 RT 100%
175 “Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera” (Kim
Ki-duk, Kor, 1996) tit. or. “Bom yeoreum gaeul gyeoul geurigo bom” *
con Ki-duk Kim, Yeong-su Oh, Jong-ho Kim *
IMDb 8,1 RT 94%
Film senza dubbio girato con
eccellente gusto in un ambiente spettacolare, in ogni stagione ...,
e ciò vale sia per la casa galleggiante (ma non si pensi ad una
houseboat), sia per lo specchio d’acqua sul quale si sposta
lentamente mossa dal vento, sia per i boschi e ruscelli dei
dintorni. La trama si sviluppa non solo nelle stagioni, ma anche in
periodi della vita del protagonista molto differenti, a distanza di
almeno una decina di anni l’una dall’altra. Di conseguenza, il
protagonista viene proposto e “analizzato” attraverso pochi eventi,
temporalmente ben distinti fra loro, e quindi rimane solo un
abbozzo.
Sono certo che, sapendo cogliere
tutti i particolari inseriti in ciascuna scena da Kim Ki-duk
(regista e interprete), si otterrebbe una lettura molto più profonda
e completa ma, se non si è esperti di buddismo e di simbologia
orientale in genere, inevitabilmente si perdono tanti contenuti. I
disegni e gli intagli su legno (per lo più animali) hanno
sicuramente un proprio significato, la lunga scritta in ideogrammi
che il maestro scrive sulla piattaforma davanti alla casa avrà certo
una sua lettura, molte azioni sono parte di un rituale.
Non essendo tutto ciò facilmente
comprensibile dalla stragrande maggioranza degli occidentali, penso
che le sperticate lodi siano eccessive e non giustificate da una
semplicistica lettura dell’essenza dell’isola, delle stagioni
astronomiche assimiliate alle stagioni della vita, delle porte non
contornate da pareti, dell’acqua che sgorga continuamente su una
zattera ...
Anche la continuità lascia molto a
desiderare, con la barca mossa in direzioni incongruenti, vento e
calma piatta che si alternano in semplici campo e controcampo, i
protagonisti che spesso appaiono in modo misterioso, e via
discorrendo.
In conclusione, il film è una
goduria per gli occhi ma in quanto a logica e comunicazione lascia
molto a desiderare.
174 “Sling Blade” (Billy Bob Thornton, USA, 1996) tit. or.
“Lama tagliente” * con Billy Bob Thornton, Dwight Yoakam, J.T. Walsh
Film tutto di Billy Bob Thornton ...
regista, autore del dramma originale e dell’adattamento per il
cinema, protagonista. Nel 1997 vinse l’Oscar per la sceneggiatura e
ottenne la Nomination come miglior attore protagonista.
La scena di apertura mi è tanto
sembrato un omaggio a “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (Milos
Forman, 1975, 5 Oscar) ma, stranamente, non ho trovato tali
riferimenti fra le “Connections” su IMDb ... comunque per me è
inequivocabile, non solo per l’ambiente, ma anche per l’aspetto
fisico di vari “ospiti” e delle loro capigliature.
Il protagonista, dopo un lungo
soggiorno in un “manicomio criminale” (si può chiamare anche in
altri modi, ma questa è l’essenza), torna nella sua cittadina di
origine nella quale quasi nessuno lo ricorda e, praticamente, non ha
legami familiari. Ciononostante, quasi nessuno fa domande e viene
accettato nella comunità, cosa molto strana se non incredibile in un
paesino dell’Arkansas.
Dopo appena una mezz’ora, la
conclusione è già facilmente prevedibile si deve solo avere la
pazienza di aspettare un’altra oretta.
I personaggi, per quanto ben
interpretati, sono poco plausibili, e l’atteggiamento del
protagonista (per quanto limitato dai suoi problemi psichici) è
ingiustificatamente troppo monotono durante tutto il film.
Forse anche in questo caso, come in
vari altri ultimamente, mi sono fatto prendere troppo dalle
sperticate recensioni di molti e ho affrontato il film con
aspettative troppo alte, ottenendo una relativa delusione.
Certamente sopra la media, ma di
sicuro non è ilcapolavoro descritto da molti.
IMDb 8,0 RT 96% * Billy Bob
Thornton vinse l’Oscar per la sceneggiatura e ottenne la Nominaton
come protagonista
173 “Ed Wood” (Tim Burton, USA, 1994) * con Johnny Depp, Martin
Landau, Sarah Jessica Parker, Patricia Arquette
IMDb 7,9 RT 92% * 2 Oscar: a Bela Lugosi come miglior attore non
protagonista e per il make-up.
Un poco al di sotto delle
aspettative ... penso che Johnny Depp nel ruolo del protagonista sia
stata una scelta infelice ... non è “La fabbrica di cioccolato” né
un film della serie “Pirati dei Caraibi” nei quali può andare avanti
fra smorfie e sorrisetti. Al contrario, Martin Landau riesce a dar
vita ad un Bela Lugosi eccezionale ottenendo con questa
interpretazione l’Oscar come miglior attore non protagonista. Al di
là della sua palese bravura, imitando perfino la sua particolare
parlata alla perfezione (che ovviamente è possibile notare solo
nella versione originale e a patto di aver visto anche vari film di
Lugosi in originale) è stato aiutato anche da un ottimo lavoro di
makeup (altro Oscar per il film). Anche il mitico Tor Johnson è
"replicato" in maniera esemplare da un altro ex-wrestler: George
'The Animal' Steele.
In particolare chi ricorda “Glen or
Glenda” e “Bride of the Monster” può riconoscere e apprezzare varie
scene di detti film, ricostruite con grande cura e attenzione ai
particolari. Quasi come ha fatto James Franco l’anno scorso
proponendo con “The Disaster Artist” un personaggio molto simile a
quello di Ed Wood, l’attore-autore-produttore-regista Tommy Wiseau,
talmente incapace da avere una notevole fama con il suo (per
fortuna) unico film “The Room” (2003).
In un film come questo, con molte
scene ambientate in uffici di produzione, studios e “ambienti
cinefili”, i riferimenti, le citazioni e i poster messi in bella
mostra sullo sfondo, non si contano. Una buona conoscenza del cinema
d’epoca e la visione preventiva dei film originali diretti da Ed
Wood aiutano certamente a cogliere dettagli che ad altri che ad
altri sfuggono.
Nel complesso un buon film, anche se
un po’ sopravvalutato.
172 “The Story of the Last Chrysanthemum” (Kenji Mizoguchi, Jap,
1939) tit. or.
“Zangiku monogatari”, tit. it. “La storia dell'ultimo crisantemo” *
con Shôtarô Hanayagi, Kôkichi Takada, Ryôtarô Kawanami
Ho trovato un po’ lunghe le parti
teatrali inserite verso la fine, a prescindere dal capirci molto
poco. Infatti solo chi ha conoscenza del teatro classico giapponese
avrebbe potuto comprendere il senso ed eventuale importanza delle
rappresentazioni, soprattutto in mancanza di sottotitoli per le
scene sul palcoscenico.
Tutto il resto è un ottimo dramma,
adattato dal romanzo di Shôfû Muramatsu, filmato da Mizoguchi con la
sua solita maestria e molto ben interpretato. Si tirano in ballo
relazioni umane, da quelle gerarchiche familiari alla difesa
dell’onore del nome, dalla difesa delle “apparenze” all’amore
disinteressato, alle mire di successo professionale.
Tanti sono gli ottimi piani
sequenza, quasi un marchio di fabbrica di Mizoguchi, e ad essi si
aggiungono le scene interne, nei quali il regista riesce abilmente a
creare profondità di campo anche ambienti ridotti, scegliendo
opportuni angoli di ripresa e sfruttando la peculiare struttura
degli interni delle case giapponesi. Aprendo opportunamente pannelli
scorrevoli o inquadrando d'infilata ripide scale riesce a creare
inquadrature che rasentano la perfezione. La sua abilità risalta
anche nelle riprese teatrali, nelle quali propone scenografie
mobili, a profondità successive.
Ennesimo gran bel film di Mizoguchi.
IMDb 7,9 RT 92%
171 “Cruel Story of Youth” (Nagisa Oshima, Jap, 1960) tit. or.
“Seishun Zankoku Monogatari” tit. it. "Racconto crudele della
giovinezza" * con Miyuki Kuwano, Yûsuke Kawazu, Yoshiko Kuga *
IMDb 7,0
Strano film questo secondo
lungometraggio (quasi il primo in quanto il precedente era di appena
un’ora) del giapponese Nagisa Oshima, che poi sarebbe diventato uno
dei registi più rappresentativi della New Wave nipponica, insieme
con like Yoshida, Imamura e Shinoda.
Staccandosi dagli schemi preferiti
dai grandi maestri (Ozu, Kurosawa, Mizoguchi) si occupa con stile
originale della gioventù ribelle giapponese, di quelli nati o
cresciuti nel pieno della guerra e condizionati forse più dalla
cultura dei vincitori (americani, all’epoca ancora su suolo
nipponico) che dalla loro tradizionale. Sono ribelli, non rispettano
quasi niente e nessuno, a cominciare dalla famiglia, e
trasgrediscono in ogni modo possibile ... cacciandosi ovviamente nei
guai. Non è un film eccezionale, ma comunque più che buono ed
interessante se correttamente inquadrato nel momento storico.
Non dimentichiamo che nel ’60 in
Europa la Nouvelle Vague francese era pressoché al suo culmine di
notorietà
170 “Audition” (Takashi Miike, Jap, 1999) tit. or.
“Ôdishon” * con Ryo Ishibashi, Eihi Shiina, Tetsu Sawaki *
IMDb 7,2 RT 81%
Non conoscendo lo stile del regista
Miike e non sapendo quasi niente della trama, per me Audition è
iniziato come una commedia romantica che ben presto si è orientata
verso il mistery, per poi passare al thriller e concludersi come un
horror.
Film ben realizzato anche se ho
letto che chi conosceva i precedenti lavori del regista si lamenta
per non aver visto niente di nuovo, chi si aspettava un horror è
rimasto deluso dal fatto di dover aspettare l’ultima mezz’ora per
vedere il terrore negli occhi del protagonista.
Non avendo aspettative ed essendo
all’oscuro di tutto sembra quindi che ne abbia tratto vantaggio.
Pur apprezzando in gran parte lo
stile e la sceneggiatura, devo dire che a partire dal punto di
svolta, a due terzi della durata, il film diventa di non facile
lettura, piombando in un eccessivo caos spazio-temporale.
Ho letto che Quentin Tarantino lo
pone nella top list degli horror e, se si considera che solo
l’ultima parte può essere classificata di quel genere, è un gran
complimento.
Interessante lavoro, merita una
visione
169 “Tampopo” (Jûzô Itami, Jap, 1985) * con Ken Watanabe, Tsutomu
Yamazaki, Nobuko Miyamoto
* IMDb 7,9 RT 100%
Cinema e cibo ... ottimamente
combinati in una commedia raffinata, con tante brevi storie
intercalate alla trama principale, spesso completamente avulse, ma
sempre con il comune denominatore del “buon mangiare” ... fino alla
geniale scena finale (muta) sulla quale scorrono i titoli di coda.
Gli amanti della tavola si potranno fare una cultura in merito ad un
piatto base della cucina orientale e prendere spunto per tante
possibile varianti adattate agli ingredienti tipici mediterranei.
Buon ritmo, personaggi peculiari ben
pensati e ben interpretati, sceneggiatura varia e piena di sorprese,
fanno di questo film un gioiellino leggero, un ottimo passatempo di
qualità ben diverso dal “solito cinema giapponese” ... almeno dal
cliché dell’immaginario collettivo.
Consigliato.
167 “Vengeance is Mine” (Shôhei Imamura, Jap, 1979) tit. or.
“Fukushû suru wa ware ni ari”, tit. it.
“La vendetta è mia” * con Ken Ogata, Rentarô Mikuni, Chôchô Miyako *
IMDb 7,9 RT 100%
168 “La Ballata di Narayama” (Shôhei
Imamura, Jap, 1983) tit. or. “Narayama bushikô” * con Ken Ogata,
Sumiko Sakamoto, Tonpei Hidari* IMDb 7,9 RT 100% * Palma d’Oro a
Cannes
Questi due film di Imamura mi hanno
lasciato un po’ con l’amaro in bocca, anche se per motivi
differenti, considerato che sono fra i suoi più noti e acclamati.
Dopo aver guardato in ordine non cronologico Erogotoshi-tachi yori:
Jinruigaku nyûmon (The Pornographer, Introduzione all'antropologia,
1966) e Kuroi Ame (Black Rain - Pioggia nera, 1989) e “Pigs and
Battleships” (1961), tutti molto apprezzati, mi aspettavo qualcosa
di più.
A quasi 20 anni di distanza da “Pigs
and Battleships” e 4 anni prima di affermarsi a livello
internazionale con “La Ballata di Narayama”, Shôhei Imamura dirige
“Vengeance is Mine”, molto vicino ad essere un biopic di un famoso
serial killer giapponese degli anni ’60 che fu braccato per quasi
tre mesi su tutto il territorio nipponico. Ho scritto “quasi” in
quanto della sua infanzia e degli anni precedenti ai suoi crimini
sono proposte solo poche scene che, ovviamente, non riescono a
caratterizzare a dovere il personaggio e tantomeno a giustificarne
le azioni. Ne scaturisce quindi una cronaca precisa, fredda (come
l’assassino), certamente ben realizzata ma poco coinvolgente.
In Narayama mi ha invece lasciato
perplesso il poco equilibrio del film nel suo complesso. Parti
eccellenti (come l’ultima mezz’ora) si alternano ad altre meno
interessanti e, tutto sommato, ripetitive. I drammi personali si
alternano a quelli sociali nel piccolo villaggio di montagna, nel
quale sopravvivere è molto difficile e quindi, per tradizione, si
ricorre all’eliminazione fisica dagli anziani che raggiungono i 70
anni.
Ottima la fotografia di Masao
Tochizawa che si è cimentato, con successo, in campi molto
differenti, vale a dire gli esterni raramente assolati, spesso
brumosi, gli interni molto scuri con luce quasi esclusivamente
naturale e brevi scene, quasi macro, di animali selvatici, dai
serpenti ai roditori, in eterna lotta fra loro, e ai tanti uccelli
di caratteristiche e dimensioni molto diverse.
Questo film drammatico è basato sul
romanzo omonimo di Shichirô Fukazawa ed è un remake in quanto la
stessa storia era già stata portata sullo schermo nel 1958 da
Keisuke Kinoshita, anche questo molto ben accolto dalla critica.
Imamura conferma il suo interesse
per i personaggi al limite della società “civile”, ben diversi dai
medioborghesi protagonisti della maggior parte dei film del suo
primo maestro Ozu e in qualche modo mi riporta alla mente il
messicano Arturo Ripstein, con i suoi emarginati e/o discriminati.
Scorrendo la filmografia di Imamura,
mi è venuta voglia ora di recuperare un altro suo vecchio film,
Hateshinaki yokubô (1958, Endless desire - Desiderio inappagato) una
black comedy che spero sia dello stesso livello di “Pigs and
Battleships” (1961).
166 Funeral Parade of Roses (Toshio Matsumoto, Jap, 1969) tit. or.
Bara no sôretsu * con Pîtâ, Osamu Ogasawara, Yoshimi Jô * IMDb 8,2
RT 86%
Recensione nel post su Discettazioni Erranti
165 “Pale Flower” (Masashiro Shinoda, Jap, 1964) tit. or.
“Kawaita hana”, tit. it. “Fiore secco” * con Ryô Ikebe, Mariko Kaga,
Takashi Fujiki * IMDb 7,8 RT 86%
Guardando in ordine cronologico i
film che non avevo ancora visto (o visti tantissimo tempo fa) dei 30
film consigliati dal sito
mubi.com,
sono evidenti i cambiamenti di temi intervenuti nel ventennio fra
l’immediato dopoguerra agli anni ‘60 e di stile che man mano
cominciava ad adattarsi, o almeno a prendere spunti, dal cinema
americano e poi la Nouvelle Vague francese.
Questo noir di (poca) azione e tanto
gioco d’azzardo, mistero e storie d’amore (una quasi platonica e
l’altra quasi ossessiva) si sviluppa al margine dell’ambiente yakuza
in piena competizione fra tre famiglie.
Molto ben filmato, con tante
inquadrature precise di volti illuminati in primo piano e altri più
scuri sullo sfondo, spesso con pochissimaa profondità di campo,
corse in auto sportive lungo strade semideserte, lunghe partite di
giochi classici giapponesi di “carte” decorate con bei disegni.
Anche in questo film si sentono in
sottofondo le note di “‘O sole mio” o della sua versione americana
“Or Now or Never”, resa famosa da Elvis Presley.
Pregevole noir con un bel finale
(nel complesso) e ottima scena conclusiva.
Più che consigliato.
164 “Pigs and battleships” (Shôhei Imamura, Jap, 1961) tit. or.
“Buta to gunkan”, tit. it.
“Porci, geishe e marinai” (solita traduzione fantasiosa) * con
Hiroyuki Nagato, Jitsuko Yoshimura, Masao Mishima *
IMDb 7,6
Imamura iniziò la sua carriera
cinematografica come assistente di Ozu, ma ben presto si mise in
evidenza con il suo personalissimo stile, assolutamente distante da
quello del suo maestro ... quasi agli antipodi.
Uscito poco dopo “Good For Nothing” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1960,
tit. or.
“Rokudenashi “) anche in “Buta to gunkan” appare evidente
l’influenza della Nouvelle Vague francese.
Questa commedia negra, tragica, a
tratti surreale, è apertamente critica sia nei confronti delle forze
di occupazione americane sia dei giapponesi che si adeguano alla
loro cultura e tentano di trarre profitto dalla situazione. Una
miriade di personaggi equivoci si affrontano, si alleano e si
tradiscono nei modi classici di quel microcosmo che spesso si viene
a creare alla fine delle guerre, dove le attività più lucrative, e
quindi più praticate, sono la prostituzione, il furto, il gioco, la
truffa, il mercato nero.
La vorticosa storia ruota attorno
allo sprovveduto piccolo delinquente Kinta e la sua (più o meno)
ragazza Haruko, più intraprendente ma anche più sprovveduta.
Chiaramente, fra litigi e piani per il futuro si troveranno più
volte nei guai, di vario genere intrecciando le loro storie
personali e familiari con marinai in libera uscita, ragazze a caccia
di soldi facili, manager del mercato nero e protettori,
rappresentanti del governo americano ed esponenti del yakuza. I
rapporti fra queste due ultime categorie sembra essere molto simile
alla situazione del sud Italia a partire dal 1943, quando le forze
americane facevano lauti affari con mafia e camorra che, di
conseguenza godevano della quasi assoluta impunità.
Film vivace, a tratti frenetico, con
punti di ripresa spesso originali, girato in 2.35 : 1, con aspetti
macabri e divertenti senza dubbio creativi, assolutamente
contrastante con lo stile classico dei vari Ozu, Kurosawa, Naruse,
Mizoguchi.
Questa innovazione non fu molto
gradita alla casa di produzione che mise da parte Imamura per 3
anni.
A mio parere è un film da non
perdere, icona dei fermenti giapponesi alla fine del periodo di
stretto controllo americano che in pochi anni cambiò radicalmente
molti aspetti della vita giapponese.
PS - in un paio di scene (vedi
ultima foto) i panni stesi sembrano essere un omaggio al suo maestro
Ozu ...
163 “Nubi fluttuanti” (Mikio Naruse, Jap, 1955) tit. or. “Ukigumo” *
con Hideko Takamine, Masayuki Mori, Mariko Okada *
IMDb 7,8
La vita del fiore è molto breve, con
tutto ciò soffre molto
Questa è l’aforisma con il quale si
conclude il film e la drammatica storia dei due amanti protagonisti
del film che tentano di riorganizzare la propria vita nei duri anni
del dopoguerra. Una storia spezzettata, fatta di tanti incontri,
abbandoni e soprattutto innumerevoli lampanti bugie da parte di lui.
Ciononostante la protagonista Yukiko (interpretata dalla famosa e
brava Hideko Takamine, 177 film al suo attivo) finge di credergli,
gli dà nuove possibilità, lo tenta in ogni modo.
Drammatico al punto giusto, talvolta
un po’ stucchevole per l’apparente incapacità della donna di
affrontare la realtà.
Oltre alla regia di Naruse e la
fotografia di Masao Tamai, si fa notare l’ottima e varia colonna
sonora di Ichiro Saito, in molti casi arabeggiante, in altre mi ha
ricordato le melanconiche melodie di Shigeru Umebayashi in “In the
Mood for Love” (Kar Wai Wong, 2000).
Giustamente inserito fra i migliori
film giapponesi degli anni ’50.
162 “The Crucified Lovers” (Kenji Mizoguchi, Jap, 1954) tit. or.
“Chikamatsu monogatari”, tit. it.
“Gli amanti crocifissi” * con Kazuo Hasegawa, Kyôko Kagawa, Eitarô
Shindô
Storia molto datata, completamente
calata nella mentalità giapponese di vari secoli prima, quando gli
adulteri - anche se di famiglia ricca o potente - venivano
condannati alla pubblica crocifissione. La sceneggiatura è adattata
da un dramma di Monzaemon Chikamatsu, dal quale ovviamente eriva il
titolo giapponese del film e ciò, probabilmente, ha limitato le
scelte di Mizoguchi che, si dice, non fu molto contento del
risultato.
Tutto deve essere preso quindi nella
giusta considerazione ed è difficile rapportarlo a realtà moderne se
non a quelle di alcuni paesi integralisti. Fotografia e regia molto
curate, buone interpretazioni, interessanti ambientazioni sia nelle
grandi e ricche stanze della residenza di Ishun, sia nella sua
stamperia che forniva calendari e altro alla corte dell’Imperatore.
In più parti molto scontato ed in
generale meno avvincente di tanti altri film giapponesi dell’epoca,
seppur tecnicamente impeccabile.
IMDb 8,1
161 “Ikiru” (Akira Kurosawa, Jap, 1952) tit. it.
“Vivere” * con Takashi Shimura, Nobuo Kaneko, Shin'ichi Himori
*
IMDb 8,3 RT 100% * Nomination BAFTA per Takashi Shimura, Premio
speciale e Nomination Orso d’Oro a Berlino per Kurosawa
* al 125° posto nella classifica dei migliori film di tutti i
tempi su IMDb
Altro gran bel film giapponese,
grazie al maestro Kurosawa (in questo caso anche co-sceneggiatore) e
ad un ottima interpretazione di Takashi Shimura. Un film
estremamente attuale nonostante i suoi oltre 65 anni, che combina
temi fondamentali come malattia e morte (prevista) e responsabilità
dei lavoratori del settore pubblico. Delicato, tragico e ottimista
allo stesso tempo. Nonostante una partenza relativamente lenta, ma
forse indispensabile, Kurosawa costruisce un film che rasenta la
perfezione, con inquadrature mai casuali, composizioni eccellenti di
più volti su piani differenti, tanti primi piani espressivi, lunghe
scene che si svolgono nel silenzio quasi assoluto.
Un film estremamente “giapponese”,
soprattutto nel senso dei rapporti interpersonali, del rispetto dei
ruoli, della classica cerimonialità nipponica.
La perfetta analisi della macchina
burocratica, dei suoi limiti, dei suoi malfunzionamenti, delle sue
situazioni kafkiane, dell’eterno scaricabarile per evitare qualsiasi
responsabilità sembra essere quella che tanti cittadini fanno della
situazione odierna, ma in questo caso giunge l’elemento scatenante
che farà cambiare profondamente il protagonista Watanabe,
funzionario degli Affari Pubblici, interpretato da Takashi Shimura.
Questi dovrà suo malgrado rivedere e riconsiderare sia i suoi
rapporti affettivi (familiari e non) sia quelli con i suoi colleghi
di lavoro e con i suoi superiori, nonché quelli con i cittadini.
NB - Nel caso lo cerchiate, attenti
a non confonderlo con “Vivere!” (Yimou Zhang, HK, 1994, tit. or.
“Huo zhe”) che, comunque, è di ottima qualità.
160 “Stray Dog” (Akira Kurosawa, Jap, 1949) tit. or.
“Nora inu”, tit. it. “Cane randagio” * con Toshirô Mifune, Takashi
Shimura, Keiko Awaji * IMDb 7,9 RT 95%
Dopo “High and Low” (1963), eccomi
ad un altro poliziesco diretto da Kurosawa una dozzina di anni
prima, e stavolta dal punto di vista di un detective e non di una
vittima. Rigoroso, perfettamente filmato, con un gran uso di doppie
esposizioni nel descrivere la città nella quale si aggira Toshirô
Mifune, alla ricerca della sua pistola. Con il suo capo
(interpretato da Takashi Shimura) il poliziotto Murakami avrà non
poche difficoltà nell’individuare chi ne è in possesso e la sta
usando per commettere crimini.
Un noir in piena regola, genere
molto apprezzato in quegli anni in quasi tutto il mondo (quindi non
solo USA, ma anche Francia e Messico per citare le cinematografie
che hanno prodotto i migliori lavori), descrittivo al punto giusto
dell’ambiente del dopoguerra in Giappone, ma certamente ben lontano
dalle tranquille, anche se talvolta drammatiche, scene famigliari di
Ozu.
Ottimo film con una esemplare
fotografia in bianco e nero, merita senz’altro una attenta visione.
159 “The Night of the Iguana” (John Huston, USA, 1964) tit. it.
“La notte dell’iguana”* con Richard Burton, Ava Gardner, Deborah
Kerr, Sue Lyon, Grayson Hall
IMDb 7,8 RT 71% * Oscar costumi,
Nomination Oscar a Grayson Hall non protagonista, fotografia Gabriel
Figueroa, scenografia
Ufficialmente classificato come film
drammatico, contiene anche tanta commedia anche se i protagonisti
erano, purtroppo, personaggi abbastanza reali. La sceneggiatura è un
adattamento dell‘omonimo lavoro teatrale (1961) di Tennessee
Williams, adattato dalla sua stessa short story del 1948. Come
dicevo, personaggi al limite del credibile ma reali, al margine del
bigottismo e della perversione, fra adolescenti troppo precoci,
religiosi vittime delle tentazioni, donne libere e spregiudicate
simbolo dei tempi che cambia(va)no, il tutto in un ambiente mitico
(per gli americani) come il Messico.
Un ottimo cast impersona questo
piccolo gruppo di persone molto peculiari che si scontrano e si
alleano a seconda del momento. Burton e le tre signore Gardner, Kerr
e Hall offrono performance di gran livello, con la giovane e
inesperta (e per questo giustificatamente un gradino più in basso)
Sue Lyon che resta troppo legata al personaggio che le diede fama al
suo esordio nel mondo del cinema ... la Lolita di Stanley Kubrick
(1962).
Un film secondo me un po’
sottovalutato, che regge perfettamente grazie alla combinazione fra
un regista di esperienza come Huston, un’ottima sceneggiatura di un
genio come Williams, il suddetto cast che fa faville e, non da
ultima, la fotografia in bianco e nero affidata al grande Gabriel
Figueroa, apprezzatissimo cineasta messicano che fra i suoi oltre
200 lavori annovera tanti film diretti da Luis Buñuel (p.e. “Los
Olvidados”, “El ángel exterminador”, “Nazarin”) e da Emilio
Fernández “el Indio”.
Da goderselo con calma e attenzione
... quasi indispensabile la versione originale.
158 “Ultimo tango a Parigi” (Bernardo Bertolucci, Ita, 1972) * con
Marlon Brando, Maria Schneider, Jean-Pierre Léaud *
IMDb 7,1 RT 80%
L’ho sempre reputato molto
sopravvalutato e anche dopo questa ulteriore visione, a quasi 50
anni dalla prima uscita, resto dell’opinione che grandissima parte
del suo successo derivi dallo “scandalo” che suscitò nei primi anni
di diffusione, con censure, sequestri, tagli, processi, condanna al
rogo ...
Le stesse due Nomination Oscar
(Bertolucci per la regia e Brando protagonista) arrivarono solo nel
1974, dopo il “gran polverone”.
Il film servì soprattutto a
Bertolucci per affermarsi definitivamente all’estero, dopo la
Nomination ottenuta per la sceneggiatura (adattamento del romanzo di
Moravia) de “Il conformista”, 1970, del quale fu anche regista. Il
protagonista era Jean-Louis Trintignant, il quale collaborò poi ai
dialoghi di “Ultimo tango ...” insieme con la regista belga Agnès
Varda anche se la maggior parte della sceneggiatura fu scritta di
proprio pugno da Bertolucci.
Ed è proprio la sceneggiatura,
secondo me molto pretestuosa, la palla al piede del film che,
d’altro canto, ha i suoi pregi nell’ottima fotografia del solito
Vittorio Storaro, nel commento musicale di Gato Barbieri ed in molte
riprese esterne nelle quali Bertolucci si “diverte” a comporre
inquadrature a più livelli sfruttando ponti, passaggi pedonali e
stazioni della metro parigina.
Oltre alla poca plausibilità della
storia nel complesso (almeno per come viene proposta) e dei dialoghi
senza senso, anche se in più occasioni vorrebbero apparire
“profondi”, i personaggi e relative situazioni di contorno non
contribuiscono a migliorare il quadro generale (p.e. la portiera e
l’aspirante regista).
A tutto ciò si aggiunga il cambiato
“senso del pudore” che quindi non fa più vedere questo film come
“merce rara” e provocativa.
Da guardare per “curiosità” cercando
di inquadrarlo negli anni ’70, cosa che forse molti hanno già fatto
o faranno a seguito del recente ennesimo re-relaese della versione
(in 4k) restaurata dalla Cineteca Nazionale del Centro Sperimentale
di Cinematografia, che all’epoca del “rogo” ebbe in custodia alcune
copie come “corpo del reato”!
157 “The Departed” (Martin Scorsese, USA, 2006) tit. it.
“Il bene e il male” * con Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Jack
Nicholson
4 Oscar (miglior film, regia,
sceneggiatura, montaggio), Nomination per Mark Wahlberg (non
protagonista)
Di ben diverso livello rispetto
all’altro film con DiCaprio visto ieri (“J. Edgar”, di Clint
Eastwood, USA, 2011) è questo thriller difficile da definire per
situarsi fra il classico poliziesco, il mafioso (in senso lato) e il
dramma psicologico. Seguendo gli avvenimenti gli spettatori, e in
parte i protagonisti, si trovano a dover dubitare di tutto e di
tutti, fra tanti colpi di scena e rivelazioni, tensione alle stelle,
morti violente e messaggi in codice.
Il cast è di tutto rispetto, non
solo per i tre protagonisti principali, ma anche per i tanti altri
attori “di contorno” fra i quali si distinguono Mark Wahlberg
(Nomination Oscar), Martin Sheen e Alec Baldwin.
La trama si dipana velocemente e non
lascia un attimo di respiro, mostrando vite parallele e “incroci”
molto pericolosi.
La sceneggiatura, ottima ma con
qualche superficialità poco credibile nell’ambiente
poliziesco/mafioso, è in effetti un adattamento di quella di “Mou
gaan dou” (di Wai-Keung Lau e Alan Mak, con Andy Lau, Hong Kong,
2002).
Un film da guardare e ri-guardare;
pur essendo un thriller, il fatto di conoscerne l’epilogo non
disturba più di tanto ... forse è addirittura un vantaggio per gli
spettatori attenti che sapranno cogliere dettagli e indizi che forse
gli sono precedentemente sfuggiti.
RT 93% IMDb 8,5 * Per la cronaca, e
per quanto possa valere, attualmente “The Departed” si trova al 42°
posto nella classifica dei migliori film di tutti i tempi su IMDb e
al 248° c’è “Mou gaan dou” (tit. internazionale ed italiano
“Infernal Affairs” (non è un refuso, è proprio “InFernal”).
156 “J. Edgar” (Clint Eastwood, USA, 2011) * con Leonardo DiCaprio,
Armie Hammer, Naomi Watts, Judi Dench *
RT 50% IMDb 6,6
Uno dei film meno riusciti,
sicuramente fra i meno apprezzati, di Eastwood che, pur presentando
la “carriera” lunga quasi mezzo secolo di uno degli uomini più
potenti e temuti degli Stati Uniti in un paio d’ore, mette in luce
vari aspetti storicamente interessanti della società americana.
Da molti è considerato il vero
fondatore dell’FBI che, seppur già esistente dal 1908, fu da lui
profondamente trasformata nella struttura, metodi e fini nel suo
primo decennio di direzione (1924-1935) assumendo l’essenza moderna.
Nel film ciò che funziona male è la
miscela fra vita privata (anche molto privata) e politica e la lotta
di contrasto sia al crimine comune che alle ideologie.
Coprendo un cinquantennio con gli
stessi interpreti, ovviamente c’è stato un notevole ricorso al
trucco che, strano a dirsi considerato il livello della produzione,
è veramente scadente. Chi si salva parzialmente è DiCaprio, anche
per la sua bravura, mentre il pessimo make-up fornito ad Armie
Hammer riesce solo ad esaltare ulteriormente la sua pressoché totale
incapacità.
Clint Eastwood ha fatto molto di
meglio in tanti suoi film, anche nel proporci altre “storie vere”,
di questo resta quasi esclusivamente l’interesse per quell’ambiguo
personaggio che fu J. Edgar Hoover.
155 “High and Low” (Akira Kurosawa, Jap, 1963) tit. or. “Tengoku to
jigoku”, tit. it.
“Anatomia di un rapimento” * con Toshirô Mifune, Yutaka Sada,
Tatsuya Nakadai * IMDb 8,4 RT 94% * Nomination Golden Globe come
miglior film in lingua non inglese e Nomination Leone d’Oro a
Venezia per la regia di Akira Kurosawa
Ottimo poliziesco moderno diretto da
Kurosawa con la sua solita maestria, pur essendo un ambiente e un
periodo meno usuale per lui, interpretato dal sempre bravo Toshirô
Mifune che stavolta, ovviamente, non è un samurai, ma un
imprenditore, vittima di un ricatto milionario.
Il coprotagonista (ispettore capo) è
interpretato da Tatsuya Nakadai un altro ottimo attore che esordì (uncredited)
proprio con Kurosawa in “I 7 Samurai” e prime di questo “High and
Low” si era già distinto in “La condizione umana” (Kobayashi,
1959/1961), “Yojimbo” (Kurosawa, 1961), “Sanjuro” (Kurosawa, 1962),
“Harakiri” (Kobayashi, 1962). Ha continuato a lavorare, spesso in
ruoli principali, con i migliori registi giapponesi fra i quali,
oltre ai suddetti, anche Ichikawa e Naruse; molti lo ricorderanno
quale protagonista nei più recenti Kagemusha (1980) e Ran (1985),
ancora diretto da Kurosawa.
La trama è abbastanza intrecciata e
non banale e si dipana fra affari forse onesti ma certamente oltre
il limite della deontologia, scambi di persona, indagini
accuratissime che vedono impegnate decine di detective. Le 2 ore e
venti passano velocemente fra colpi di scena, furbizie dei kidnapper/ricattatori,
suspense e pedinamenti. Anche la scelta del sottofondo musicale è
singolare e verso la fine si passa da un rumoroso locale da ballo
con ritmi moderni ad un’azione di polizia con il sottofondo della
musica emessa da una radio a transistor che per circa due minuti
(tanto ...) diffonde le inconfondibili note di una versione
strumentale di ‘”O sole mio”, interrotta solo da un paio di battute.
Film mai sentito nominare ma
fidandomi del regista, del cast e degli ottimi rating, l’ho
recuperato e sono rimasto estremamente soddisfatto.
154 “When a Woman Ascends the Stairs” (Mikio Naruse, Jap, 1960) tit.
or.
“Onna ga kaidan wo agaru toki”* con Hideko Takamine, Tatsuya Nakadai,
Masayuki Mori * IMDb 8,2 RT 100%
Ottimo film drammatico, ma non certo
una tragedia, che sembra non sia mai giunto in Italia, nonostante
sia stato giudicato di eccellente fattura quasi unanimemente. La
donna del titolo dirige un “bar” di Ginza, una zona di Tokio dove,
almeno all’epoca, “non si dormiva mai” ma non era certo un vero
quartiere a luci rosse. Infatti molti locali erano veramente solo
bar, ristoranti, casa da tè o night dove borghesi più o meno ricchi
andavano a passare qualche ora, conversando e bevendo con gentili
donzelle in costosi kimono ... senza dopocena che, in ogni caso, non
poteva essere esplicitamente menzionato.
Seguendo le vicissitudini
economiche, familiari, sociali e sentimentali della protagonista
Keiko (Hideko Takamine) si percepisce chiaramente l’essenza di
questo tipico ambiente giapponese, sempre molto formale e, quindi,
in sostanza un po’ ipocrita. Ogni ragazza che lavora in un bar sogna
di averne uno proprio, ovviamente con l’aiuto di uno o più dei
ricchi clienti.
Per alcuni versi ricorda molto
“Akasen chitai” (“La strada della vergogna”, 1956, di Kenji
Mizoguchi) che descriveva un ambiente in parte simile attraverso la
storia di 5 donne che, tuttavia, si “concedevano” seppur per diversi
motivi ... nobili e meno nobili, all’epoca della presentazione di
una proposta di legge che avrebbe bandito la prostituzione.
Anche questo film, sostenuto da
regia, sceneggiatura e interpretazioni di ottimo livello, merita
senza dubbio un’attenta visione da parte dei veri cinefili.
153 - L’arpa birmana (Kon Ichikawa, Jap, 1956) tit. or.
“Biruma no tategoto” * con Rentarô Mikuni, Shôji Yasui, Tatsuya
Mihashi * IMDb 8,1 RT 91% * Nomination Oscar film non in
lingua inglese, 3 Premi speciali e Nomination Leone d’Oro a Venezia
Recensione nel post su Discettazioni Erranti
152 “Slumdog Millionaire” (Danny Boyle, USA, 2008) tit. it.
“The millionaire” * con Dev Patel, Freida Pinto, S. Shukla
RT 95% IMDb 8,0 * 8 Oscar (miglior
film, regia, sceneggiatura, fotografia, montaggio, montaggio sonoro,
musica originale, canzone) e altre 2 Nomination
Alla sua uscita fu acclamato e probabilmente ha meritato molti dei
suoi 8 Oscar, ma quell’anno non aveva grandi concorrenti se non
“Dark Knight” che, al contrario, fu praticamente snobbato dalla
giuria e dei due Oscar uno lo ottenne (postumo) Heath Ledger e
l’altro per in montaggio sonoro. Per la cronaca, “Il cavaliere
oscuro” è al momento al quarto posto nella classifica di tutti i
tempi di IMDb con un eccezionale 9.0.
Nella sua - a tratti - violenza e
crudezza, “The millionaire” resta sempre un po’ troppo “ruffiano”,
pur alternando gli inevitabili momenti di suspense legati al ricco
gioco a quiz a quelli dell’interrogatorio (quasi come quelli
dell’inquisizione) e alla parte romantica. “Slumdog Millionaire” è
senza dubbio ben realizzato, specialmente nelle parti con i bambini
e nelle scene più rapide, spesso “galoppanti” e molto colorate ma,
come dicevo, Boyle focalizza la sua attenzione, e quindi quella
dello spettatore, solo su determinati stereotipi della vita degli
ormai quasi 20 milioni di abitanti di Mumbai (Bombay). Se i bambini
riescono ad essere abbastanza credibili, il cast adulto lo è molto
meno, a cominciare da Dev Patel che durante e dopo quella sua prima
apparizione sul grande schermo, in 10 anni raramente ha cambiato
espressione.
Nel complesso, molto piacevole e ben
realizzato; merita una visione da chi se lo fosse perso all’uscita.
151 “Great Guy” (John G. Blystone, USA, 1936) tit. it.
“Pugno di ferro” * con James Cagney, Mae Clarke, James Burke
* IMDb 6,3
In questo film poco conosciuto James
Cagney, già divo di Hollywood e sulla cresta dell’onda, non
interpreta il suo solito personaggio di gangster-cattivo-malvivente
bensì, passando dall’altro lato, un incorruttibile ispettore
antifrode. Breve film d’azione (66 minuti, sullo standard
dell’epoca) ben fatto, snello e pieno di colpi di scena, seppur in
parte prevedibili.
Affiancano l’ineffabile e sempre
bravo Cagney vari caratteristi noti, dai nomi sconosciuti.
Un onesto passatempo, ma certamente
non un film memorabile. |