100 “Paris, je t'aime” (oltre 20 registi,
Fra, 2006) * con un cast molto ricco ed eterogeneo (vedi sotto) *
IMDb 7,3 RT 87%
Film collettivo, praticamente una
serie di 18 short firmati da ancor più registi (vari episodi ne
hanno due), aventi come filo conduttore non solo diversi quartieri
di Parigi, ma soprattutto i rapporti di coppia o la ricerca
dell’anima gemella o quanto meno affine.
La lunga lista di registi che hanno
partecipato a questo inusuale progetto, molti dei quali sono anche
sceneggiatori dei propri corti, include plurivincitori di Oscar come
Ethan & Joel Coen, Alfonso Cuarón e Alexander Payne, oltre a tanti
altri che vantano Nomination e successi internazionali come Gus Van
Sant, Wes Craven, Isabel Coixet, il giapponese Nobuhiro Suwa, la
kenyota Gurinder Chadha, l’italo-americano Vincenzo Natali.
Il cast è ovviamente ancor più
corposo e anche in questo caso si trovano interpreti di tutte le età
e di qualunque provenienza, anche se alcuni appaiono solo per un
paio di battute. Giusto per fornire un’idea ecco alcuni nomi: Ben
Gazzara, Gena Rowlands, Emily Mortimer, Willem Dafoe, Steve Buscemi,
Natalie Portman, Bob Hoskins, Elijah Wood, Javier Cámara, Fanny
Ardant, Juliette Binoche, Nick Nolte, Marianne Faithful, Sergio
Castellitto, Gérard Depardieu, Maggie Gyllenhaal, Olga Kurylenko ...
Non c’è da meravigliarsi se fra una
tale varietà di stili e di storie ci siano short ottimi ed altri
banali, alcuni ben interpretati e diretti, altri sembrano filmini
messi insieme alla buona.
Interessante divertissement,
presentato al Festival di Cannes 2006, non sembra sia stato
distribuito in Italia.
Per la cronaca, l’idea originale
prevedeva di girare film simili in altre città del mondo come New
York e Tokio. In effetti il primo “remake” (“New York, I love you”,
previsto per il 2007) uscì solo nel 2009 mentre il progetto da
ambientare a Tokio nel 2008, fu trasferito a Rio de Janeiro e arrivò
nelle sale nel 2014 (“Rio, eu te amo2).
99 “Affliction” (Paul Schrader, USA, 1997) * con Nick Nolte, James
Coburn, Sissy Spacek, Willem Dafoe
IMDb 7,0 RT 88% Oscar James Coburn
non protagonista, Nomination Nick Nolte protagonista
Dal poco che avevo letto in merito a
questo film (mai sentito nominare prima di imbattermi nel dvd) mi
aspettavo francamente di più, anche per l'Oscar a James Coburn e la
Nomination a Nick Nolte (ma in merito a questa ero già sospettoso).
Certamente non il miglior film di Paul Schrader, che conferma di
aver perso la sua buona verve di sceneggiatore (esclusivamente sua
quella di "Taxi Driver" e collaborò anche a "Raging Bull") ma nel
complesso si difende ancora dignitosamente come regista, poco
convincente questo suo adattamento del romanzo di Russel Banks.
Su tale soggetto, per niente
pessimo, viene imbastita una trama poco convincente con storie
secondarie senz'altro evitabili. Per esempio, i primi 15 minuti
potevano essere ridotti a 3 o anche tagliati del tutto. Buona
l’ambientazione quasi claustrofobica in una piccola cittadina del
New Hampshire (USA), dove tutti si conoscono ma i rapporti sono come
sempre più o meno tesi (per i più disparati motivi), e si va avanti
fra invidie, maldicenze, sospetti e tentativi di rivincita.
Apprezzabile anche la scelta di girare in pieno inverno con la
maggior parte degli esterni dominati dalla neve.
Bravo Coburn (già quasi 70enne) in
un ruolo per lui quasi usuale e congeniale di uomo rude, padre
dispotico, dedito all’alcool e violento; appare in poche scene ma in
modo tanto convincente da ottenere l’Oscar (l’unico della sua
carriera) come miglior attore non protagonista. Si difende bene
anche Sissy Spacek nella sua strimizita parte, meno bene Nick Nolte
che tuttavia ottenne la Nomination Oscar (quell’anno vinse Benigni).
98 “36 vues du Pic Saint Loup” (Jacques Rivette, Fra, 2009) tit. it
“Questione di punti di vista” * con Jane Birkin, Sergio Castellitto,
André Marcon
IMDb 6,2 RT 74% Nomination Leone
d’Oro a Venezia 2009
Ultimo film d Rivette (all’epoca
81enne) ma mi sorge il (maligno) dubbio che vi abbia messo poco più
che il nome e la sua mano si intravede solo nelle riprese.
Quattro sceneggiatori (fra i quali
anche Rivette e Castellitto) e un autore di dialoghi mi sembrano
eccessivi per un film di neanche un'ora e mezza, durante la quale si
parla poco e succede quasi niente.
Essere in troppi a decidere o
dirigere di solito porta a risultati scadenti, in qualunque campo, e
anche in questo caso è così. Poche trovate e poche frasi degne di
merito non salvano un film pieno di loop e scene ripetitive in
particolare quelle nel minuscolo e desolato circo itinerante.
Mi piace ricordare il Rivette
pilastro della Nouvelle Vague e regista di capolavori come “La belle
noiseuse”, questa sua chiusura di carriera sembra più che altro un
breve esercizio, peraltro non tanto ben riuscito.
97 “Indochine” (Régis Wargnier, Fra, 1992) tit. it “Indocina” * con
Catherine Deneuve, Vincent Perez, Linh Dan Pham
IMDb 7,1 RT 71% * IMDb 8,0 RT 79% *
Nomination Oscar per la musica
Oscar come miglior film non in
lingua inglese; Nomination per Catherine Deneuve protagonista
Per questa scelta mi avevano
attirato ambientazione geografica ed epoca (fra le due guerre
mondiali), nonché l’Oscar vinto.
Al contrario del film precedente
(Big Fish) in “Indochine” le interpretazioni femminili, seppur non
eccezionali, sono più che decenti (Catherine Deneuve comunque
ottenne la Nomination e buon esordio di Linh Dan Pham), mentre
quelle maschili sono veramente di scarsissimo livello. In
particolare Vincent Perez, quasi protagonista, a me del tutto
sconosciuto, ha lo stesso sguardo imbambolato durante l’intero film,
in qualunque situazione si trovi.
Visivamente bello tutto il girato in
Vietnam e Malesia, fra piantagioni di caucciù, magioni coloniali e
le famose baie caratterizzate da pareti rocciose pressoché verticali
e da tanti isolotti-pinnacoli simili a possenti e inaccessibili
torri; interessante lo spaccato storico del declino del colonialismo
francese nel sud-est asiatico.
La sceneggiatura zoppica (e non
poco) e soprattutto manca della giusta continuità, sia narrativa che
temporale.
Non vedo tutti quei meriti che
dovrebbero giustificare un meritato l'Oscar.
96 “Big Fish” (Tim Burton, USA, 2003) tit. it “Le storie di una vita
incredibile” * con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup,
Marion Cotillard, Jessica Lange
In linea di massima i film di Tim
Burton mi piacciono, ma devo dire che questo (generalmente
abbastanza discusso) l'ho gradito più degli altri.
Ho trovato pressoché perfetta la
miscela fra fantasia, ricordi, creatività, sfacciate bugie,
istrionismo... e i tanti inevitabili flashback (che di solito non
amo) sono inseriti al punto giusto e senza eccessive lungaggini.
L’essenza dei vari cambiamenti e interpretazioni delle storie
narrate da Ed Bloom (Albert Finney) e dei diversi valori e ruoli dei
vari personaggi mi ha addirittura fatto tornare in mente “Rashomon”
(1950, Akira Kurosawa).
Particolarmente bravo Albert Finney
(ma non è una sorpresa), nell’occasione affiancato da Ewan McGregor
e Billy Crudup che mi sono sembrati migliori che in tante altre
occasioni. Al contrario, le pur famose interpreti femminili non
riescono a finalizzare prestazioni decenti ... quella che meglio si
difende è Marion Cotillard (più che altro limitandosi a sorridere),
mentre Jessica Lange e l'insopportabile Helena Bonham Carter sono
improponibili, come quasi sempre.
Più che piacevole per le narrazioni
di storie fantastiche e per i tanti sorprendenti personaggi, quello
meno riuscito è il gigante.
Pur guardato con mente aperta e
buona disposizione verso la fantasia, “Big Fish” riesce anche a far
riflettere su vari argomenti più che seri (famiglia, morte, rapporto
genitori/figli, ..), altrimenti offre comunque 2 ore di buono svago.
Consigliato.
95 “A Taste of Honey” (Tony Richardson, UK, 1961) tit. it “Sapore di
miele” * con Rita Tushingham, Dora Bryan, Robert Stephens, Murray
Melvin * IMDb 7,6 RT 88%
Film rappresentativo della poco
conosciuta New Wave inglese, quasi un cult fra i cinefili figli di
Albione. Avvalendosi di un'ottima fotografia in bianco e nero il
regista-sceneggiatore Tony Richardson (soprattutto noto per il suo
“Tom Jones”, 1963, 2 Oscar per miglior film e regia) espone la
storia di una ragazza, non ancora maggiorenne, di padre sconosciuto,
con una madre egoista che la trascura e la abbandona, che resta
incinta di un marinaio di colore e finisce per andare a convivere
con un gay. Se a qualcuno non sembrasse abbastanza, aggiungete che
nel '61, essere omosessuali era reato e che figli mulatti non erano
all'ordine del giorno.
Ottimi i 4 protagonisti:
l'esordiente Rita Tushingham (Golden Globe come miglior promessa),
Dora Bryan (ben nota attrice tearale inglese), il quasi esordiente
sul grande schermo Robert Stephens (proveniente dal teatro di
qualità e nel 1995 nominato Sir per i suoi meriti artistici) e
Murray Melvin (anche lui a inizio carriera, premiato a Cannes come
miglior attore e BAFTA come miglior promessa).
Questa quasi perfezione è intaccata
dalla scarsa plausibilità della trama e dei singoli eventi che,
tuttavia, è di secondaria importanza rispetto al film nel suo
complesso e ai singoli temi trattati (come detto quasi tabù per
l’epoca).
Vale senz’altro la pena recuperarlo.
94 “You can't take it with you” (Frank Capra, USA, 1938) tit. it
“L'eterna illusione” * con Jean Arthur, James Stewart, Lionel
Barrymore, Spring Byington * IMDb 8,0 RT 91% * 2 Oscar (miglior
film e regia) e altre 5 Nomination (Spring Byington non
protagonista, sceneggiatura, fotografia, montaggio, sonoro) * La
versione teatrale (precedente, dalla quale è tratta la
sceneggiatura) aveva vinto il Premio Pulitzer nel 1937.
Dopo la "boiata" di "The Death of
Stalin" ho voluto compensare quella perdita di tempo con una
classica commedia americana degli anni '30 della quale non avevo mai
sentito parlare, nonostante i 2 Oscar + 5 Nomination e i nomi di tre
pietre miliari di Hollywood: Frank Capra, James Stewart e Lionel
Barrymore.
Commedia dei buoni sentimenti, con
le solite contrapposizioni fra personaggi semplici , sinceri e
sognatori e quelli avidi, boriosi e prepotenti; in mezzo c'è la
storia d'amore. La particolarità di questo film consiste nella
grande varietà di personaggi a dir poco eccentrici, quasi tutti
facenti parte o almeno connessi con l'ampia famiglia Sycamore ( i
“poveri ma felici”).
Soprattutto in quest’ambiente
succede quasi di tutto, in quanto nella casa più o meno convivono
un’aspirante drammaturga e pittrice, fabbricanti d fuochi
artificiali, creatori di maschere, un tipografo/suoantore di
xilofono, una coppia di colore tuttofare, un’aspirante ballerina e
il suo maestro di danza russo, ovviamente interpretato da Mischa
Auer. Considerando anche l'arresto dell’intero gruppo (in cella per
qualche ora) e poi il giudizio in tribunale, capirete bene che le
due ore passano velocemente e piacevolmente, a parte qualche
inevitabile rallentamento.
Non solo i protagonisti principali,
ma l’intero cast offre perfette interpretazioni fra le quali spicca
quella di Harry Davenport nei pani del giudice.
93 “The Death of Stalin” (Armando Iannucci, UK-Fra-Bel, 2017) tit.
it “La morte di Stalin” * con Steve Buscemi, Simon Russell Beale,
Jeffrey Tambor, Michael Palin * IMDb 7,5 RT 97%
Non capisco tutto l’entusiasmo per
questa “commedia storica” (esiste?) che riesce a non essere né carne
né pesce. Non mi è sembrata particolarmente divertente ponendo in
ridicolo personaggi storici, per quanto discutibili possano essere
stati, né abbastanza critica nello specifico in quanto penso che in
qualunque “regime” siano successe e succedano cose simili. Trovo che
sia solo una feroce presa in giro di alcuni protagonisti di una
serie di eventi in un particolare momento della storia russa e, più
in generale, dei russi e per questo ha avuto successo in “occidente”
mentre è stato addirittura bandito in Russia.
I personaggi sono eccessivamente
caricaturali e Iannucci mette in risalto le loro debolezze, vizi e
follie, dimenticandosi di tutto il resto. Alcuni, come per esempio
Malenkov (interpretato da Jeffrey Tambor) viene proposto come un
vero demente ...
Il cast eterogeneo (inglese -
americano - russo - ...) di buon livello, probabilmente solo Michael
Palin (ex Monty Python) si è trovato a suo agio pur essendo meno
ridicolo del solito. Per pura curiosità sono andato a dare uno
sguardo ai veri volti dei protagonisti dell’immediato “dopo-Stalin”
e nessuno nel film somiglia al suo vero personaggio. Altro che Gary
Oldman / Winston Churchill!
E per fortuna l’ho visto in edizione
originale ... posso solo immaginare (con terrore) i disastri delle
traduzioni e dei doppiaggi.
Assolutamente sopravvalutato!
92 “Zodiac” (David Fincher, USA, 2007) * con Jake Gyllenhaal, Robert
Downey Jr., Mark Ruffalo * IMDb 7,7 RT 90% * Nomination Palma
d’Oro a Cannes
Thriller-poliziesco un po' fuori del
normale, basato su una storia vera di un serial killer, anch'essa
abbastanza inusuale per durare vari decenni. Oltre a scoprire ciò
dopo aver visto il film (a fiducia visti i rating e il cast
abbastanza decente), ho anche letto dell'enorme (forse eccessiva)
pignoleria nel ricostruire le scene fino a replicare perfino gli
abiti e ricostruire angoli di strade dove non era consentito
effettuare riprese. Per questa mania di raccontare tutto, e nei
dettagli, la sceneggiatura era troppo lunga e nonostante il regista
David Fincher avesse cercato di non dilungarsi, addirittura
richiedendo agli attori di parlare velocemente per accorciare i
tempi, il film resta troppo lungo per ciò che racconta. Un altro
handicap (almeno per me) è quello dei troppi nomi citati (riferiti a
personaggi visti o non visti) a proposito dei vari omicidi
precedenti fra sospettati, vittime, investigatori, giornalisti
tirati più volte in ballo e quindi e bisogna essere pronti ad
abbinarli ad un volto e ricordare quale ruolo hanno nella storia,
almeno fino a quel momento.
Robert Downey si difende, Mark
Ruffalo ha fatto di meglio, i comprimari mi sono sembrati migliori
di loro, mentre continuo a trovare pessimo Jake Gyllenhaal ...
Guardabile seppur un po’ stancante,
storia interessante se si riesce a seguirla con tutti i suoi
intrecci.
91 “Dune” (David Lynch, USA, 1984) * con Kyle MacLachlan, Virginia
Madsen, Francesca Annis * IMDb 6,6 RT 56% * Nomination Oscar per
il miglior sonoro
Per associazione di idee (titolo) da
un cult giapponese passo a un cult di Lynch, quest'ultimo con molti
sostenitori, ma altrettanti detrattori. Si tratta del suo terzo
lungometraggio, dopo “Eraserhead” (1977) e “The Elephant Man”
(1980), di genere molto diverso ma il tema sci-fi consente al
regista di continuare a proporre personaggi “diversi”.
Non sono un esperto del genere e
quindi non azzardo paragoni con altri film cult fantascientifici
della seconda metà del secolo scorso. Mi sono piaciute la regia, le
riprese, la fotografia e ho apprezzato anche il molto eterogeneo
cast che tuttavia ha la sua pecca proprio nell’interprete principale
(Kyle MacLachlan) nei panni di Paul Atreides - Usul - Muad'Dib. Un
po’ difficile per i non “addetti ai lavori” seguire le vicende che
certo non si sviluppano con le normali leggi spazio-temporali ... ma
questa è la fantascienza.
Essendo rimasto colpito dai tanti
nomi e termini di sapore arabeggiante ho eseguito una brevissima
ricerca e ho avuto conferma delle mie impressioni in questo
interessantissimo articolo di Khalid Baheyeldin che suggerisco di
leggere.
L’autore affronta il tema
soprattutto sotto il punto di vista etimologico e mette in risalto
non solo i tantissimi legami con la cultura islamica, ma ne
evidenzia anche altri ebrei, greci e slavi.
Da inesperto e non appassionato di
sci-fi, penso che “Dune” meriti comunque una attenta visione, in
particolare se si apprezza lo stile di Lynch il quale, tuttavia, ha
prodotto di meglio.
“Dune” è la trasposizione
cinematografica del primo (1965) dei 6 libri della saga omonima,
scritta dal pluripremiato Frank Herbert. Lo stesso Lucas confessò di
essere stato influenza da questa serie di romanzi quando iniziò la
sua saga di “Star Wars” (1977)
90 “Woman in the Dunes” (Hiroshi Teshigahara, Jap, 1964) tit. or.
“Suna no onna”, tit. it “La donna di sabbia” * con Eiji Okada, Kyôko
Kishida, Hiroko Itô * IMDb 8,5 RT 100%
Dopo i due film di Yoshishige
Yoshida e i due di Shôhei Imamura concludo la mia ennesima
incursione nel cinema giapponese classico e di livello con questo
“Woman in the Dunes” (aka “Woman of the Dunes”, traduzione più
corretta) che ottenne 2 Nomination Oscar (miglior film non in lingua
inglese nel 1965 e regia nel 1966) oltre al Premio Speciale della
giuria a Cannes e Nomination alla Palma d’Oro.
Non solo a causa di questi
importanti riconoscimenti (inusuali per un regista non proprio
famoso) ma soprattutto per la qualità tecnica, nonché per il tema e
l’ambientazione assolutamente inusuali, il film è immediatamente
divenuto un cult movie (notare i rating di 8,5 su IMDb e 100% su
Rotten Tomatoes, 27 rececensioni positive su 27).
La regia e la fotografia (b/n, con
molte riprese macro - guardate le foto) sono senza dubbio di ottimo
livello, anche le interpretazioni dei due protagonisti assoluti
(l’intero cast, inclusi ruoli secondari, conta meno di una decina di
attori) sono convincenti, la poca musica (molto particolare) si
adatta perfettamente alla situazione, il soggetto è affascinante e
molto simbolico, ma la sceneggiatura, secondo me, lascia molto a
desiderare. Le circa 2 ore e mezza del film si svolgono fra dune
sabbiose vicine al mare e per lo più in un vasto sprofondamento
dalle pareti ripide e troppo friabili per poter essere scalate, nel
quale un entomologo si trova intrappolato insieme con una donna che,
incredibilmente, vive lì.
Pur volendo interpretare il tutto
come una metafora dei rapporti umani e della vita in genere, le
carenze sono molte e spesso manca anche quel minimo di logica che
avrebbe potuto far riflettere di più.
A chi fosse interessato al cinema
giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa
interessante lista creata su mubi.com
88 “Erogotoshi-tachi yori: Jinruigaku nyûmon” (Shôhei Imamura, Jap,
1966) tit. int. “The Pornographers”, tit. it “Introduzione
all'antropologia” * con Shôichi Ozawa, Sumiko Sakamoto, Ganjirô
Nakamura * IMDb 7,5 RT 100%
89 “Kuroi Ame” (Shôhei Imamura, Jap,
1989) tit. int. “Black Rain” (- Pioggia nera)* con Yoshiko Tanaka,
Kazuo Kitamura, Etsuko Ichihara * IMDb 8,0 RT 85%
Due film di Shôhei Imamura, il quale
cominciò la sua carriera come assistente di Ozu e negli anni ’60
passò alla New Wave giapponese.
“The Pornographers” descrive la vita
quotidiana di un piccolo produttore-regista di pellicole
pornografiche a bassissimo costo e del suo piccolo entourage, dei
suoi rapporti con una vedova che crede che il defunto marito si sia
reincarnato in una carpa e con la figliastra, nonché con i suoi vari
strani clienti ed un gruppo di piccoli criminale che lo
taglieggiano. Mostra, con un certo senso umoristico, un Giappone
diverso da quello di solito rappresentato nei film dell’epoca. In
più momenti ricorda lo stile di Yoshishige Yoshida ma certo non è al
suo livello.
Al contrario, “Black rain” (basato
sull’omonimo romanzo di Masuji Ibuse) è un film decisamente
drammatico e affronta il tema delle conseguenze del bombardamento di
Hiroshima, con sintomi (e decessi) che appaiono anche dopo vari anni
dal rilascio dell’atomica e dei particolari rapporti che si
instaurarono fra i contaminati e le altre persone. Il film ottenne
due premi speciali a Cannes 1989 dove fu anche candidato alla Palma
d’Oro e si distingue dalla maggior parte dei precedenti lavori di
Imamura, per lo più tendenti alla dark comedy e ambientati in
situazioni molto diverse da quelle medio borghesi del suo maestro
Ozu.
Si deve anche sottolineare che
Imamura girò anche un diverso finale (più che altro un proseguimento
della storia), con una lunga parte di 19 minuti e a colori, in
contrasto con il bianco e nero del film, ambientata quindici anni
dopo la fine delle vicende proposte nella versione ufficiale
(1945-1950). Questa parte è disponibile fra gli extra del dvd, ma è
opinione comune dei critici, del regista e dei suoi collaboratori
che non avrebbe aggiunto niente alla pellicola, che è perfetta così
come è e come viene normalmente proiettata.
Entrambe sono una visione quasi
indispensabile per avere un’idea del buon cinema giapponese al di là
dei prodotti più noti, ma non per questo sempre migliori.
Le quattro foto dopo i poster si
riferiscono a "Black Rain", le altre 3 a "The Pornographers".
A chi fosse interessato al cinema
giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa
interessante lista creata su mubi.com
85 “Inspector Hornleigh” (Walter Forde, UK, 1939) * con Gordon
Harker, Alastair Sim, Miki Hood * IMDb 7,0
86 “Inspector Hornleigh on Holiday”
(Walter Forde, UK, 1939) * con Gordon Harker, Alastair Sim, Linden
Travers * IMDb 7,1
87 “Inspector Hornleigh Goes To
It”
(Walter Forde, UK, 1941) aka “Mail train” * con Gordon Harker,
Alastair Sim, Phyllis Calvert * IMDb 7,0
L’ispettore Hornleigh di Scotland
Yard fu creato da Hans Priwin come personaggio di una serie di
detective stories radiofoniche che negli anni ‘30 ebbe grande
successo nelle trasmissioni settimanali della BBC, interpretato
dall’attore S. J. Warmington. Di conseguenza, dovendo essere per lo
più parlato, si basava molto sulle indagini che l’ispettore
conduceva interrogando un certo numero di persone e quindi gli
ascoltatori “partecipavano” alla ricerca del colpevole che veniva
smascherato solo all’ultimo momento, ma con deduzioni logiche alla
quale i più attenti e arguti potevano egualmente arrivare.
A seguito di questo successo, nel
1939 si intraprese la via del cinema cambiando però un poco il
personaggio (interpretato da Gordon Harker) che passò ad essere
della Metropolitan Police e per il grande schermo ora contava su un
assistente scozzese un po’ pasticcione (il sergente Bingham
interpretato da Alastair Sim) il quale contribuiva, e non poco, a
dare un tocco di commedia alle indagini oltre che a intralciare -
involontariamente - il lavoro dell’arguto ispettore. Più o meno fra
i due c’era un rapporto intellettivo simile a quello fra Sherlock
Holmes e il suo fido Dr. Watson, con il primo pensante e geniale, il
secondo volenteroso, fedelissimo e incapace che tuttavia, seppur per
puro caso, spesso contribuiva alla risoluzione di un caso.
Anche la versione cinematografica
ottenne un’ottima accoglienza, ma fu limitata a questi tre per il
rifiuto di Alastair Sim di continuare ad interpretare Bingham in
quanto aveva altre aspirazioni e non voleva restare incollato al
personaggio, venendo identificato con esso.
Le tre storie si rivelano essere una
ben bilanciata miscela di commedia e detective story seria, sempre
con molti possibili sospetti e con cospirazioni vere e proprie e non
un singolo colpevole. Oltre a ciò, e pur essendo film datati, la
visione risulta più che piacevole anche per essere ben realizzati,
per avere due ottimi attori perfettamente calati nelle rispettive
parti (Sim era veramente scozzese e marcava il suo accento che
contrastava con il cockney dell’ispettore) e per non essere mai
banali o di cattivo gusto.
84 “Eros + Massacre” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1969) tit. or.
“Erosu purasu gyakusatsu” * con Mariko Okada, Toshiyuki Hosokawa,
Yûko Kusunoki * IMDb 8,1
Non penso di esagerare affermando
che le 3h35’ di questo lavoro di Yoshida sono una continua
celebrazione del linguaggio filmico, in particolare per ciò che
riguarda la minuziosa scelta delle inquadrature.
Rimangono impressi i tanti diversi
effetti delle composizioni per niente convenzionali del regista a
cominciare dalla gran varietà di elementi con i quali seziona lo
schermo non solo secondo semplici assi, ma anche creando finestre
con altre linee che dividono lo schermo, in modo anche irregolare,
che diventano piccoli schermi inseriti nel principale. Ma colpiscono
anche i campi lunghi con grandangolo e con elementi che si ripetono,
le riprese verticali dall’alto, con soggetto rovesciato o in
rotazione, primi piani ripresi dal basso che si vanno ad incastonare
in una cornice fittizia, i soggetti posizionati molto lateralmente,
nell’ultimo quarto o quinto dell’inquadratura, fattore che viene
esaltato dal rapporto 2,35:1 e diventa specialmente efficace nel
caso siano due, ai limiti opposti dello schermo, le frequenti scene
sovrapposte, i campi lunghi con i soggetti quasi in miniatura che si
muovo lungo il limite superiore o inferiore dell’inquadratura ...
tagliati a metà, campi medi con pochissima profondità di campo che
vanno dall’effetto bokeh alla semplice riduzione dell’area a fuoco
mediante un elemento più grande sfuocato ed in primo piano, e tante
altre creazioni estremamente interessanti.
A tutto ciò aggiungete il discorso
filosofico-rivoluzionario evidenziato dai dialoghi fra i
protagonisti delle due storie che si sviluppano a mezzo secolo di
distanza, con i due giovani studenti che alla fine degli anni ’60
“scoprono” le idee dell’anarchico militante giapponese Sakae Osugi
(anche sostenitore dell’amore libero) che è protagonista delle scene
ambientate nel 1916 con le sue tre compagne: sua moglie Yasuko Hori,
la militante femminista Itsuko Masaoka e la sua ultima amante Noe
Itō, anarchica e femminista, successivamente assassinata insieme a
lui dalla polizia militare nel 1923.
Yoshishige Yoshida (aka Kiju Yoshida)
inizialmente fu pilastro della cosiddetta New Wave giapponese,
insieme con Nagisa Oshima and Masahiro Shinoda, ma ben presto se ne
allontanò per avere maggior libertà e produsse in proprio i suoi
migliori film fra i quali “Eros + Massacre”, da molti reputato il
suo migliore in assoluto. Fu attivo soprattutto negli anni ’60 e
all’inizio del decennio successivo, per poi dirigere soli altri tre
film, nell’86, ’88 e 2002. “Eros + Massacre” è il primo film della
trilogia di Yoshida sul radicalismo politico, seguito da Heroic
Purgatory (1970, sul comunismo) e Coup d'Etat (1973, sul
nazionalismo e l’estrema destra).
Film da non perdere! In particolare
gli amanti del vero cinema non possono fare a meno di guardarlo ...
anche se a pezzi data la durata.
83 “A Story Written with Water” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1965) tit.
or.
“Mizu de kakareta monogatari” * con Mariko Okada, Ruriko Asaoka,
Yasunori Irikawa, Isao Yamagata * IMDb 7,4
Come anticipato, dopo aver visto
film sopravvalutati candidati agli Oscar e Z-movie cult (di Ed Wood)
torno al cinema “serio” con un paio di film di Yoshishige Yoshida (aka
Kiju Yoshida). Procedendo in ordine cronologico, ho cominciato con
questo doppio dramma familiare, con quattro personaggi legati fra
loro a più livelli ... e ce ne potrebbe essere ancora un altro. In
questo caso i tanti flashback (che di solito non amo) sono inseriti
alla perfezione e sono significativi e ad essi si aggiungono varie
scene oniriche e surreali, tutte descritte in un ottimo bianco e
nero. Fra un matrimonio non perfetto e tanto complesso di Edipo, i
protagonisti si incontrano e si scontrano fino alla conclusione che
lascia allo spettatore parecchie possibilità di interpretazione.
Molto bravo il protagonista Yasunori
Irikawa e le due prime donne che lo affiancano, Mariko Okada nel
ruolo della madre e Ruriko Asaoka la moglie.
Yoshida fu un esponente principale
della “new wave” giapponese, insieme con Nagisa Oshima e Masahiro
Shinoda, e fu attivo soprattutto negli anni ’60 e inizio dei ’70,
dopodiché ha diretto solo altri 3 film nell’86, ’88 e 2002. Nel 1964
sposò l’attrice Mariko Okada, protagonista di molti suoi film, e il
matrimonio continua, dopo oltre 50 anni.
Film senz’altro apprezzabile e da
guardare con attenzione in quanto è ben diverso dai classici e anche
dai giapponesi moderni.
81 “Night of the Ghouls” (Edward D. Wood Jr., USA, 1959) tit. it.
“La notte degli spettri” * con Kenne Duncan, Duke Moore, Tor Johnson
* IMDb 3,6 RT 30%
82 “Plan 9 From Outer Space” (Edward
D. Wood Jr., USA, 1959) * con Gregory Walcott, Tom Keene, Mona
McKinnon, Tor Johnson * IMDb 4,0 RT 67%
Altri due film del
regista-sceneggiatore-produttore
#EdWood (noto per essere
reputato il peggiore della storia del cinema) con i quali ho
concluso il mio breve approfondimento della sua filmografia, in
quanto reputo che cinque film siano più che sufficienti e
considerato che negli anni ‘60 produsse per lo più exploitation
movies, porno softcore e veri e propri film pornografici.
Dei cinque, “Night of the Ghouls” è
il più insignificante, riuscendo solo ad essere banale e mal
realizzato, senza neanche riuscire a divertire per la sua
insulsaggine.
“Plan 9 From Outer Space” è invece
il più noto dei relativamente numerosi film realizzati Edward D.
Wood Jr. e in esso, al contrario di “Night of the Ghouls”, Ed Wood
entusiasma i cinefili proponendo geniali scenografie con
“minimalistimissime” ricostruzioni di ambienti come la cabina di
pilotaggio dell'aereo (fantastiche le cloche) e l'interno
dell'aeronave che, oltretutto, quando vola è a sezione circolare e a
terra quadrata, inserendo vecchie riprese con Bela Lugosi (deceduto
due anni prima) e facendo poi comparire il personaggio varie altre
volte ma, essendo ovviamente interpretato da un diverso attore,
sempre con il volto coperto dal mantello; come nei film precedenti è
singolare che le vittime di aggressioni strillino ma non reagiscano
mai, neanche un minimo istintivo movimento e notevoli sono anche le
scene nelle quali tutti gli attori sono schierati e mentre dialogano
hanno la stessa mobilità di stoccafissi surgelati. (date un’occhiata
agli screenshot allegati!)
Molto originale anche l'intreccio
della trama tra thriller, sci-fi e horror-zombie, con
interpretazioni memorabili. Per esempio, l’inconfondibile Tor
Johnson (ex wrestler) ha anche una parte non da zombie, ma se non
fosse per il cambio di abbigliamento non si noterebbe ...
In conclusione, un vero cult movie
da guardare e riguardare in quanto non si finisce mai di notare
errori, apprezzare l’inespressività degli attori e la banalità delle
battute, trovare lacune e incongruenze nella trama ...
In alcuni punti mi ha ricordato il
demenziale “Be Kind Rewind” (2008) nel quale Jack Black, nottetempo,
ri-girava qualunque blockbuster gli fosse stato richiesto dopo aver
inavvertitamente cancellato tutti i nastri della videoteca in cui
lavorava.
A proposito di questo film voglio
citare questo ormai famoso stralcio di recensione:
“Epitome del cinema
tanto-cattivo-da-essere-buono, “Plan 9 From Outer Space” è un
involontariamente ridicolo sci-fi "thriller" dell’anti-genio Ed
Wood, il quale è giustamente famoso per la sua straordinaria
inettitudine”.
80 “Phantom Thread” (Paul Thomas Anderson, USA, 2017) tit. it.
“Il filo nascosto” * con Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis, Lesley
Manville * IMDb 7,6 RT 96% * 6 Nomination Oscar: Miglior film,
regia, Daniel Day-Lewis protagonista, Lesley Manville non
protagonista, commento musicale, costumi
Sono entrato in sala un po' timoroso
dopo la grande delusione di “Lady Bird”, visto poco prima, e sapendo
che l’ambiente nel quale si svolge “Phantom Thread” è quello
dell’alta moda (non è che proprio mi affascini, anzi) e quindi tutte
le mie speranze erano riposte in Daniel Day-Lewis.
In questa occasione il
regista-sceneggiatore Anderson (autore delle sceneggiature di tutti
i suoi soli 8 film in 20 anni) ha deciso di cimentarsi anche come
direttore della fotografia, seppur uncredited. Cominciando da lui,
mi è piaciuta abbastanza la regia (senza entusiasmarmi), molto poco
la sceneggiatura, e in quanto alla fotografia più che apprezzabile
per gli interni e i dettagli, deludente negli esterni.
Il pur sempre bravo Daniel Day-Lewis
si ritrova ad interpretare un personaggio strano, apparentemente
forte, ma assolutamente dominato dalle donne che gli sono (e sono
state) accanto, che riescono a gestirlo sottilmente. Forse per il
tipo di personaggio in fondo molto remissivo, forse per essere
giunto alla sua ultima interpretazione (ma perché ritirarsi a 60
anni? c’è qualcosa che non so?), forse per precise direttive del
regista, mi sembra che non sia riuscito a fornire una prova incisiva
come quelle indimenticabili di “There Will Be Blood” e “Lincoln”.
Brava Lesley Manville nel ruolo
della sorella del famoso sarto, senza infamia e senza lode la “prima
donna” Vicky Krieps, nel ruolo della indisponente e perfida Alma.
Certamente è un film ben costruito
nel complesso ma, a quanto leggo, è per me generalmente
sopravvalutato.
79 “Lady Bird” (Greta Gerwig, USA, 2017) * con Saoirse Ronan, Laurie
Metcalf, Tracy Letts * IMDb 7,7 RT 99% * 5 Nomination Oscar:
Miglior film, regia, Saoirse Ronan protagonista, Laurie Metcalf non
protagonista, sceneggiatura
Qualcuno sarebbe così gentile da spiegarmi i (presunti) meriti di
"Lady Bird" per i quali ha ottenuto 5 Nomination “importanti”???
Sarà, come temevo, una concessione
alle donne (Greta Gerwig è l’unica regista candidata) dopo quelle
agli afroamericani dell’anno scorso?
Film senza né capo né coda, dialoghi
di una pochezza inaudita (pur volendo considerare gli evidenti
limiti dei protagonisti), Saorsie Ronan - che interpreta una
diciassettenne - dimostra tutti i suoi anni (23) e forse anche
qualcuno in più ... non c'erano alternative?, regia pietosa,
montaggio scandaloso, c'è bisogno di aggiungere altro?
Dimenticavo, in una piccola parte
c'è anche il tanto elogiato Timothée Chalamet (candidato Oscar come
miglior attore protagonista per Call Me by Your Name) ... ma siamo
sicuri del suo talento?
I film di Ed Wood visti nei giorni
scorsi, almeno, facevano sorridere per l'incompetenza del
regista-sceneggiatore che oltretutto doveva arrangiarsi come poteva
con il suo striminzito budget ... leggo che "Lady Bird" è costato 10
milioni di dollari!
78 “I, Tonya” (Craig Gillespie, USA, 2017) tit. it. “Tonya” * con
Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan * IMDb 7,6 RT 90% * 3
Nomination Oscar: Margot Robbie protagonista, Allison Janney non
protagonista, montaggio
“A dramedy that is neither a good drama nor a decent comedy.”
Ho ripreso il titolo di una recensione in quanto penso che esprima
bene anche il mio punto di vista ma, non avendo letto tale critica,
le mie perplessità e valutazioni potrebbero anche essere del tutto
differenti
Pur coprendo una ventina d’anni
della carriera di Tonya come pattinatrice, lo schema delle varie
situazioni è troppo ripetitivo e prevedibile. Il contrasto fra ciò
che viene mostrato e i commenti fatti nel corso delle “interviste”
di vari anni dopo lascia troppi vuoti e pochi dati di fatto. Tonya
viene quasi presentata come vittima assoluta ma, comunque siano
andate effettivamente le cose (e non si sa con esattezza), ha tante
responsabilità e la sua solita giustificazione (nel film) “Non è
colpa mia” certamente non regge.
L’esposizione dei fatti sarà anche
abbastanza vicina alla realtà (Dio prima li fa e poi li accoppia) ma
un tale gruppo di folli irrazionali e gratuitamente violenti così
come sono presentati è al limite della credibilità per un biopic.
Penso che nella sceneggiatura si sia calcato un po’ troppo la mano
su certi personaggi (un paio per tutti: Shawn e Shane) per strizzare
l’occhio alla black comedy e ci siano troppe scene di violenza, di
ogni tipo, per aumentarne la drammaticità, tuttavia non riuscendo a
raggiungere alcun obbiettivo.
Da sportivo, ho apprezzato invece le
recriminazioni (vere o creazioni dello sceneggiatore Steven Rogers?)
di Tonya nei confronti dei giudici. Gli argomenti sollevati sono
vere palle al piede, spesso aggravate dalla disonestà di alcuni
arbitri, per sport nei quali si dà troppa importanza dei fattori
estetici a discapito delle valutazioni strettamente tecniche e si sa
che titoli e trofei (e soldi) sono spesso attribuiti per questioni
di centesimi di punti e quindi ne conseguono infinite polemiche. E
la spiegazione conclusiva del giudice in merito all’immagine mette
altra carne a cuocere. Ho la sensazione che tali dialoghi siano
stati scritti ed inseriti in modo abbastanza sottile e finalizzato.
Tornando al film, si fanno certo
notare le due prime donne Margot Robbie e Allison Janney (entrambe
candidate all’Oscar), ma le loro interpretazioni non mi sono
sembrate certo strepitose, in particolare penso che la prima non
abbia alcuna speranza di vincere la sua statuetta.
Le scene di pattinaggio non sono
eccessivamente invadenti e certamente non predominanti, ma una buona
ulteriore sforbiciata sarebbe stata opportuna.
Guardabile, ma non imperdibile.
77 “All the Money in the World” (Ridley Scott, USA, 2017) tit. it.
“Tutti i soldi del mondo” * con Michelle Williams, Christopher
Plummer, Mark Wahlberg * IMDb 7,1 RT 77% (83% top critics) *
Nomination Oscar per Christopher Plummer come miglior attore non
protagonista
Questo film retto dalle due ottime
interpretazioni di Christopher Plummer e Michelle Williams, la quale
avrebbe meritato più considerazione per le Nomination agli Oscar, è
segnato dal cambio di uno degli attori principali (Kevin Spacey, per
i noti motivi) a riprese già molto avanzate. In meno di un mese sono
state quindi ri-girate tutte le scene nelle quale compariva e ciò
torna ad ulteriore merito dell’ottimo Christopher Plummer il quale,
per questa interpretazione, diventa il più anziano candidato agli
Oscar per l’interpretazione, “titolo” che già glia apparteneva per
l’Oscar vinto nel 2012 con “Beginners” (2010).
Il soggetto è la vera storia del
rapimento del nipote del magnate Paul Getty ed è cosa ben nota,
almeno fra tutti gli ultrasessantenni, i quali ricorderanno anche
quegli anni in genere, compresa la crisi del petrolio dell’epoca e
la conseguente “austerity”. Tuttavia, nell’elaborare la
sceneggiatura varie cose sono cambiate, qualcuna è stata inventata
di sana pianta e l’Italia rappresentata da Ridley Scott è,
inevitabilmente, piena di luoghi comuni e stereotipi.
Interessanti gli ambienti in cui si
muove il vecchio Getty e buona caratterizzazione del personaggio,
pressoché ridicole le rappresentazioni dei vari rapitori (esaltando
la parte di brutti e sporchi, in fondo non tanto cattivi) e dei
luoghi che abitano. Per quanto riguarda gli altri esterni, abbondano
i soliti panorami romani con l’aggiunta di una miriade di Vespe e
paparazzi. Non ho apprezzato gli inutili (almeno secondo me)
andirivieni temporali.
Nel complesso un film così così, con
una buona regia (da apprezzare soprattutto il “salvataggio” del film
in corso d’opera) e due ottime interpretazioni, mentre Mark Wahlberg
(in una delle sue prove più scialbe) e il resto del cast sono
veramente sotto la media.
PS - trovo che con il passare degli
anni Plummer diventi sempre più somigliante a Anthony Quinn
75 “Jail bait” (Edward D. Wood Jr., USA, 1954) * con Lyle Talbot,
Dolores Fuller, Herbert Rawlinson IMDb 3,3 RT 29%
76 “Bride of the Monster” (Edward D.
Wood Jr., USA, 1955) tit. it.
“La sposa del mostro” * con Bela Lugosi, Tor Johnson, Tony McCoy
IMDb 4,1 RT 45%
I film di Edward D. Wood Jr.,
ovverossia il fascino dell'orrido, senza nessun riferimento
all’horror che è tutt’altra cosa.
Per fortuna i suoi film sono brevi,
solo poco più di un’ora e hanno il vantaggio, già sottolineato da
molti, di essere talmente mal realizzati, ed in varie parti
veramente ridicoli, da risultare divertenti.
Non per niente Ed Wood si è
guadagnato il titolo di “peggior regista di sempre”.
Venendo ai due film visti ieri, devo
dire che non sono d’accordo nell’ordine di merito (guardate i
rating) e penso che il secondo sia stato “salvato” dai cinefili fan
di Bela Lugosi, al suo penultimo film.
In entrambe i casi soggetto e
sceneggiatura sono scritti da Wood a quattro mani con il suo fido
amico Alex Gordon, ma in “Jail bait” c’è un’idea geniale (che
conclude il film) meritevole di tutt’altra e migliore sorte. Quindi,
pur essendo piatto, basato su stereotipi mal rappresentati, anche se
i personaggi non sono del tutto ridicoli, con solo una parvenza di
recitazione da parte di qualche interprete, si salva all’ultimo
momento rinunciando ad uno dei possibili finali, banali ma almeno un
po’ realistici, con il “coup de theatre” al quale accennavo pocanzi
che non è prevedibile se non solo pochi istanti prima della
rivelazione.
L’idea è ottima, ma assolutamente
non credibile per un cumulo di motivi.
Il secondo “Bride of the Monster” è
un disastro completo, a iniziare dalla debolissima e
prevedibilissima trama, per continuare con la pessima messa in scena
che conta su un polpo (vero, in un acquario = il mostro!) e sui suoi
ipotetici tentacoli mal realizzati e mossi ancora peggio, su un
laboratorio ridicolo, su un energumeno muto, ma non si deve
dimenticare il professor Strowski (siamo in piena guerra fredda), e
via discorrendo.
Fa quasi tenerezza
l’ultrasettantenne Bela Lugosi (che chissà perché si associò con Ed
Wood) con il suo marcato accento, il forzatissimo sguardo ipnotico e
i movimenti di mani e soprattutto dita, quasi una caricatura delle
sue interpretazioni vampiresche.
Film per veri “topi di cineteca” ...
di tanto in tanto ci vuole una distrazione dai film superelogiati,
con budget eccessivi cast con nomi famosi che si rivelano clamori
bidoni. Almeno, nel caso di Ed Wood si sa cosa si va a guardare e le
attese non vanno deluse: film senza né capo né coda, mal
interpretati e peggio realizzati che tuttavia, proprio per tali
motivi, hanno un loro fascino ... dell’orrido.
74 “Secretos del corazón” (Montxo Armendáriz, Spa, 1997) trad. lett.
“Segreti del cuore” * con Carmelo Gómez, Charo López, Andoni Erburu,
Silvia Munt * IMDb 7,3 Nomination Oscar miglior film in lingua non
inglese * Premio Angelo Azzurro (miglior film europeo tra quelli in
concorso) e Nomination Orso d’Oro al Festival di Berlino * 4 Premi
Goya (Andoni Erburu attore rivelazione, Charo López non
protagonista, scenografia, sonoro) e 5 Nomination
Film degno della migliore tradizione
spagnola, di quelli che purtroppo negli ultimi decenni sono sempre
più rari. Un’ottima storia ben descritta, con un buon cast e una
bella ambientazione. Tutto viene filtrato attraverso la curiosità
del piccolo Javi, che vive in città con il fratello a casa di due
zie, mentre la madre (vedova) resta nel paesino di campagna.
Curioso, ma un po’ pauroso, intraprendente ma condizionato dalle
tante bugie (più o meno innocue) che gli propinano, a cominciare dal
fratello maggiore. Al di là di zie, zii e nonno, Montxo Armendáriz
(anche sceneggiatore del film) propone vari personaggi ben
caratterizzati con poche “pennellate”, spaccati della vita di
campagna e simpatiche scene scolastiche, in particolar modo quelle
delle prove della recita annuale.
Anche se alcune situazioni si
sospettano, le conferme arrivano con il ritmo giusto e sempre
mantenendo un po’ di sorpresa.
Merita senz’altro una visione.
73 “Secrets & Lies” (Mike Leigh, UK, 1996) tit. it.
“Segreti e bugie” * con Timothy Spall, Brenda Blethyn, Marianne
Jean-Baptiste, Phyllis Logan * IMDb 8,0 RT 95% * 5 Nomination
Oscar (Miglior film, Mike Leigh per regia e sceneggiatura, Brenda
Blethyn protagonista, Marianne Jean-Baptiste non protagonista)
Penso che si sarebbe potuto
sviluppare l’ottimo soggetto in modo molto migliore e più
equilibrato. Troppo lunga e ripetitiva la prima parte, scontata la
seconda, un'occasione persa. Come esempio significativa, nella parte
centrale del film c’è un’esagerata l'inquadratura fissa di una
decina di minuti sulle due protagoniste, in un bar assolutamente
deserto. Le due ore e un quarto sono senz’altro troppe per questo
film, volendo mantenere tale durata non c’era che l’imbarazzo della
scelta per aggiungere qualche elemento significativo. Sul tema degli
abbandoni e delle adozioni, sulla eventuale ricerca di genitori
naturali o, al contrario, ricerca di figli dati in affidamento già è
stato detto tanto ma senz’altro è un tema che può essere
approfondito da molti punti di vista.
Ho trovato molto bravo Timothy Spall
(di recente apprezzato in “The Party”, 2017) ma anche Brenda Blethyn
e Marianne Jean-Baptiste forniscono ottime interpretazioni e penso
che abbiano meritato le rispettive Nomination.
Buon film, ma mi aspettavo di più
... soprattutto mi ha deluso la regia.
72 “Shadowlands” (Richard Attenborough, UK, 1993) tit. it.
“Viaggio in Inghilterra” * con Anthony Hopkins, Debra Winger, Julian
Fellowes * IMDb 7,4 RT 97% * 2 Nomination Oscar (Debra Winger
protagonista e William Nicholson per la sceneggiatura)
Tratta di un breve periodo della
vera vita di C. S. Lewis, un prof. di lingua e letteratura inglese
ad Oxford, molto più famoso per essere l'autore - fra altri scritti
- dei 7 libri noti come “Le cronache di Narnia”. L’incontro con una
sua “ammiratrice” americana, la poetessa “dilettante” Joy Gresham,
con figlio al seguito, certamente cambiò la sua vita routinaria
divisa fra università e casa, che divideva con il fratello Warnie.
La storia si trascina a ritmo lento,
ma per fortuna viene vivacizzata dai dialoghi, quasi simpatici
battibecchi, fra Lewis e Joy nei quali spesso intervengono anche
Warnie e vari colleghi, molti dei quali guardano con un’aria di
superiorità “l’americana” che, tuttavia, ha sempre una risposta
pronta e sagace per loro. A ciò si aggiungono alcuni stralci delle
conferenze filosofico-religiose tenute da Lewis in affollatissime
sale e, infine, è interessante lo spaccato della vita universitaria
di Oxford negli anni ’50, con le riunioni (quasi riti) di
ottuagenari togati che mantengono tradizioni secolari sia negli
edifici del '700, sia negli spazi aperti lungo le rive del fiume.
Chi conosce almeno un po’ le
mentalità britannica e americana, può apprezzare più a fondo lo
scontro culturale fra uno degli ambienti più obsoleti, seppur colti,
della terra di Albione, e il moderno modus vivendi del nuovo mondo
rappresentato dalla saccente ma arguta, sfrontata ma acuta Joy.
Ottimo il cast, e non mi riferisco
solo ai protagonisti Hopkins e Winger, ma anche al giovane Joseph
Mazzello (Douglas, il figlio di Joy), a Edward Hardwicke (Warnie
Lewis) e ai tanti altri che ricoprono ruoli minori.
Chi pone attenzione ai contenuti dei
dialoghi e delle conferenze di C. S. Lewis, vi troverà mille spunti
di riflessione, fra il filosofico e il religioso.
71 “Fail Safe” (Stephen Frears, Martin Pasetta, USA, 2000) tit. it.
“A prova di errore” * con Walter Cronkite, Richard Dreyfuss, Noah
Wyle * IMDb 7,4 RT 100%
Ancora un film per la tv, un ottimo
prodotto in particolare considerando la sua eccezionalità. Il film
fu realizzato “in diretta” su vari set della Warner Brothers Burbank
Studios, per la rete televisiva CBS, primo esperimento del genere
dopo 39 anni di attività.
I pochi attori che comparivano in
diverse location dovevano quindi cambiare set e, nel caso di Harvey
Keitel, cambiarsi rapidamente (dal pigiama a casa alla divisa nella
sala riunioni). Anche George Clooney (fra l’altro produttore
esecutivo del film) passa dall’alloggio piloti all’interno del
bombardiere, ma molto probabilmente doveva solo muoversi nella
stanza accanto e indossare casco e maschera da pilota. Da
sottolineare che, per sicurezza, la CBS aveva già prodotto una copia
dell’ultima “prova in costume”, da mandare in onda in qualunque
momento nel caso fosse sorto un problema nel corso della diretta ...
ma tutto andò alla perfezione.
La sceneggiatura è tratta
dall’omonimo bestseller di Eugene Burdick e Harvey Wheeler del 1962,
del quale già nel ’64 fu realizzata un’ottima versione
cinematografica (IMDb 8,0, RT 95%), diretta da Sydney Lumet, con
Henry Fonda nei panni del Presidente e Walter Matthau in quelli del
cinico Professor Groeteschele.
Senz’altro un ottimo film con una
perfetta escalation di tensione, con un efficace montaggio che porta
gli spettatori a seguire i contatti fra la sala controllo del
quartier generale dello Strategic Air Command di Omaha, lo studio
del Presidente con il famoso telefono rosso (linea diretta con
Mosca), il National Security Council del Pentagono.
Cast di tutto riguardo con Richard
Dreyfuss (Presidente USA), Harvey Keitel (Gen. Warren A. Black "Blacky"),
Hank Azaria (Prof. Groeteschele), Brian Dennehy (Gen. Bogan), George
Clooney (Col. Jack Grady) e tanti altri volti noti, apprezzati
caratteristi in decine di film americani. A proposito delle loro
interpretazioni è giusto e fondamentale sottolineare che non c’era
la possibilità di un secondo ciak, né di prendersi pause durante
l’ora e mezza di performance anche se non erano sempre in scena, ...
altro che attori di mezza tacca che hanno bisogno di decine di ciak
per dire mezza battuta!
“Fail Safe” è un thriller politico e
di strategia bellica di alto livello, ne consiglio la visione.
70
“Fanny & Alexander” fu l’ultimo film diretto da Igmar Bergman e
conta con l’ultima apparizione di uno dei suoi attori prediletti,
l’ottimo Gunnar Björnstrand, protagonista in una ventina di suoi
film fra i quali Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole
(1957), Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1963), Persona
(1966).
Recensione nel post su Discettazioni Erranti
69 “Un mondo di marionette” (Ingmar Bergman, Ger, 1980) tit. or.
“Aus dem Leben der Marionetten” * con Robert Atzorn, Christine
Buchegger, Martin Benrath * IMDb 7,5 RT 56%
In realtà si tratta di un film per
la TV tedesca diretto da Bergman nel periodo in cui si allontanò
dalla Svezia dopo essere stato accusato di frode fiscale, fatto che
lo turbò e depresse a tal punto da doversi ricoverare per vari mesi
in una clinica. Per “Un mondo di marionette” si avvalse di un cast
tutto tedesco, come per il suo precedente lavoro in Germania “L'uovo
del serpente”. I protagonisti sono Katarina and Peter Egermann, una
coppia già vista in un episodio di “Scene da un matrimonio” (1973),
in quel caso interpretati da Bibi Andersson e Jan Malmsjö.
Il film inizia con un omicidio e
poi, con flashback e flashforward, tenta di presentare i legami fra
vari personaggi - tutti molto particolari - con indagini della
polizia, le solite infinite discussioni fra moglie e marito,
tradimenti, amanti, e via discorrendo. Ne esce un quadro un po’
confuso costituito da scene nettamente scollegate fra loro per
spazio e tempo, nelle quali interagiscono 2 o al massimo 3
personaggi principali, con lunghe discussioni o confessioni.
Qualcuno lo giudica sottovalutato,
altri dicono che risente del periodo post-depressivo di Bergman,
l’ho trovato interessante sotto certi aspetti ma certamente non è
all’altezza della fama del regista svedese.
Per questo film Bergman torna a
girare in bianco e nero, dopo vari film a colori.
68 “Passione” (Ingmar Bergman, Sve, 1969) tit. or.
“En passion” * con Liv Ullmann, Bibi Andersson, Max von Sydow *
IMDb 7,8 RT 100%
Siamo passati al colore, gli usuali
pochi personaggi (interpretati dai soliti bravi attori) si
confrontano ancora una volta in un ambiente limitato (un'isola), ma
in questo film Bergman inserisce una particolarità che non ricordo
di aver visto in nessuna altra occasione se non negli extra dei
film: i commenti degli attori a riguardo dei propri ruoli. Ognuno
degli attori principali ha un suo spazio in certo momento del film e
spiega al pubblico come vede il suo personaggio. Altra particolarità
è quella di una misteriosa storia di crudeltà sugli animali che si
sviluppa parallelamente a quella principale avendo tuttavia alcuni
punti di contatto.
Gli argomenti chiave del film, però,
sono ancora una volta quelli della gelosia che contrasta con la
libertà sessuale, le coppie in crisi e qualche accenno a Dio.
Un buon film, seppur con qualche
sbavatura, sorretto da ottime interpretazioni, ma ho l’impressione
che Bergman non padroneggi il colore come il bianco e nero, ma
almeno non ci sono più le esagerate luci troppo spesso sparate sugli
attori.
67 “La fontana della vergine” (Ingmar Bergman, Sve, 1960) tit. or.
“Jungfrukällan” * con Max von Sydow, Birgitta Valberg, Gunnel
Lindblom * IMDb 7,8 RT 100% * Oscar Miglior film non in lingua
inglese, Nomination per i costumi (b/n)
Nell'approfondimento della
filmografia di Bergman, dopo la trilogia "dell'assenza di Dio", dopo
la distrazione di un paio di film attualissimi visti in sala ("The
Shape of Water" e "The Bookshop") e prima di passare ad altri 3 film
successivi di Bergman (però non collegati fra loro) torno al1960 con
"La fontana della vergine", Oscar 1961 come film non in lingua
inglese.
“La fontana della vergine” è uno dei
pochi casi in cui Bergman non ha utilizzato una sceneggiatura sua,
ma si è affidato a Ulla Isaksson; resta invece al suo posto il
direttore della fotografia, il solito apprezzatissimo Sven Nykvist,
che però a me piace solo per gli esterni (bellissimo il suo bianco e
nero), mentre non sopporto le sue eccessive luci sparate sui volti,
l’eccesso di luminosità degli interni che, a giudicare dalle
sorgenti di luce visibili, dovrebbero essere poco illuminati, le
nette ombre plurime proiettate in ogni direzione, spesso
realisticamente impossibili.
Di conseguenza, pur apprezzando la
regia di Bergman, trovo che spesso si basi troppo sugli effetti
scenici e drammatici della fotografia di tipo teatrale, quasi
dimenticandosi del resto. A suo merito si deve però aggiungere che
conta sempre su ottime interpretazioni di bravi attrici e attori
che, evidentemente, sa dirigere.
Tornando a “La fontana della
vergine”, devo dire che la storia, ambientata nelle campagne e
boschi svedesi del XIII secolo, è poco convincente ma bisogna tener
presente che il soggetto originale è una leggenda, tramandata anche
dal testo di una popolare ballata. Si devono quindi leggere e
considerare i significati morali e simbolici che si vollero inserire
all’epoca e non la traballante trama, fino al quasi miracoloso
finale.
Al momento lo reputo sopra la media
della dozzina di film di Bergman finora visti, ma non fra i suoi
migliori.
66 “The Bookshop” (Isabel Coixet, UK/Spa, 2017) tit. it.
“La libreria” (forse, almeno si spera) * con Emily Mortimer, Bill
Nighy, Patricia Clarkson * IMDb 6,6 RT 71%
Non male, buono il soggetto (tratto
dall’omonimo libro dell’inglese Penelope Fitzgerald), bella
l’ambientazione in un tranquillo paesino costiero, umido, piovoso,
con edifici e personaggi di altri tempi. L’anziano generale succube
della falsa, sleale e perfida moglie Violet (Clarkson), il solitario
e misterioso Mr. Brundish (Nighy), la piccola Christine (la brava
tredicenne Honor Kneafsey, che già conta 7 film) e sua madre, il
pescivendolo, l’avvocato, il direttore della banca e altri sono
tutti ben descritti (più o meno approfonditamnete a seconda del loro
ruolo) e interpretati da un buon cast tutto inglese. Solo il viscido
Milo North (James Lance) mi è sembrato dipinto troppo sopra le righe
e il pessimo doppiaggio lo ha ulteriormente peggiorato.
Come era facilmente prevedibile
considerati tema e ambientazione il film, realisticamente, si
sviluppa lentamente fra esterni quasi sempre grigi e umidi (ma siamo
in UK, effettiva location Portaferry, Irlanda del Nord), vecchie
case a magioni, e ovviamente si parla relativamente spesso di
scrittori e poeti, nonché di romanzi, classici e moderni.
La regista è la catalana Isabel
Coixet, che forse qualcuno ricorda per il suo “Elegy” (2008, tit. it.
“Lezioni d'amore”). Emily Mortimer (protagonista assoluta) e
Patricia Clarkson (appare poco ma ha un ruolo importante) avevano
già lavorato insieme in “Lars and the Real Girl” (2007), “Shutter
Island” (2010) e nel recentissimo e ottimo “The Party” (2017).
Se mai giungesse in Italia non
prevedo un gran successo ma penso che possa senz’altro piacere a chi
apprezza la lettura e a chi ha abbastanza cultura specifica per
apprezzarne la parte bibliofila-letteraria.
Al momento non sembra annunciato in
Italia, ma la situazione si potrebbe presto sbloccare dopo lo
“special gala” (e prima internazionale) al Berlin Film Festival,
giovedì scorso, 15 febbraio. In effetti non è ancora uscito neanche
in Inghilterra, ma solo in Spagna dove fra i Goya e altri Festival
ha raccolto 11 premi e 27 Nominanion e ha ottenuto buoni risultati
al botteghino.
65 “The Shape of Water” (Guillermo Del Toro, USA, 2017) tit. it.
“La forma dell’acqua” * con Sally Hawkins, Octavia Spencer, Michael
Shannon, Michael Stuhlbarg, Richard Jenkins * IMDb 7,8 RT 93% 13
Nomination Oscar 2018, oltre alle 4 già citate, ce ne sono 3 per Del
Toro (regia, miglior film e sceneggiatura, le ultime due condivise),
Octavia Spencer e Richard Jenkins (non protagonisti), fotografia,
costumi, montaggio e production Design.
Bella miscela di fantasy, fiction,
thriller, commedia, spy story e romance, narrata da Del Toro con
molto garbo, avvalendosi di un’ottima fotografia (senza troppe luci
fuori luogo, tutta sul giustamente cupo, interni trattati come
interni) ed un’eccezionale colonna sonora che da sola ha
praticamente ottenuto 3 Nomination: commento musicale originale,
sound editing e sound mixing (non mi domandate quale sia la
differenza fra le ultime due).
Tuttavia, mi ha lasciato molto
perplesso la scelta dell'inserto in b/n, penso di aver capito il
tipo di messaggio che Guillermo del Toro volesse convogliare, ma mi
sembra che il modo scelto c’entri come il cavolo a merenda ... una
vera stonatura nella struttura del film. Inoltre, varie "sorprese"
sono un po’ troppo prevedibili.
Ho trovato particolarmente in forma
Michael Shannon (che comunque rimane uno dei pochi senza Nomination)
e Sally Hawkins (candidata all'Oscar) della quale già si sapeva.
Perfino Michael Stuhlbarg mi è sembrato più convincente che nel
ruolo del professore, padre di Elio, in “Chiamami col tuo nome”.
Film senz’altro da non perdere
(oltretutto considerata l’attuale concorrenza ...), ma non è il
capolavoro che molti avevano annunciato e, probabilmente non il
miglior film di Guillermo Del Toro il quale, tuttavia, dovrebbe
essere quasi sicuro di portare finalmente a casa almeno un Oscar.
64 “Il silenzio” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or. “Tystnaden” *
con Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Birger Malmsten * IMDb 8,0 RT
92%
Capitolo conclusivo della trilogia
dei “chamber films”, dopo “Come in uno specchio” (1961) e “Luci
d'inverno” (1963); senz’altro il più criptico e deprimente dei tre.
Come avevo scritto, la trilogia viene anche definita “del silenzio
di Dio” ma in questo caso il tema compare in maniera molto
marginale.
Il film all’epoca suscitò molto
scandalo per le scene di sesso esplicito, almeno così furono
considerate in quegli anni.
La strana storia vede protagoniste
Ester, morente, sua sorella Anna, “sessualmente intraprendente”, e
il figlio di quest’ultima. Si trovano in un hotel in un paese
straniero e non conoscono la lingua locale. Ciò rende ancor più
evidente l’incomunicabilità fra le sorelle (che sì
potrebbero/dovrebbero parlarsi) assimilandola quasi alla barriera
linguistica fra loro e il personale e altri ospiti dell’albergo.
L’unico connessione con l’esterno sarà il rapporto occasionale di
Anna, puro sesso, niente parola.
Dei tre “Il silenzio” è quello che
ho apprezzato di meno, “Luci d'inverno” è il mio preferito e, al di
là di questo ristretto ambito, penso sia uno dei migliori di Bergman
in assoluto.
63 “Luci d'inverno” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or.
“Nattvardsgästerna” * con Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin, Max von
Sydow, Gunnel Lindblom * IMDb 8,1 RT 75%
Elemento centrale della trilogia dei
“chamber films” (o “del silenzio di Dio”), fra “Come in uno
specchio” (1961) e “Il silenzio” (1963).
Dopo la delusione del primo, temevo
questa seconda parte ma questo “Luci d'inverno”, al contrario, mi è
piaciuto veramente tanto, sia per la sceneggiatura che per le
interpretazioni. Gli argomenti tirati in ballo, e non certo per la
prima volta, da Bergman sono la ragione di vivere (se esiste), la
religione e la carenza della manifestazione di Dio (se esiste), i
rapporti personali che in questo caso vanno da un amore rifiutato ad
uno perso, tuttavia indelebile.
Dopo aver guardato un film,
specialmente se mi è piaciuto molto o per niente, vado a dare uno
sguardo alle recensioni per “confrontarmi” con chi la pensa in modo
totalmente opposto trovando critiche risibili. Uno dei (pochi)
denigratori di “Luci d'inverno” lo ha criticato perché “solleva
problemi, ma non fornisce soluzioni”! Sono millenni che nessuno
riesce a risolvere le questioni religiose e morali, come lo si può
pretendere da Bergman?
Dal mio punto di vista, il gran
merito del regista-sceneggiatore svedese è invece proprio quello di
proporre personaggi molto diversi fra loro, che si confrontano in
merito alle loro incertezze, aspirazioni, delusioni, frustrazioni e,
praticamente tutti, al contempo sentono l’assenza di un Dio sul
quale poter contare per trovare risposte ai loro dubbi. Gli ottimi
dialoghi sollecitano gli spettatori attenti (e pensanti) a cercare
le proprie conclusioni, gli altri (passivi) resteranno nel loro
stato di torpore mentale.
Ottimo film, senz’altro ad un
livello simile a quello dei migliori di Bergman della fine del
decennio precedente come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle
fragole” e “La fontana della vergine”.
Lo stesso Bergman dichiarò che “Luci
d'inverno” è il solo film del quale è completamente soddisfatto.
62 “Come in uno specchio” (Ingmar Bergman, Sve, 1961) tit. or.
“Såsom i en spegel” * con Harriet Andersson, Gunnar Björnstrand, Max
von Sydow * IMDb 8,1 RT 100% * Oscar come Miglior film non in
lingua inglese e Nomination per la sceneggiatura
Primo elemento della trilogia dei
“chamber films” a cui seguiranno “Luci d'inverno” e “Il silenzio”,
entrambi del 1963.
Bergman ha messo su un film
assolutamente teatrale si a per gli spazi ridotti nei quali si
sviluppano le varie scene, sia per il limitatissimo numero di
personaggi (solo 4), sia per il tipo di recitazione imposta agli
attori. Non mi sono piaciute per niente le luci (e soprattutto le
ombre) assolutamente fasulle (un paio di esempi lampanti sono fra le
foto allegate). Eppure, il direttore della fotografia era
l’apprezzato Sven Nykvist, vincitore di due Oscar, ma ciò non mi fa
cambiare opinione.
Inoltre, a fronteggiare Karin (Harriet
Andersson), da poco uscita da una clinica psichiatrica, Bergman
(anche sceneggiatore) pone i tre uomini della sua vita, vale a dire
padre, fratello e marito, anche questi con loro bravi problemi
psichici, seppur di natura ben diversa. Tutto si risolve come un
parlare fra sordi, ognuno vuole andare per la sua strada e la
comunicazione effettiva è praticamente inesistente.
Ho apprezzato tanti dei suoi film
precedenti, ma questo mi ha molto deluso per i vari suddetti motivi.
Spero di trovare qualche tema più realistico e interessante, oltre
ad una più precisa regia, negli altri due film della trilogia.
61 “La grande séduction” (Jean-François Pouliot, Can, 2003) tit.
int.
“Seducing Dr. Lewis”, tit. it. “La grande seduzione” * con David
Boutin, Lucie Laurier, Raymond Bouchard * IMDb 7,5 RT 68% *
Audience Award al Sundance Film Festival 2004
Singolare commedia canadese che,
seppur alla larga, ricorda molto uno dei capolavori spagnoli degli
anni ’50: “Bienvenido Mr. Marshall” (1953).
Mentre il paesino spagnolo di Villar
del Río era messo in subbuglio dall’annuncio dell’arrivo di
americani che avrebbero potuto destinare aiuti nell’ambito del Piano
Marshall, gli abitanti del minuscolo villaggio di (ex)pescatori di
St. Marie-La-Mauderne in Québec devono convincere un medico a
trasferirsi lì, conditio sine qua non per avere una piccola fabbrica
che darebbe lavoro a tutti i locali, che attualmente sopravvivono
con i sussidi di disoccupazione visto che non si pesca praticamente
più.
Come nel primo caso tutti, guidati
dall’intraprendente alcalde, collaborano a presentare il paese
attraente (secondo il folklore dell’immaginario collettivo di un
paesino della campagna andalusa) in “La grande séduction” il sindaco
organizza e dirige i 125 abitanti per “sedurre” il giovane chirurgo
plastico Dr. Lewis (da cui il titolo) di Montreal e convincerlo a
rimanere dopo i 30 giorni che deve scontare lì come servizio
sociale, dopo essere stato trovato in possesso di cocaina.
Piacevole e ingenua, con alcuni
buoni spunti e vari personaggi ben caratterizzati, nel complesso
senz’altro sufficiente, ma ben distante da “Bienvenido Mr. Marshall”
che tutt’oggi viene inserito ai primi posti fra i migliori film
spagnoli di sempre. Lo diresse il geniale Luis G. Berlanga, il quale
ne curò anche la sceneggiatura insieme con un altro apprezzatissimo
regista e sceneggiatore dell’epoca, Juan Antonio Bardem (zio di
Javier) che un paio di anni dopo avrebbe diretto altre due pietre
miliari del cinema spagnolo: “Calle Mayor” (1955) e “Muerte de un
ciclista” (1956).
60 “La flor de mi secreto” (Pedro Almodóvar, Spa, 1995) tit. it. “Il
fiore del mio segreto” * con Marisa Paredes, Juan Echanove, Carme
Elias * IMDb 7,1 RT 83%
Prodotto due anni dopo “Kika” e due
prima di “Carne tremula”, “La flor de mi secreto” non fra i film più
conosciuti di Almodóvar né, in generale, è molto apprezzato,
tuttavia a me è piaciuto, più di vari altri. Ci sono abbastanza
colpi di scena, ben distribuiti anche se qualcuno prevedibile, e
interessanti personaggi al limite del caricaturale, ma tutti più che
reali, affidati ad interpreti di riconosciuta esperienza come Rossy
de Palma, Juan Echanove e l’immarcescibile e inimitabile Chus
Lampreave, ma c’è anche Joaquín Cortés (proprio lui, il famoso
bailaor flamenco) nella prima delle sue sole 3 apparizioni sul
grande schermo.
Ho avuto l’impressione che i rossi
del regista manchego questa volta fungano veramente da filo
conduttore, sono pochissime le scene nelle quali non spicchino
vestiti, fiori o oggetti di ogni tonalità di rosso. Fedele al suo
standard, Almodóvar inserisce anche ad arte varie canzoni classiche
fra le quali “En el ultimo trago”, interpretata dalla sua amica
messicana Chavela Vargas.
Se minimamente piace lo stile di
Almodóvar, direi che è un film imperdibile, grazie anche ad una
superba interpretazione di Marisa Paredes.
59 “Mr. and Mrs. Bridge” (James Ivory, USA, 1990) * con Paul Newman,
Joanne Woodward, Saundra McClain * IMDb 6,7 RT 80% * Nominaton
Oscar 1991 per Joanne Woodward protagonista * 2 premi e
Nomination Leone d’Oro per James Ivory a Venezia 1990
James Ivory, apprezzato regista
(seppur poco prolifico) e saltuariamente sceneggiatore, attualmente
in corsa per l’Oscar con “Chiamami col tuo nome”.
In questo film descrive e segue i
delicati rapporti fra i coniugi Bridge, i loro figli e i loro
singolari amici (sarebbe più corretto dire conoscenti, fatto salvo
un singolo caso) basandosi su due romanzi di Evan S. Connell
pubblicati separatamente “Mr. Bridge” e “Mrs. Bridge”, ma uniti e
adattati da Ruth Prawer Jhabvala (Camera con vista, Howards End,
Quel che resta del giorno, ...).
Lo definirei un “film di mestiere”,
che si sviluppa lentamente ma con precisione, con un buon cast ad
interpretare i personaggi che caratterizzano la borghesia del Kansas
fra la fine degli anni ’30 e inizio dei ’40, condotti da due ottimi
attori quali Paul Newman e Joanne Woodward, quest’ultima candidata
Oscar 1991 come protagonista. Penso sia interessante sottolineare
che i due erano veramente marito e moglie, una delle coppie più
longeve del mondo hollywoodiano essendo stati sposati per ben 50
anni, felice convivenza interrotta solo dalla morte di Newman nel
2008, e che questo abbia ulteriormente favorito la loro prestazione.
58 “Nowhere in Africa” (Caroline Link, Ger, 2001) tit.or. "Nirgendwo
in Afrika" * con Juliane Köhler, Merab Ninidze, Matthias Habich *
IMDb 7,6 RT 84%
Un po' troppo lungo per ciò che
racconta, e un po' troppo edulcorato almeno per come mi immagino il
Kenya fra il 1938 e il 1946, ma certo non ero lì per poterlo
affermare con certezza. Almeno la natura è chiaramente affascinante.
Sceneggiatura adattata dall’omonimo
romanzo autobiografico (1995) di Stefanie Zweig, che narra della sua
famiglia ebrea, il padre avvocato già fuggito in Kenya, di buona
volontà e attitudine positiva, ma senza troppa spina dorsale,
successivamente raggiunto dall'insopportabile e arrogante moglie,
sostanzialmente stupida ed egoista, e dalla molto più disinvolta e
di mentalità aperta figlia di 5 anni e mezzo (l’autrice del libro).
Caroline Link, regista e
sceneggiatrice, saltella dai rapporti fra inglesi e tedeschi
(soprattutto ebrei in fuga dalla Germania nazista) a quelli fra
coloni europei e indigeni, dalle liti familiari fra l’eterna
scontenta Jettel e il marito Walter alla crescita della piccola
Regina che invece sa mantenere i giusti rapporti con i locali, con
gli inglesi e anche con la natura.
Il film ottenne l’Oscar come Miglior
film in lingua non inglese nel 2003, attribuzione molto criticata e
anche in questo caso sorse il solito sospetto che più che la qualità
del prodotto avesse contato il tema dell’olocausto (tanto per
cambiare) ... uno dei contendenti era un certo “Hero” di un “tale”
Yimou Zhang, uno che senza dubbio dirige rasentando la perfezione,
specialmente in confronto alla regia anonima e scadente di Caroline
Link!
57 “Cuba feliz” (Karim Dridi, Fra, 2000) film-documentario * con
Miguel Del Morales “El Gallo”, Pepín Vaillant, Zaida Reyte, Mirta
Gonzáles, Aníbal Ávila, Alberto Pablo, Armandito Machado, Mario
Sanchez Martinez, Gilberto Mendez, Alejandro Almenares, Paisan
Mallet, Eulises Sanchez, Carlo Boromeo Planchez, Cándido Fabré *
IMDb 6,5 RT 63% * Nomination a Cannes 2000
“El Gallo” (all’anagrafe Miguel Del
Morales) è un cantautore e chitarrista itinerante cubano, 76 anni
all’epoca di questo documentario, conosciuto anche come “memoria
vivente del bolero cubano”.
Il regista francese Karim Dridi lo
segue con la sua piccola videocamera da La Habana a Trinidad, da
Guantanamo a Santiago de Cuba e di nuovo a La Habana nei suoi
incontri con vecchi amici, giovani rapper, colleghi e ammiratori,
mentre canta per strada, in case private o anche nel treno.
Sia ben chiaro, non è assolutamente
comparabile con il più conosciuto e professionale “Buena Vista
Social Club” di Wim Wenders (1999), ma i suoi meriti consistono
proprio nella sua maggiore spontaneità ed è un “documentario” per
modo di dire in quanto non c’è alcun commento aggiunto.
Per “Cuba feliz”, invece del solito
poster e qualche foto, vi propongo un estratto con una particolare
interpretazione della famosa “Lagrimas negras”, intervallata da
strofe estemporanee e duetti di presa in giro fra Zaida Reyte
sull’uscio di casa e i quattro musicisti (El Gallo è il chitarrista
con il cappello e gli occhiali scuri) in strada.
Questo è il link al film completo
https://www.youtube.com/watch?v=uKD748D7_mw
56 “Paris when it sizzles” (Richard Quine, USA, 1964) tit. it.
“Insieme a Parigi” * con William Holden, Audrey Hepburn, Grégoire
Aslan * IMDb 6,4 RT 57%
Dopo Boudou di Renoir, ho scelto
un'altra commedia ambientata a Parigi, stavolta americana e di oltre
30 anni più recente e sono d'accordo con chi dice che si tratta di
un film sottovalutato. Specialmente chi, come me, ama il cinema
apprezza la presa in giro di quell’ambiente e dei suoi personaggi,
dai produttori, agli sceneggiatori e agli attori, star o comparse
che siano, per non parlare dei modi di narrare e di unire le scene a
cominciare dalle dissolvenze che tornano in gioco ricorrentemente.
Si tratta di due o tre film in uno
... la trama ufficiale segue uno sceneggiatore che, dopo aver
bighellonato per vari mesi, deve ora scrivere una sceneggiatura di
un film (del quale esiste solo il titolo) in 48 ore, assistito dalla
dattilografa Gaby (Audrey Hepburn) all'uopo assunta e appassionata
di cinema. Confrontandosi, cambieranno i personaggi e gli
avvenimenti molte volte e (nel film) interpretano di volta in volta
i diversi protagonisti nelle varie ipotetiche scene con una miriade
di colpi di scena.
L'interpretazione di William Holden,
che si rivelandosi un ottimo commediante, supera nettamente quella
della Hepburn e al loro fianco appaiono vari special guestcon Toni
Curtis primo fra tutti in un ruolo di attore frustrato per avere
sempre ruoli secondari, ma ci sono i camei di Marlene Dietrich e Mel
Ferrer (all’epoca marito della Hepburn).
Merita senz’altro una visione in
quanto non ha niente da invidiare a tante altre eleganti commedie
dell’epoca.
55 “Boudu sauvé des eaux” (Jean Renoir, Fra, 1932) tit. it.
“Boudou salvato dalle acque” * con Michel Simon, Marcelle Hainia,
Sévérine Lerczinska * IMDb 7,5 RT 100%
In biblioteca ho trovato questa
quasi rarità, uno dei primi film sonori di Renoir (il quarto) che
precede di vari anni i suoi più famosi lavori francesi quali “La
grande illusione” (1937) e “La Bête humaine” (1938, L'angelo del
male), entrambe con Jean Gabin come protagonista, prima di andare
oltreoceano.
Ho notato il dvd in quanto sulla
custodia si sottolineava che si trattava dell’edizione restaurata
(anche in questa c’è la mano dell’ottima “Immagine Ritrovata” di
Bologna) ed in effetti la “pellicola” appare quasi perfetta.
Il soggetto è tratto dall’omonima
commedia in 4 atti (1919) di René Fauchois, successivamente
ri-adattata da Paul Mazursky per “Down and out in Beverly Hills” (
1986, Su e giù per Beverly Hills, con Nick Nolte e Richard Dreyfuss)
e di nuovo in Francia con “Boudou” (2004, con Gérard Depardieu).
Con “Boudou salvato dalle acque”
Renoir si cimenta in una commedia leggera nella quale un vagabondo
interpretato da un giovane Michel Simon viene ripescato dalla Senna
da un libraio che lo accoglie in casa sua, non prevedendo lo
scompiglio che causerà nella sua esistenza borghese. Pur trattandosi
di una commedia, traspare in modo evidente la qualità della regia e
già si possono apprezzare le scelte delle inquadrature e i movimenti
di macchina che daranno poi fama al regista francese.
54 “Zivot je cudo” (Emir Kusturica, Ser, 2004) tit. it.
“La vita è un miracolo” * con Slavko Stimac, Natasa Tapuskovic,
Vesna Trivalic * IMDb 7,7 RT 60%
Uno dei pochi Kusturica non ancora
visto, dei suoi film a soggetto ora mi manca solo “On the Milky Road
- Sulla Via Lattea” che tuttavia non mi attira più di tanto, non lo
vedo appetibile e la presenza dell’incapace Monica Bellucci funge da
deterrente.
Del resto mi sembra che dopo “Gatto
nero, gatto bianco” (1998) con il passaggio al secolo corrente
Kusturica abbia perso un po’ della sua verve, non riesca più a
stupire come agli inizi (e questa è una situazione comune a tanti) e
spesso è ripetitivo. Per “La vita è un miracolo” direi che a tutto
ciò si aggiunge il fatto di aver prodotto un film di 2 ore e mezza
(molto stiracchiate) a metà fra due temi: la ferrovia e la guerra.
Con poco sforzo avrebbe potuto realizzare due film probabilmente
migliori.
Come suo solito, K. tratteggia tanti
personaggi un po’ sopra le righe e propone trovate divertenti, molte
con un po’ di humor nero (necessario per ridere della guerra) ma in
questo film sono gli animali quelli che giocano un ruolo importante
e sono molto ben gestiti. Cane, gatto e asino sono dei veri
protagonisti, ma anche oche, galline, aquila e cavallo fanno la loro
brava figura.
Senz’altro troppo lungo per ciò che
narra,ha dalla sua tante belle le riprese esterne (in particolare i
campi lunghi) e buone le musiche anche se non certo al livello di
quelle di Goran Bregovic.
53 “Zatôichi” (Takeshi Kitano, Jap, 2003) * con Takeshi Kitano,
Tadanobu Asano, Yui Natsukawa * IMDb 7,6 RT 91% * 4 premi a Venezia
+ Nomination Leone d'Oro
Il personaggio del massaggiatore
cieco, abilissimo con la spada, giocatore d’azzardo e difensore dei
deboli fu creato dallo scrittore giapponese Kan Shimozawa. Il
successo di Zatôichi fu tale che l’autore continuò a scrivere delle
sue imprese, che furono poi utilizzate come soggetti di quasi 30
film (questo di Kitano è il più recente di tutti), per non parlare
delle 100 puntate (in 4 annate) di un serial trasmesse dalla
televisione giapponese fra il 1974 e il 1979.
Dopo la pausa presasi con “Dolls”
(nel quale non compariva fra gli interpreti) Takeshi Kitano torna ad
essere protagonista-sceneggiatore-regista e mette insieme elementi
molto disparati, sempre con il suo tocco umoristico, per poi stupire
con l’assolutamente insolito finale quasi Bollywoodiano, con un
tocco di tiptap musical americano, che pone termine a una vicenda
ambientata nel Giappone della prima metà del ’800, segnata da
innumerevoli morti a fil di spada e duelli lampo fra ninja, samurai
e ronin con gran spargimento di sangue. Oltre al “gran finale”, sono
degne di nota anche altre due scene “anomale” a ritmo di musica:
quella dei contadini che zappano e quella della ricostruzione della
casa andata a fuoco.
Come scrissi ieri a proposito di “Dolls”,
quello fu l’ultimo film per il quale Kitano si affidò all’ottimo Joe
Hisaishi e con “Zatôichi” inizia la sua collaborazione con Keiichi
Suzuki (oltre a questo, altri 4 film insieme).
Pur essendo stato il maggior
successo di Kitano, e pur piacendomi, mi ha convinto meno degli
altri ... mi sono mancati i silenzi e le pause ...
52 “Dolls” (Takeshi Kitano, Jap, 2002) * con Miho Kanno, Hidetoshi
Nishijima, Tatsuya Mihashi * IMDb 7,7 RT 87% * Nomination Leone
d'Oro a Venezia 2002
Film molto diverso dai precedenti,
del quale Kitano è solo regista e sceneggiatore, ma non
protagonista, l’ultimo in assoluto con i commenti musicali di Joe
Hisaishi (peccato, mi piaceva tanto), il primo con poco sangue, in
cui la yakuza c’entra solo molto marginalmente. Tre storie di folle
amore eterno o amore e follia le cui strade si lambiscono, seppur
per pochi momenti e per eventi fortuiti.
Film estremamente “poetico” che mi
ha ricordato tanto Almodóvar per la quantità e varietà di rossi che
Kitano include nelle sue inquadrature.
Si apre e si chiude con i burattini
(dolls del titolo) del teatro Bunraku che, nel finale, replicano
l’andare dei due protagonisti, legati con una corda ... ovviamente
rossa.
Da non perdere, e sarà una gran
bella sorpresa se per voi finora valeva l’equivalenza (falsa)
Takeshi Kitano = violenza e sangue.
51 “Brother” (Takeshi Kitano, Jap, 2000) * con Takeshi Kitano,
Claude Maki, Omar Epps * IMDb 7,2 RT 48%
Fra “Sonatine” (del quale ho appena scritto) e “Brother” Kitano
realizzò altri 4 film fra i quali uno dei puoi più famosi “Hana-bi”
(1997, Fiori di fuoco), Leone d’Oro a Venezia. A quanto ne so,
dovrebbe essere l’unico film girato in “occidente”, ed esattamente a
Los Angeles, USA.
Ciò fornisce a Kitano (nei panni dello spietato Aniki Yamamoto,
opportunamente allontanatosi dal Giappone) l’occasione di scontrarsi
con tutti gli altri gruppi criminali locali, dai messicani ai
mafiosi italiani, portando al momentaneo successo il fratellastro
che lo ospita e la sua (inizialmente) scalcagnata banda.
In particolare in questo film, mette in mostra la sua abilità di
commediante, prendendo in giro un po’ tutti, con il volto sempre
impassibile, mosso solo da un tic.
Non fra i migliori di Kitano, tuttavia divertente, con ottimi
momenti di humor nero, movimentato, ben costruito e con tante buone
caratterizzazioni di personaggi non orientali. |