POST CINEMATOGRAFICI

indice completo dei  1300 film 2016 - 2018

lista film (pdf)  2015   2014   2012-13

2016

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2017

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201 - 259

260 - 299

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400 - 443

2018

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2019

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2020

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2021

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2022

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micro-recensioni dei film del 2018   (dal 100° al 51°) 


leggi tutte le 50 micro-recensioni (in basso, dopo i poster)

registi vari, Fra, 2006

Paul Schrader, USA, 1997

Jaques Rivette, USA, 2009

Régis Wargnier, Fra, 1992

Tim Burton, USA, 2003

Tony Richardson, UK, 1961

Frank Capra, USA, 1938

Armando Iannucci, USA, 2017

David Fincher, USA, 2007

David Lynch, USA, 1984

Hiroshi Teshigahara, Jap, 1964

Shôhei Imamura, Jap, 1989

Shôhei Imamura, Jap, 1966

Walter Forde, UK, 1941

Walter Forde, UK, 1939

Walter Forde, UK, 1939

Yoshishige Yoshida, Jap, 1969

Yoshishige Yoshida, Jap, 1965

Edward D. Wood Jr., USA, 1959

Edward D. Wood Jr., USA, 1959

Paul T. Anderson, USA, 2017

Greta Gerwig, USA, 2017

Craig Gillespie, USA, 2017

Ridley Scott, USA, 2017

Edward D. Wood Jr., USA, 1955

Edward D. Wood Jr., USA, 1954

Montxo Armendáriz, Spa, 1997

Mike Leigh, UK, 1996

Richard Attenborough, UK, 1993

S. Frears - M. Pasetta, USA, 2000

Ingmar Bergman, Sve, 1982

Ingmar Bergman, Sve, 1980

Ingmar Bergman, Sve, 1969

Ingmar Bergman, Sve, 1960

Isabel Coixet, UK, 2017

Guillermo Del Toro, USA, 2017

Ingmar Bergman, Sve, 1963

Ingmar Bergman, Sve, 1963

Ingmar Bergman, Sve, 1961

Jean-François Pouliot, Can, 2003

Pedro Almodóvar, Spa, 1995

James Ivory, USA, 1990

Caroline Link, Ger, 2001

Karim Dridi, Fra, 2000

Richard Quine, USA, 1964

Jean Renoir, Fra, 1932

Emir Kusturica, Ser, 2004

Takeshi Kitano, Jap, 2003

Takeshi Kitano, Jap, 2002

Takeshi Kitano, Jap, 2000

100 “Paris, je t'aime” (oltre 20 registi, Fra, 2006) * con un cast molto ricco ed eterogeneo (vedi sotto)  *  IMDb 7,3 RT 87%
Film collettivo, praticamente una serie di 18 short firmati da ancor più registi (vari episodi ne hanno due), aventi come filo conduttore non solo diversi quartieri di Parigi, ma soprattutto i rapporti di coppia o la ricerca dell’anima gemella o quanto meno affine.
La lunga lista di registi che hanno partecipato a questo inusuale progetto, molti dei quali sono anche sceneggiatori dei propri corti, include plurivincitori di Oscar come Ethan & Joel Coen, Alfonso Cuarón e Alexander Payne, oltre a tanti altri che vantano Nomination e successi internazionali come Gus Van Sant, Wes Craven, Isabel Coixet, il giapponese Nobuhiro Suwa, la kenyota Gurinder Chadha, l’italo-americano Vincenzo Natali.
Il cast è ovviamente ancor più corposo e anche in questo caso si trovano interpreti di tutte le età e di qualunque provenienza, anche se alcuni appaiono solo per un paio di battute. Giusto per fornire un’idea ecco alcuni nomi: Ben Gazzara, Gena Rowlands, Emily Mortimer, Willem Dafoe, Steve Buscemi, Natalie Portman, Bob Hoskins, Elijah Wood, Javier Cámara, Fanny Ardant, Juliette Binoche, Nick Nolte, Marianne Faithful, Sergio Castellitto, Gérard Depardieu, Maggie Gyllenhaal, Olga Kurylenko ...
Non c’è da meravigliarsi se fra una tale varietà di stili e di storie ci siano short ottimi ed altri banali, alcuni ben interpretati e diretti, altri sembrano filmini messi insieme alla buona.
Interessante divertissement, presentato al Festival di Cannes 2006, non sembra sia stato distribuito in Italia.
Per la cronaca, l’idea originale prevedeva di girare film simili in altre città del mondo come New York e Tokio. In effetti il primo “remake” (“New York, I love you”, previsto per il 2007) uscì solo nel 2009 mentre il progetto da ambientare a Tokio nel 2008, fu trasferito a Rio de Janeiro e arrivò nelle sale nel 2014 (“Rio, eu te amo2).

 

99 “Affliction” (Paul Schrader, USA, 1997) * con Nick Nolte, James Coburn, Sissy Spacek, Willem Dafoe
IMDb 7,0 RT 88% Oscar James Coburn non protagonista, Nomination Nick Nolte protagonista
Dal poco che avevo letto in merito a questo film (mai sentito nominare prima di imbattermi nel dvd) mi aspettavo francamente di più, anche per l'Oscar a James Coburn e la Nomination a Nick Nolte (ma in merito a questa ero già sospettoso). Certamente non il miglior film di Paul Schrader, che conferma di aver perso la sua buona verve di sceneggiatore (esclusivamente sua quella di "Taxi Driver" e collaborò anche a "Raging Bull") ma nel complesso si difende ancora dignitosamente come regista, poco convincente questo suo adattamento del romanzo di Russel Banks.
Su tale soggetto, per niente pessimo, viene imbastita una trama poco convincente con storie secondarie senz'altro evitabili. Per esempio, i primi 15 minuti potevano essere ridotti a 3 o anche tagliati del tutto. Buona l’ambientazione quasi claustrofobica in una piccola cittadina del New Hampshire (USA), dove tutti si conoscono ma i rapporti sono come sempre più o meno tesi (per i più disparati motivi), e si va avanti fra invidie, maldicenze, sospetti e tentativi di rivincita. Apprezzabile anche la scelta di girare in pieno inverno con la maggior parte degli esterni dominati dalla neve.
Bravo Coburn (già quasi 70enne) in un ruolo per lui quasi usuale e congeniale di uomo rude, padre dispotico, dedito all’alcool e violento; appare in poche scene ma in modo tanto convincente da ottenere l’Oscar (l’unico della sua carriera) come miglior attore non protagonista. Si difende bene anche Sissy Spacek nella sua strimizita parte, meno bene Nick Nolte che tuttavia ottenne la Nomination Oscar (quell’anno vinse Benigni).

 

98 “36 vues du Pic Saint Loup” (Jacques Rivette, Fra, 2009) tit. it “Questione di punti di vista” * con Jane Birkin, Sergio Castellitto, André Marcon
IMDb 6,2 RT 74% Nomination Leone d’Oro a Venezia 2009
Ultimo film d Rivette (all’epoca 81enne) ma mi sorge il (maligno) dubbio che vi abbia messo poco più che il nome e la sua mano si intravede solo nelle riprese.
Quattro sceneggiatori (fra i quali anche Rivette e Castellitto) e un autore di dialoghi mi sembrano eccessivi per un film di neanche un'ora e mezza, durante la quale si parla poco e succede quasi niente.
Essere in troppi a decidere o dirigere di solito porta a risultati scadenti, in qualunque campo, e anche in questo caso è così. Poche trovate e poche frasi degne di merito non salvano un film pieno di loop e scene ripetitive in particolare quelle nel minuscolo e desolato circo itinerante.
Mi piace ricordare il Rivette pilastro della Nouvelle Vague e regista di capolavori come “La belle noiseuse”, questa sua chiusura di carriera sembra più che altro un breve esercizio, peraltro non tanto ben riuscito.

 

97 “Indochine” (Régis Wargnier, Fra, 1992) tit. it “Indocina” * con Catherine Deneuve, Vincent Perez, Linh Dan Pham
IMDb 7,1 RT 71% *  IMDb 8,0 RT 79% * Nomination Oscar per la musica
Oscar come miglior film non in lingua inglese; Nomination per Catherine Deneuve protagonista
Per questa scelta mi avevano attirato ambientazione geografica ed epoca (fra le due guerre mondiali), nonché l’Oscar vinto.
Al contrario del film precedente (Big Fish) in “Indochine” le interpretazioni femminili, seppur non eccezionali, sono più che decenti (Catherine Deneuve comunque ottenne la Nomination e buon esordio di Linh Dan Pham), mentre quelle maschili sono veramente di scarsissimo livello. In particolare Vincent Perez, quasi protagonista, a me del tutto sconosciuto, ha lo stesso sguardo imbambolato durante l’intero film, in qualunque situazione si trovi.
Visivamente bello tutto il girato in Vietnam e Malesia, fra piantagioni di caucciù, magioni coloniali e le famose baie caratterizzate da pareti rocciose pressoché verticali e da tanti isolotti-pinnacoli simili a possenti e inaccessibili torri; interessante lo spaccato storico del declino del colonialismo francese nel sud-est asiatico.
La sceneggiatura zoppica (e non poco) e soprattutto manca della giusta continuità, sia narrativa che temporale.
Non vedo tutti quei meriti che dovrebbero giustificare un meritato l'Oscar.

 

96 “Big Fish” (Tim Burton, USA, 2003) tit. it “Le storie di una vita incredibile” * con Ewan McGregor, Albert Finney, Billy Crudup, Marion Cotillard, Jessica Lange
In linea di massima i film di Tim Burton mi piacciono, ma devo dire che questo (generalmente abbastanza discusso) l'ho gradito più degli altri.
Ho trovato pressoché perfetta la miscela fra fantasia, ricordi, creatività, sfacciate bugie, istrionismo... e i tanti inevitabili flashback (che di solito non amo) sono inseriti al punto giusto e senza eccessive lungaggini. L’essenza dei vari cambiamenti e interpretazioni delle storie narrate da Ed Bloom (Albert Finney) e dei diversi valori e ruoli dei vari personaggi mi ha addirittura fatto tornare in mente “Rashomon” (1950, Akira Kurosawa).
Particolarmente bravo Albert Finney (ma non è una sorpresa), nell’occasione affiancato da Ewan McGregor e Billy Crudup che mi sono sembrati migliori che in tante altre occasioni. Al contrario, le pur famose interpreti femminili non riescono a finalizzare prestazioni decenti ... quella che meglio si difende è Marion Cotillard (più che altro limitandosi a sorridere), mentre Jessica Lange e l'insopportabile Helena Bonham Carter sono improponibili, come quasi sempre.
Più che piacevole per le narrazioni di storie fantastiche e per i tanti sorprendenti personaggi, quello meno riuscito è il gigante.
Pur guardato con mente aperta e buona disposizione verso la fantasia, “Big Fish” riesce anche a far riflettere su vari argomenti più che seri (famiglia, morte, rapporto genitori/figli, ..), altrimenti offre comunque 2 ore di buono svago.
Consigliato.

 

95 “A Taste of Honey” (Tony Richardson, UK, 1961) tit. it “Sapore di miele” * con Rita Tushingham, Dora Bryan, Robert Stephens, Murray Melvin  *  IMDb 7,6 RT 88%
Film rappresentativo della poco conosciuta New Wave inglese, quasi un cult fra i cinefili figli di Albione. Avvalendosi di un'ottima fotografia in bianco e nero il regista-sceneggiatore Tony Richardson (soprattutto noto per il suo “Tom Jones”, 1963, 2 Oscar per miglior film e regia) espone la storia di una ragazza, non ancora maggiorenne, di padre sconosciuto, con una madre egoista che la trascura e la abbandona, che resta incinta di un marinaio di colore e finisce per andare a convivere con un gay. Se a qualcuno non sembrasse abbastanza, aggiungete che nel '61, essere omosessuali era reato e che figli mulatti non erano all'ordine del giorno.
Ottimi i 4 protagonisti: l'esordiente Rita Tushingham (Golden Globe come miglior promessa), Dora Bryan (ben nota attrice tearale inglese), il quasi esordiente sul grande schermo Robert Stephens (proveniente dal teatro di qualità e nel 1995 nominato Sir per i suoi meriti artistici) e Murray Melvin (anche lui a inizio carriera, premiato a Cannes come miglior attore e BAFTA come miglior promessa).
Questa quasi perfezione è intaccata dalla scarsa plausibilità della trama e dei singoli eventi che, tuttavia, è di secondaria importanza rispetto al film nel suo complesso e ai singoli temi trattati (come detto quasi tabù per l’epoca).
Vale senz’altro la pena recuperarlo.
 

94 “You can't take it with you” (Frank Capra, USA, 1938) tit. it “L'eterna illusione” * con Jean Arthur, James Stewart, Lionel Barrymore, Spring Byington  *  IMDb 8,0 RT 91%  * 2 Oscar (miglior film e regia) e altre 5 Nomination (Spring Byington non protagonista, sceneggiatura, fotografia, montaggio, sonoro)  *  La versione teatrale (precedente, dalla quale è tratta la sceneggiatura) aveva vinto il Premio Pulitzer nel 1937.
Dopo la "boiata" di "The Death of Stalin" ho voluto compensare quella perdita di tempo con una classica commedia americana degli anni '30 della quale non avevo mai sentito parlare, nonostante i 2 Oscar + 5 Nomination e i nomi di tre pietre miliari di Hollywood: Frank Capra, James Stewart e Lionel Barrymore.
Commedia dei buoni sentimenti, con le solite contrapposizioni fra personaggi semplici , sinceri e sognatori e quelli avidi, boriosi e prepotenti; in mezzo c'è la storia d'amore. La particolarità di questo film consiste nella grande varietà di personaggi a dir poco eccentrici, quasi tutti facenti parte o almeno connessi con l'ampia famiglia Sycamore ( i “poveri ma felici”).
Soprattutto in quest’ambiente succede quasi di tutto, in quanto nella casa più o meno convivono un’aspirante drammaturga e pittrice, fabbricanti d fuochi artificiali, creatori di maschere, un tipografo/suoantore di xilofono, una coppia di colore tuttofare, un’aspirante ballerina e il suo maestro di danza russo, ovviamente interpretato da Mischa Auer. Considerando anche l'arresto dell’intero gruppo (in cella per qualche ora) e poi il giudizio in tribunale, capirete bene che le due ore passano velocemente e piacevolmente, a parte qualche inevitabile rallentamento.
Non solo i protagonisti principali, ma l’intero cast offre perfette interpretazioni fra le quali spicca quella di Harry Davenport nei pani del giudice.
 

93 “The Death of Stalin” (Armando Iannucci, UK-Fra-Bel, 2017) tit. it “La morte di Stalin” * con Steve Buscemi, Simon Russell Beale, Jeffrey Tambor, Michael Palin  *  IMDb 7,5 RT 97%
Non capisco tutto l’entusiasmo per questa “commedia storica” (esiste?) che riesce a non essere né carne né pesce. Non mi è sembrata particolarmente divertente ponendo in ridicolo personaggi storici, per quanto discutibili possano essere stati, né abbastanza critica nello specifico in quanto penso che in qualunque “regime” siano successe e succedano cose simili. Trovo che sia solo una feroce presa in giro di alcuni protagonisti di una serie di eventi in un particolare momento della storia russa e, più in generale, dei russi e per questo ha avuto successo in “occidente” mentre è stato addirittura bandito in Russia.
I personaggi sono eccessivamente caricaturali e Iannucci mette in risalto le loro debolezze, vizi e follie, dimenticandosi di tutto il resto. Alcuni, come per esempio Malenkov (interpretato da Jeffrey Tambor) viene proposto come un vero demente ...
Il cast eterogeneo (inglese - americano - russo - ...) di buon livello, probabilmente solo Michael Palin (ex Monty Python) si è trovato a suo agio pur essendo meno ridicolo del solito. Per pura curiosità sono andato a dare uno sguardo ai veri volti dei protagonisti dell’immediato “dopo-Stalin” e nessuno nel film somiglia al suo vero personaggio. Altro che Gary Oldman / Winston Churchill!
E per fortuna l’ho visto in edizione originale ... posso solo immaginare (con terrore) i disastri delle traduzioni e dei doppiaggi.
Assolutamente sopravvalutato!
 

92 “Zodiac” (David Fincher, USA, 2007) * con Jake Gyllenhaal, Robert Downey Jr., Mark Ruffalo  *  IMDb 7,7 RT 90% * Nomination Palma d’Oro a Cannes
Thriller-poliziesco un po' fuori del normale, basato su una storia vera di un serial killer, anch'essa abbastanza inusuale per durare vari decenni. Oltre a scoprire ciò dopo aver visto il film (a fiducia visti i rating e il cast abbastanza decente), ho anche letto dell'enorme (forse eccessiva) pignoleria nel ricostruire le scene fino a replicare perfino gli abiti e ricostruire angoli di strade dove non era consentito effettuare riprese. Per questa mania di raccontare tutto, e nei dettagli, la sceneggiatura era troppo lunga e nonostante il regista David Fincher avesse cercato di non dilungarsi, addirittura richiedendo agli attori di parlare velocemente per accorciare i tempi, il film resta troppo lungo per ciò che racconta. Un altro handicap (almeno per me) è quello dei troppi nomi citati (riferiti a personaggi visti o non visti) a proposito dei vari omicidi precedenti fra sospettati, vittime, investigatori, giornalisti tirati più volte in ballo e quindi e bisogna essere pronti ad abbinarli ad un volto e ricordare quale ruolo hanno nella storia, almeno fino a quel momento.
Robert Downey si difende, Mark Ruffalo ha fatto di meglio, i comprimari mi sono sembrati migliori di loro, mentre continuo a trovare pessimo Jake Gyllenhaal ...
Guardabile seppur un po’ stancante, storia interessante se si riesce a seguirla con tutti i suoi intrecci.

 

91 “Dune” (David Lynch, USA, 1984) * con Kyle MacLachlan, Virginia Madsen, Francesca Annis  *  IMDb 6,6 RT 56% * Nomination Oscar per il miglior sonoro
Per associazione di idee (titolo) da un cult giapponese passo a un cult di Lynch, quest'ultimo con molti sostenitori, ma altrettanti detrattori. Si tratta del suo terzo lungometraggio, dopo “Eraserhead” (1977) e “The Elephant Man” (1980), di genere molto diverso ma il tema sci-fi consente al regista di continuare a proporre personaggi “diversi”.
Non sono un esperto del genere e quindi non azzardo paragoni con altri film cult fantascientifici della seconda metà del secolo scorso. Mi sono piaciute la regia, le riprese, la fotografia e ho apprezzato anche il molto eterogeneo cast che tuttavia ha la sua pecca proprio nell’interprete principale (Kyle MacLachlan) nei panni di Paul Atreides - Usul - Muad'Dib. Un po’ difficile per i non “addetti ai lavori” seguire le vicende che certo non si sviluppano con le normali leggi spazio-temporali ... ma questa è la fantascienza.
Essendo rimasto colpito dai tanti nomi e termini di sapore arabeggiante ho eseguito una brevissima ricerca e ho avuto conferma delle mie impressioni in questo interessantissimo articolo di Khalid Baheyeldin che suggerisco di leggere.
L’autore affronta il tema soprattutto sotto il punto di vista etimologico e mette in risalto non solo i tantissimi legami con la cultura islamica, ma ne evidenzia anche altri ebrei, greci e slavi.
Da inesperto e non appassionato di sci-fi, penso che “Dune” meriti comunque una attenta visione, in particolare se si apprezza lo stile di Lynch il quale, tuttavia, ha prodotto di meglio.
“Dune” è la trasposizione cinematografica del primo (1965) dei 6 libri della saga omonima, scritta dal pluripremiato Frank Herbert. Lo stesso Lucas confessò di essere stato influenza da questa serie di romanzi quando iniziò la sua saga di “Star Wars” (1977)

 

90 “Woman in the Dunes” (Hiroshi Teshigahara, Jap, 1964) tit. or. “Suna no onna”, tit. it “La donna di sabbia” * con Eiji Okada, Kyôko Kishida, Hiroko Itô * IMDb 8,5 RT 100%
Dopo i due film di Yoshishige Yoshida e i due di Shôhei Imamura concludo la mia ennesima incursione nel cinema giapponese classico e di livello con questo “Woman in the Dunes” (aka “Woman of the Dunes”, traduzione più corretta) che ottenne 2 Nomination Oscar (miglior film non in lingua inglese nel 1965 e regia nel 1966) oltre al Premio Speciale della giuria a Cannes e Nomination alla Palma d’Oro.
Non solo a causa di questi importanti riconoscimenti (inusuali per un regista non proprio famoso) ma soprattutto per la qualità tecnica, nonché per il tema e l’ambientazione assolutamente inusuali, il film è immediatamente divenuto un cult movie (notare i rating di 8,5 su IMDb e 100% su Rotten Tomatoes, 27 rececensioni positive su 27).
La regia e la fotografia (b/n, con molte riprese macro - guardate le foto) sono senza dubbio di ottimo livello, anche le interpretazioni dei due protagonisti assoluti (l’intero cast, inclusi ruoli secondari, conta meno di una decina di attori) sono convincenti, la poca musica (molto particolare) si adatta perfettamente alla situazione, il soggetto è affascinante e molto simbolico, ma la sceneggiatura, secondo me, lascia molto a desiderare. Le circa 2 ore e mezza del film si svolgono fra dune sabbiose vicine al mare e per lo più in un vasto sprofondamento dalle pareti ripide e troppo friabili per poter essere scalate, nel quale un entomologo si trova intrappolato insieme con una donna che, incredibilmente, vive lì.
Pur volendo interpretare il tutto come una metafora dei rapporti umani e della vita in genere, le carenze sono molte e spesso manca anche quel minimo di logica che avrebbe potuto far riflettere di più.
A chi fosse interessato al cinema giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa interessante lista creata su mubi.com

 

88 “Erogotoshi-tachi yori: Jinruigaku nyûmon” (Shôhei Imamura, Jap, 1966) tit. int. “The Pornographers”, tit. it “Introduzione all'antropologia” * con Shôichi Ozawa, Sumiko Sakamoto, Ganjirô Nakamura * IMDb 7,5 RT 100%
89 “Kuroi Ame” (Shôhei Imamura, Jap, 1989) tit. int. “Black Rain” (- Pioggia nera)* con Yoshiko Tanaka, Kazuo Kitamura, Etsuko Ichihara * IMDb 8,0 RT 85%
Due film di Shôhei Imamura, il quale cominciò la sua carriera come assistente di Ozu e negli anni ’60 passò alla New Wave giapponese.
“The Pornographers” descrive la vita quotidiana di un piccolo produttore-regista di pellicole pornografiche a bassissimo costo e del suo piccolo entourage, dei suoi rapporti con una vedova che crede che il defunto marito si sia reincarnato in una carpa e con la figliastra, nonché con i suoi vari strani clienti ed un gruppo di piccoli criminale che lo taglieggiano. Mostra, con un certo senso umoristico, un Giappone diverso da quello di solito rappresentato nei film dell’epoca. In più momenti ricorda lo stile di Yoshishige Yoshida ma certo non è al suo livello.
Al contrario, “Black rain” (basato sull’omonimo romanzo di Masuji Ibuse) è un film decisamente drammatico e affronta il tema delle conseguenze del bombardamento di Hiroshima, con sintomi (e decessi) che appaiono anche dopo vari anni dal rilascio dell’atomica e dei particolari rapporti che si instaurarono fra i contaminati e le altre persone. Il film ottenne due premi speciali a Cannes 1989 dove fu anche candidato alla Palma d’Oro e si distingue dalla maggior parte dei precedenti lavori di Imamura, per lo più tendenti alla dark comedy e ambientati in situazioni molto diverse da quelle medio borghesi del suo maestro Ozu.
Si deve anche sottolineare che Imamura girò anche un diverso finale (più che altro un proseguimento della storia), con una lunga parte di 19 minuti e a colori, in contrasto con il bianco e nero del film, ambientata quindici anni dopo la fine delle vicende proposte nella versione ufficiale (1945-1950). Questa parte è disponibile fra gli extra del dvd, ma è opinione comune dei critici, del regista e dei suoi collaboratori che non avrebbe aggiunto niente alla pellicola, che è perfetta così come è e come viene normalmente proiettata.
Entrambe sono una visione quasi indispensabile per avere un’idea del buon cinema giapponese al di là dei prodotti più noti, ma non per questo sempre migliori.
Le quattro foto dopo i poster si riferiscono a "Black Rain", le altre 3 a "The Pornographers".
A chi fosse interessato al cinema giapponese classico degli anni ’60 segnalo (di nuovo) questa interessante lista creata su mubi.com

 

85 “Inspector Hornleigh” (Walter Forde, UK, 1939)  *  con Gordon Harker, Alastair Sim, Miki Hood * IMDb 7,0
86 “Inspector Hornleigh on Holiday” (Walter Forde, UK, 1939)   * con Gordon Harker, Alastair Sim, Linden Travers * IMDb 7,1
87 “Inspector Hornleigh Goes To It” (Walter Forde, UK, 1941) aka “Mail train”  * con Gordon Harker, Alastair Sim, Phyllis Calvert * IMDb 7,0
L’ispettore Hornleigh di Scotland Yard fu creato da Hans Priwin come personaggio di una serie di detective stories radiofoniche che negli anni ‘30 ebbe grande successo nelle trasmissioni settimanali della BBC, interpretato dall’attore S. J. Warmington. Di conseguenza, dovendo essere per lo più parlato, si basava molto sulle indagini che l’ispettore conduceva interrogando un certo numero di persone e quindi gli ascoltatori “partecipavano” alla ricerca del colpevole che veniva smascherato solo all’ultimo momento, ma con deduzioni logiche alla quale i più attenti e arguti potevano egualmente arrivare.
A seguito di questo successo, nel 1939 si intraprese la via del cinema cambiando però un poco il personaggio (interpretato da Gordon Harker) che passò ad essere della Metropolitan Police e per il grande schermo ora contava su un assistente scozzese un po’ pasticcione (il sergente Bingham interpretato da Alastair Sim) il quale contribuiva, e non poco, a dare un tocco di commedia alle indagini oltre che a intralciare - involontariamente - il lavoro dell’arguto ispettore. Più o meno fra i due c’era un rapporto intellettivo simile a quello fra Sherlock Holmes e il suo fido Dr. Watson, con il primo pensante e geniale, il secondo volenteroso, fedelissimo e incapace che tuttavia, seppur per puro caso, spesso contribuiva alla risoluzione di un caso.
Anche la versione cinematografica ottenne un’ottima accoglienza, ma fu limitata a questi tre per il rifiuto di Alastair Sim di continuare ad interpretare Bingham in quanto aveva altre aspirazioni e non voleva restare incollato al personaggio, venendo identificato con esso.
Le tre storie si rivelano essere una ben bilanciata miscela di commedia e detective story seria, sempre con molti possibili sospetti e con cospirazioni vere e proprie e non un singolo colpevole. Oltre a ciò, e pur essendo film datati, la visione risulta più che piacevole anche per essere ben realizzati, per avere due ottimi attori perfettamente calati nelle rispettive parti (Sim era veramente scozzese e marcava il suo accento che contrastava con il cockney dell’ispettore) e per non essere mai banali o di cattivo gusto.

 

84 “Eros + Massacre” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1969) tit. or. “Erosu purasu gyakusatsu” * con Mariko Okada, Toshiyuki Hosokawa, Yûko Kusunoki  *  IMDb 8,1
Non penso di esagerare affermando che le 3h35’ di questo lavoro di Yoshida sono una continua celebrazione del linguaggio filmico, in particolare per ciò che riguarda la minuziosa scelta delle inquadrature.
Rimangono impressi i tanti diversi effetti delle composizioni per niente convenzionali del regista a cominciare dalla gran varietà di elementi con i quali seziona lo schermo non solo secondo semplici assi, ma anche creando finestre con altre linee che dividono lo schermo, in modo anche irregolare, che diventano piccoli schermi inseriti nel principale. Ma colpiscono anche i campi lunghi con grandangolo e con elementi che si ripetono, le riprese verticali dall’alto, con soggetto rovesciato o in rotazione, primi piani ripresi dal basso che si vanno ad incastonare in una cornice fittizia, i soggetti posizionati molto lateralmente, nell’ultimo quarto o quinto dell’inquadratura, fattore che viene esaltato dal rapporto 2,35:1 e diventa specialmente efficace nel caso siano due, ai limiti opposti dello schermo, le frequenti scene sovrapposte, i campi lunghi con i soggetti quasi in miniatura che si muovo lungo il limite superiore o inferiore dell’inquadratura ... tagliati a metà, campi medi con pochissima profondità di campo che vanno dall’effetto bokeh alla semplice riduzione dell’area a fuoco mediante un elemento più grande sfuocato ed in primo piano, e tante altre creazioni estremamente interessanti.
A tutto ciò aggiungete il discorso filosofico-rivoluzionario evidenziato dai dialoghi fra i protagonisti delle due storie che si sviluppano a mezzo secolo di distanza, con i due giovani studenti che alla fine degli anni ’60 “scoprono” le idee dell’anarchico militante giapponese Sakae Osugi (anche sostenitore dell’amore libero) che è protagonista delle scene ambientate nel 1916 con le sue tre compagne: sua moglie Yasuko Hori, la militante femminista Itsuko Masaoka e la sua ultima amante Noe Itō, anarchica e femminista, successivamente assassinata insieme a lui dalla polizia militare nel 1923.
Yoshishige Yoshida (aka Kiju Yoshida) inizialmente fu pilastro della cosiddetta New Wave giapponese, insieme con Nagisa Oshima and Masahiro Shinoda, ma ben presto se ne allontanò per avere maggior libertà e produsse in proprio i suoi migliori film fra i quali “Eros + Massacre”, da molti reputato il suo migliore in assoluto. Fu attivo soprattutto negli anni ’60 e all’inizio del decennio successivo, per poi dirigere soli altri tre film, nell’86, ’88 e 2002. “Eros + Massacre” è il primo film della trilogia di Yoshida sul radicalismo politico, seguito da Heroic Purgatory (1970, sul comunismo) e Coup d'Etat (1973, sul nazionalismo e l’estrema destra).
Film da non perdere! In particolare gli amanti del vero cinema non possono fare a meno di guardarlo ... anche se a pezzi data la durata.

 

83 “A Story Written with Water” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1965) tit. or. “Mizu de kakareta monogatari” * con Mariko Okada, Ruriko Asaoka, Yasunori Irikawa, Isao Yamagata  *  IMDb 7,4
Come anticipato, dopo aver visto film sopravvalutati candidati agli Oscar e Z-movie cult (di Ed Wood) torno al cinema “serio” con un paio di film di Yoshishige Yoshida (aka Kiju Yoshida). Procedendo in ordine cronologico, ho cominciato con questo doppio dramma familiare, con quattro personaggi legati fra loro a più livelli ... e ce ne potrebbe essere ancora un altro. In questo caso i tanti flashback (che di solito non amo) sono inseriti alla perfezione e sono significativi e ad essi si aggiungono varie scene oniriche e surreali, tutte descritte in un ottimo bianco e nero. Fra un matrimonio non perfetto e tanto complesso di Edipo, i protagonisti si incontrano e si scontrano fino alla conclusione che lascia allo spettatore parecchie possibilità di interpretazione.
Molto bravo il protagonista Yasunori Irikawa e le due prime donne che lo affiancano, Mariko Okada nel ruolo della madre e Ruriko Asaoka la moglie.
Yoshida fu un esponente principale della “new wave” giapponese, insieme con Nagisa Oshima e Masahiro Shinoda, e fu attivo soprattutto negli anni ’60 e inizio dei ’70, dopodiché ha diretto solo altri 3 film nell’86, ’88 e 2002. Nel 1964 sposò l’attrice Mariko Okada, protagonista di molti suoi film, e il matrimonio continua, dopo oltre 50 anni.
Film senz’altro apprezzabile e da guardare con attenzione in quanto è ben diverso dai classici e anche dai giapponesi moderni.
 

81 “Night of the Ghouls” (Edward D. Wood Jr., USA, 1959) tit. it. “La notte degli spettri” * con Kenne Duncan, Duke Moore, Tor Johnson  *  IMDb 3,6 RT 30%
82 “Plan 9 From Outer Space” (Edward D. Wood Jr., USA, 1959) * con Gregory Walcott, Tom Keene, Mona McKinnon, Tor Johnson  *  IMDb 4,0 RT 67%
Altri due film del regista-sceneggiatore-produttore #EdWood (noto per essere reputato il peggiore della storia del cinema) con i quali ho concluso il mio breve approfondimento della sua filmografia, in quanto reputo che cinque film siano più che sufficienti e considerato che negli anni ‘60 produsse per lo più exploitation movies, porno softcore e veri e propri film pornografici.
Dei cinque, “Night of the Ghouls” è il più insignificante, riuscendo solo ad essere banale e mal realizzato, senza neanche riuscire a divertire per la sua insulsaggine.
“Plan 9 From Outer Space” è invece il più noto dei relativamente numerosi film realizzati Edward D. Wood Jr. e in esso, al contrario di “Night of the Ghouls”, Ed Wood entusiasma i cinefili proponendo geniali scenografie con “minimalistimissime” ricostruzioni di ambienti come la cabina di pilotaggio dell'aereo (fantastiche le cloche) e l'interno dell'aeronave che, oltretutto, quando vola è a sezione circolare e a terra quadrata, inserendo vecchie riprese con Bela Lugosi (deceduto due anni prima) e facendo poi comparire il personaggio varie altre volte ma, essendo ovviamente interpretato da un diverso attore, sempre con il volto coperto dal mantello; come nei film precedenti è singolare che le vittime di aggressioni strillino ma non reagiscano mai, neanche un minimo istintivo movimento e notevoli sono anche le scene nelle quali tutti gli attori sono schierati e mentre dialogano hanno la stessa mobilità di stoccafissi surgelati. (date un’occhiata agli screenshot allegati!)
Molto originale anche l'intreccio della trama tra thriller, sci-fi e horror-zombie, con interpretazioni memorabili. Per esempio, l’inconfondibile Tor Johnson (ex wrestler) ha anche una parte non da zombie, ma se non fosse per il cambio di abbigliamento non si noterebbe ...
In conclusione, un vero cult movie da guardare e riguardare in quanto non si finisce mai di notare errori, apprezzare l’inespressività degli attori e la banalità delle battute, trovare lacune e incongruenze nella trama ...
In alcuni punti mi ha ricordato il demenziale “Be Kind Rewind” (2008) nel quale Jack Black, nottetempo, ri-girava qualunque blockbuster gli fosse stato richiesto dopo aver inavvertitamente cancellato tutti i nastri della videoteca in cui lavorava.
A proposito di questo film voglio citare questo ormai famoso stralcio di recensione:
“Epitome del cinema tanto-cattivo-da-essere-buono, “Plan 9 From Outer Space” è un involontariamente ridicolo sci-fi "thriller" dell’anti-genio Ed Wood, il quale è giustamente famoso per la sua straordinaria inettitudine”.

 

80 “Phantom Thread” (Paul Thomas Anderson, USA, 2017) tit. it. “Il filo nascosto” * con Vicky Krieps, Daniel Day-Lewis, Lesley Manville  *  IMDb 7,6 RT 96%  *  6 Nomination Oscar: Miglior film, regia, Daniel Day-Lewis protagonista, Lesley Manville non protagonista, commento musicale, costumi
Sono entrato in sala un po' timoroso dopo la grande delusione di “Lady Bird”, visto poco prima, e sapendo che l’ambiente nel quale si svolge “Phantom Thread” è quello dell’alta moda (non è che proprio mi affascini, anzi) e quindi tutte le mie speranze erano riposte in Daniel Day-Lewis.
In questa occasione il regista-sceneggiatore Anderson (autore delle sceneggiature di tutti i suoi soli 8 film in 20 anni) ha deciso di cimentarsi anche come direttore della fotografia, seppur uncredited. Cominciando da lui, mi è piaciuta abbastanza la regia (senza entusiasmarmi), molto poco la sceneggiatura, e in quanto alla fotografia più che apprezzabile per gli interni e i dettagli, deludente negli esterni.
Il pur sempre bravo Daniel Day-Lewis si ritrova ad interpretare un personaggio strano, apparentemente forte, ma assolutamente dominato dalle donne che gli sono (e sono state) accanto, che riescono a gestirlo sottilmente. Forse per il tipo di personaggio in fondo molto remissivo, forse per essere giunto alla sua ultima interpretazione (ma perché ritirarsi a 60 anni? c’è qualcosa che non so?), forse per precise direttive del regista, mi sembra che non sia riuscito a fornire una prova incisiva come quelle indimenticabili di “There Will Be Blood” e “Lincoln”.
Brava Lesley Manville nel ruolo della sorella del famoso sarto, senza infamia e senza lode la “prima donna” Vicky Krieps, nel ruolo della indisponente e perfida Alma.
Certamente è un film ben costruito nel complesso ma, a quanto leggo, è per me generalmente sopravvalutato.

 

79 “Lady Bird” (Greta Gerwig, USA, 2017) * con Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Tracy Letts  *  IMDb 7,7 RT 99%  *  5 Nomination Oscar: Miglior film, regia, Saoirse Ronan protagonista, Laurie Metcalf non protagonista, sceneggiatura

Qualcuno sarebbe così gentile da spiegarmi i (presunti) meriti di "Lady Bird" per i quali ha ottenuto 5 Nomination “importanti”???
Sarà, come temevo, una concessione alle donne (Greta Gerwig è l’unica regista candidata) dopo quelle agli afroamericani dell’anno scorso?
Film senza né capo né coda, dialoghi di una pochezza inaudita (pur volendo considerare gli evidenti limiti dei protagonisti), Saorsie Ronan - che interpreta una diciassettenne - dimostra tutti i suoi anni (23) e forse anche qualcuno in più ... non c'erano alternative?, regia pietosa, montaggio scandaloso, c'è bisogno di aggiungere altro?
Dimenticavo, in una piccola parte c'è anche il tanto elogiato Timothée Chalamet (candidato Oscar come miglior attore protagonista per Call Me by Your Name) ... ma siamo sicuri del suo talento?
I film di Ed Wood visti nei giorni scorsi, almeno, facevano sorridere per l'incompetenza del regista-sceneggiatore che oltretutto doveva arrangiarsi come poteva con il suo striminzito budget ... leggo che "Lady Bird" è costato 10 milioni di dollari!
 

78 “I, Tonya” (Craig Gillespie, USA, 2017) tit. it. “Tonya” * con Margot Robbie, Allison Janney, Sebastian Stan *  IMDb 7,6 RT 90% * 3 Nomination Oscar: Margot Robbie protagonista, Allison Janney non protagonista, montaggio

“A dramedy that is neither a good drama nor a decent comedy.”
Ho ripreso il titolo di una recensione in quanto penso che esprima bene anche il mio punto di vista ma, non avendo letto tale critica, le mie perplessità e valutazioni potrebbero anche essere del tutto differenti
Pur coprendo una ventina d’anni della carriera di Tonya come pattinatrice, lo schema delle varie situazioni è troppo ripetitivo e prevedibile. Il contrasto fra ciò che viene mostrato e i commenti fatti nel corso delle “interviste” di vari anni dopo lascia troppi vuoti e pochi dati di fatto. Tonya viene quasi presentata come vittima assoluta ma, comunque siano andate effettivamente le cose (e non si sa con esattezza), ha tante responsabilità e la sua solita giustificazione (nel film) “Non è colpa mia” certamente non regge.
L’esposizione dei fatti sarà anche abbastanza vicina alla realtà (Dio prima li fa e poi li accoppia) ma un tale gruppo di folli irrazionali e gratuitamente violenti così come sono presentati è al limite della credibilità per un biopic. Penso che nella sceneggiatura si sia calcato un po’ troppo la mano su certi personaggi (un paio per tutti: Shawn e Shane) per strizzare l’occhio alla black comedy e ci siano troppe scene di violenza, di ogni tipo, per aumentarne la drammaticità, tuttavia non riuscendo a raggiungere alcun obbiettivo.
Da sportivo, ho apprezzato invece le recriminazioni (vere o creazioni dello sceneggiatore Steven Rogers?) di Tonya nei confronti dei giudici. Gli argomenti sollevati sono vere palle al piede, spesso aggravate dalla disonestà di alcuni arbitri, per sport nei quali si dà troppa importanza dei fattori estetici a discapito delle valutazioni strettamente tecniche e si sa che titoli e trofei (e soldi) sono spesso attribuiti per questioni di centesimi di punti e quindi ne conseguono infinite polemiche. E la spiegazione conclusiva del giudice in merito all’immagine mette altra carne a cuocere. Ho la sensazione che tali dialoghi siano stati scritti ed inseriti in modo abbastanza sottile e finalizzato.
Tornando al film, si fanno certo notare le due prime donne Margot Robbie e Allison Janney (entrambe candidate all’Oscar), ma le loro interpretazioni non mi sono sembrate certo strepitose, in particolare penso che la prima non abbia alcuna speranza di vincere la sua statuetta.
Le scene di pattinaggio non sono eccessivamente invadenti e certamente non predominanti, ma una buona ulteriore sforbiciata sarebbe stata opportuna.
Guardabile, ma non imperdibile.
 

77 “All the Money in the World” (Ridley Scott, USA, 2017) tit. it. “Tutti i soldi del mondo” * con Michelle Williams, Christopher Plummer, Mark Wahlberg *  IMDb 7,1 RT 77% (83% top critics)  *  Nomination Oscar per Christopher Plummer come miglior attore non protagonista
Questo film retto dalle due ottime interpretazioni di Christopher Plummer e Michelle Williams, la quale avrebbe meritato più considerazione per le Nomination agli Oscar, è segnato dal cambio di uno degli attori principali (Kevin Spacey, per i noti motivi) a riprese già molto avanzate. In meno di un mese sono state quindi ri-girate tutte le scene nelle quale compariva e ciò torna ad ulteriore merito dell’ottimo Christopher Plummer il quale, per questa interpretazione, diventa il più anziano candidato agli Oscar per l’interpretazione, “titolo” che già glia apparteneva per l’Oscar vinto nel 2012 con “Beginners” (2010).
Il soggetto è la vera storia del rapimento del nipote del magnate Paul Getty ed è cosa ben nota, almeno fra tutti gli ultrasessantenni, i quali ricorderanno anche quegli anni in genere, compresa la crisi del petrolio dell’epoca e la conseguente “austerity”. Tuttavia, nell’elaborare la sceneggiatura varie cose sono cambiate, qualcuna è stata inventata di sana pianta e l’Italia rappresentata da Ridley Scott è, inevitabilmente, piena di luoghi comuni e stereotipi.
Interessanti gli ambienti in cui si muove il vecchio Getty e buona caratterizzazione del personaggio, pressoché ridicole le rappresentazioni dei vari rapitori (esaltando la parte di brutti e sporchi, in fondo non tanto cattivi) e dei luoghi che abitano. Per quanto riguarda gli altri esterni, abbondano i soliti panorami romani con l’aggiunta di una miriade di Vespe e paparazzi. Non ho apprezzato gli inutili (almeno secondo me) andirivieni temporali.
Nel complesso un film così così, con una buona regia (da apprezzare soprattutto il “salvataggio” del film in corso d’opera) e due ottime interpretazioni, mentre Mark Wahlberg (in una delle sue prove più scialbe) e il resto del cast sono veramente sotto la media.
PS - trovo che con il passare degli anni Plummer diventi sempre più somigliante a Anthony Quinn
 

75 “Jail bait” (Edward D. Wood Jr., USA, 1954) * con Lyle Talbot, Dolores Fuller, Herbert Rawlinson IMDb 3,3 RT 29%
76 “Bride of the Monster” (Edward D. Wood Jr., USA, 1955) tit. it.
“La sposa del mostro” * con Bela Lugosi, Tor Johnson, Tony McCoy IMDb 4,1 RT 45%
I film di Edward D. Wood Jr., ovverossia il fascino dell'orrido, senza nessun riferimento all’horror che è tutt’altra cosa.
Per fortuna i suoi film sono brevi, solo poco più di un’ora e hanno il vantaggio, già sottolineato da molti, di essere talmente mal realizzati, ed in varie parti veramente ridicoli, da risultare divertenti.
Non per niente Ed Wood si è guadagnato il titolo di “peggior regista di sempre”.
Venendo ai due film visti ieri, devo dire che non sono d’accordo nell’ordine di merito (guardate i rating) e penso che il secondo sia stato “salvato” dai cinefili fan di Bela Lugosi, al suo penultimo film.
In entrambe i casi soggetto e sceneggiatura sono scritti da Wood a quattro mani con il suo fido amico Alex Gordon, ma in “Jail bait” c’è un’idea geniale (che conclude il film) meritevole di tutt’altra e migliore sorte. Quindi, pur essendo piatto, basato su stereotipi mal rappresentati, anche se i personaggi non sono del tutto ridicoli, con solo una parvenza di recitazione da parte di qualche interprete, si salva all’ultimo momento rinunciando ad uno dei possibili finali, banali ma almeno un po’ realistici, con il “coup de theatre” al quale accennavo pocanzi che non è prevedibile se non solo pochi istanti prima della rivelazione.
L’idea è ottima, ma assolutamente non credibile per un cumulo di motivi.
Il secondo “Bride of the Monster” è un disastro completo, a iniziare dalla debolissima e prevedibilissima trama, per continuare con la pessima messa in scena che conta su un polpo (vero, in un acquario = il mostro!) e sui suoi ipotetici tentacoli mal realizzati e mossi ancora peggio, su un laboratorio ridicolo, su un energumeno muto, ma non si deve dimenticare il professor Strowski (siamo in piena guerra fredda), e via discorrendo.
Fa quasi tenerezza l’ultrasettantenne Bela Lugosi (che chissà perché si associò con Ed Wood) con il suo marcato accento, il forzatissimo sguardo ipnotico e i movimenti di mani e soprattutto dita, quasi una caricatura delle sue interpretazioni vampiresche.
Film per veri “topi di cineteca” ... di tanto in tanto ci vuole una distrazione dai film superelogiati, con budget eccessivi cast con nomi famosi che si rivelano clamori bidoni. Almeno, nel caso di Ed Wood si sa cosa si va a guardare e le attese non vanno deluse: film senza né capo né coda, mal interpretati e peggio realizzati che tuttavia, proprio per tali motivi, hanno un loro fascino ... dell’orrido.

 

74 “Secretos del corazón” (Montxo Armendáriz, Spa, 1997) trad. lett. “Segreti del cuore” * con Carmelo Gómez, Charo López, Andoni Erburu, Silvia Munt *  IMDb 7,3 Nomination Oscar miglior film in lingua non inglese  * Premio Angelo Azzurro (miglior film europeo tra quelli in concorso) e Nomination Orso d’Oro al Festival di Berlino  *  4 Premi Goya (Andoni Erburu attore rivelazione, Charo López non protagonista, scenografia, sonoro) e 5 Nomination
Film degno della migliore tradizione spagnola, di quelli che purtroppo negli ultimi decenni sono sempre più rari. Un’ottima storia ben descritta, con un buon cast e una bella ambientazione. Tutto viene filtrato attraverso la curiosità del piccolo Javi, che vive in città con il fratello a casa di due zie, mentre la madre (vedova) resta nel paesino di campagna. Curioso, ma un po’ pauroso, intraprendente ma condizionato dalle tante bugie (più o meno innocue) che gli propinano, a cominciare dal fratello maggiore. Al di là di zie, zii e nonno, Montxo Armendáriz (anche sceneggiatore del film) propone vari personaggi ben caratterizzati con poche “pennellate”, spaccati della vita di campagna e simpatiche scene scolastiche, in particolar modo quelle delle prove della recita annuale.
Anche se alcune situazioni si sospettano, le conferme arrivano con il ritmo giusto e sempre mantenendo un po’ di sorpresa.
Merita senz’altro una visione.

 

73 “Secrets & Lies” (Mike Leigh, UK, 1996) tit. it. “Segreti e bugie” * con Timothy Spall, Brenda Blethyn, Marianne Jean-Baptiste, Phyllis Logan *  IMDb 8,0 RT 95%  *  5 Nomination Oscar (Miglior film, Mike Leigh per regia e sceneggiatura, Brenda Blethyn protagonista, Marianne Jean-Baptiste non protagonista)
Penso che si sarebbe potuto sviluppare l’ottimo soggetto in modo molto migliore e più equilibrato. Troppo lunga e ripetitiva la prima parte, scontata la seconda, un'occasione persa. Come esempio significativa, nella parte centrale del film c’è un’esagerata l'inquadratura fissa di una decina di minuti sulle due protagoniste, in un bar assolutamente deserto. Le due ore e un quarto sono senz’altro troppe per questo film, volendo mantenere tale durata non c’era che l’imbarazzo della scelta per aggiungere qualche elemento significativo. Sul tema degli abbandoni e delle adozioni, sulla eventuale ricerca di genitori naturali o, al contrario, ricerca di figli dati in affidamento già è stato detto tanto ma senz’altro è un tema che può essere approfondito da molti punti di vista.
Ho trovato molto bravo Timothy Spall (di recente apprezzato in “The Party”, 2017) ma anche Brenda Blethyn e Marianne Jean-Baptiste forniscono ottime interpretazioni e penso che abbiano meritato le rispettive Nomination.
Buon film, ma mi aspettavo di più ... soprattutto mi ha deluso la regia.
 

72 “Shadowlands” (Richard Attenborough, UK, 1993) tit. it. “Viaggio in Inghilterra” * con Anthony Hopkins, Debra Winger, Julian Fellowes  *  IMDb 7,4 RT 97% * 2 Nomination Oscar (Debra Winger protagonista e William Nicholson per la sceneggiatura)
Tratta di un breve periodo della vera vita di C. S. Lewis, un prof. di lingua e letteratura inglese ad Oxford, molto più famoso per essere l'autore - fra altri scritti - dei 7 libri noti come “Le cronache di Narnia”. L’incontro con una sua “ammiratrice” americana, la poetessa “dilettante” Joy Gresham, con figlio al seguito, certamente cambiò la sua vita routinaria divisa fra università e casa, che divideva con il fratello Warnie.
La storia si trascina a ritmo lento, ma per fortuna viene vivacizzata dai dialoghi, quasi simpatici battibecchi, fra Lewis e Joy nei quali spesso intervengono anche Warnie e vari colleghi, molti dei quali guardano con un’aria di superiorità “l’americana” che, tuttavia, ha sempre una risposta pronta e sagace per loro. A ciò si aggiungono alcuni stralci delle conferenze filosofico-religiose tenute da Lewis in affollatissime sale e, infine, è interessante lo spaccato della vita universitaria di Oxford negli anni ’50, con le riunioni (quasi riti) di ottuagenari togati che mantengono tradizioni secolari sia negli edifici del '700, sia negli spazi aperti lungo le rive del fiume.
Chi conosce almeno un po’ le mentalità britannica e americana, può apprezzare più a fondo lo scontro culturale fra uno degli ambienti più obsoleti, seppur colti, della terra di Albione, e il moderno modus vivendi del nuovo mondo rappresentato dalla saccente ma arguta, sfrontata ma acuta Joy.
Ottimo il cast, e non mi riferisco solo ai protagonisti Hopkins e Winger, ma anche al giovane Joseph Mazzello (Douglas, il figlio di Joy), a Edward Hardwicke (Warnie Lewis) e ai tanti altri che ricoprono ruoli minori.
Chi pone attenzione ai contenuti dei dialoghi e delle conferenze di C. S. Lewis, vi troverà mille spunti di riflessione, fra il filosofico e il religioso.
 

71 “Fail Safe” (Stephen Frears, Martin Pasetta, USA, 2000) tit. it. “A prova di errore” * con Walter Cronkite, Richard Dreyfuss, Noah Wyle  *  IMDb 7,4 RT 100%
Ancora un film per la tv, un ottimo prodotto in particolare considerando la sua eccezionalità. Il film fu realizzato “in diretta” su vari set della Warner Brothers Burbank Studios, per la rete televisiva CBS, primo esperimento del genere dopo 39 anni di attività.
I pochi attori che comparivano in diverse location dovevano quindi cambiare set e, nel caso di Harvey Keitel, cambiarsi rapidamente (dal pigiama a casa alla divisa nella sala riunioni). Anche George Clooney (fra l’altro produttore esecutivo del film) passa dall’alloggio piloti all’interno del bombardiere, ma molto probabilmente doveva solo muoversi nella stanza accanto e indossare casco e maschera da pilota. Da sottolineare che, per sicurezza, la CBS aveva già prodotto una copia dell’ultima “prova in costume”, da mandare in onda in qualunque momento nel caso fosse sorto un problema nel corso della diretta ... ma tutto andò alla perfezione.
La sceneggiatura è tratta dall’omonimo bestseller di Eugene Burdick e Harvey Wheeler del 1962, del quale già nel ’64 fu realizzata un’ottima versione cinematografica (IMDb 8,0, RT 95%), diretta da Sydney Lumet, con Henry Fonda nei panni del Presidente e Walter Matthau in quelli del cinico Professor Groeteschele.
Senz’altro un ottimo film con una perfetta escalation di tensione, con un efficace montaggio che porta gli spettatori a seguire i contatti fra la sala controllo del quartier generale dello Strategic Air Command di Omaha, lo studio del Presidente con il famoso telefono rosso (linea diretta con Mosca), il National Security Council del Pentagono.
Cast di tutto riguardo con Richard Dreyfuss (Presidente USA), Harvey Keitel (Gen. Warren A. Black "Blacky"), Hank Azaria (Prof. Groeteschele), Brian Dennehy (Gen. Bogan), George Clooney (Col. Jack Grady) e tanti altri volti noti, apprezzati caratteristi in decine di film americani. A proposito delle loro interpretazioni è giusto e fondamentale sottolineare che non c’era la possibilità di un secondo ciak, né di prendersi pause durante l’ora e mezza di performance anche se non erano sempre in scena, ... altro che attori di mezza tacca che hanno bisogno di decine di ciak per dire mezza battuta!
“Fail Safe” è un thriller politico e di strategia bellica di alto livello, ne consiglio la visione.
 

70 “Fanny & Alexander” fu l’ultimo film diretto da Igmar Bergman e conta con l’ultima apparizione di uno dei suoi attori prediletti, l’ottimo Gunnar Björnstrand, protagonista in una ventina di suoi film fra i quali Il settimo sigillo (1957), Il posto delle fragole (1957), Come in uno specchio (1961), Luci d'inverno (1963), Persona (1966).

Recensione nel post su Discettazioni  Erranti

 

69 “Un mondo di marionette” (Ingmar Bergman, Ger, 1980) tit. or. “Aus dem Leben der Marionetten” * con Robert Atzorn, Christine Buchegger, Martin Benrath  *  IMDb 7,5 RT 56%
In realtà si tratta di un film per la TV tedesca diretto da Bergman nel periodo in cui si allontanò dalla Svezia dopo essere stato accusato di frode fiscale, fatto che lo turbò e depresse a tal punto da doversi ricoverare per vari mesi in una clinica. Per “Un mondo di marionette” si avvalse di un cast tutto tedesco, come per il suo precedente lavoro in Germania “L'uovo del serpente”. I protagonisti sono Katarina and Peter Egermann, una coppia già vista in un episodio di “Scene da un matrimonio” (1973), in quel caso interpretati da Bibi Andersson e Jan Malmsjö.
Il film inizia con un omicidio e poi, con flashback e flashforward, tenta di presentare i legami fra vari personaggi - tutti molto particolari - con indagini della polizia, le solite infinite discussioni fra moglie e marito, tradimenti, amanti, e via discorrendo. Ne esce un quadro un po’ confuso costituito da scene nettamente scollegate fra loro per spazio e tempo, nelle quali interagiscono 2 o al massimo 3 personaggi principali, con lunghe discussioni o confessioni.
Qualcuno lo giudica sottovalutato, altri dicono che risente del periodo post-depressivo di Bergman, l’ho trovato interessante sotto certi aspetti ma certamente non è all’altezza della fama del regista svedese.
Per questo film Bergman torna a girare in bianco e nero, dopo vari film a colori.
 

68 “Passione” (Ingmar Bergman, Sve, 1969) tit. or. “En passion” * con Liv Ullmann, Bibi Andersson, Max von Sydow  *  IMDb 7,8 RT 100%
Siamo passati al colore, gli usuali pochi personaggi (interpretati dai soliti bravi attori) si confrontano ancora una volta in un ambiente limitato (un'isola), ma in questo film Bergman inserisce una particolarità che non ricordo di aver visto in nessuna altra occasione se non negli extra dei film: i commenti degli attori a riguardo dei propri ruoli. Ognuno degli attori principali ha un suo spazio in certo momento del film e spiega al pubblico come vede il suo personaggio. Altra particolarità è quella di una misteriosa storia di crudeltà sugli animali che si sviluppa parallelamente a quella principale avendo tuttavia alcuni punti di contatto.
Gli argomenti chiave del film, però, sono ancora una volta quelli della gelosia che contrasta con la libertà sessuale, le coppie in crisi e qualche accenno a Dio.
Un buon film, seppur con qualche sbavatura, sorretto da ottime interpretazioni, ma ho l’impressione che Bergman non padroneggi il colore come il bianco e nero, ma almeno non ci sono più le esagerate luci troppo spesso sparate sugli attori.
 

67 “La fontana della vergine” (Ingmar Bergman, Sve, 1960) tit. or. “Jungfrukällan” * con Max von Sydow, Birgitta Valberg, Gunnel Lindblom  *  IMDb 7,8 RT 100%  *  Oscar Miglior film non in lingua inglese, Nomination per i costumi (b/n)
Nell'approfondimento della filmografia di Bergman, dopo la trilogia "dell'assenza di Dio", dopo la distrazione di un paio di film attualissimi visti in sala ("The Shape of Water" e "The Bookshop") e prima di passare ad altri 3 film successivi di Bergman (però non collegati fra loro) torno al1960 con "La fontana della vergine", Oscar 1961 come film non in lingua inglese.
“La fontana della vergine” è uno dei pochi casi in cui Bergman non ha utilizzato una sceneggiatura sua, ma si è affidato a Ulla Isaksson; resta invece al suo posto il direttore della fotografia, il solito apprezzatissimo Sven Nykvist, che però a me piace solo per gli esterni (bellissimo il suo bianco e nero), mentre non sopporto le sue eccessive luci sparate sui volti, l’eccesso di luminosità degli interni che, a giudicare dalle sorgenti di luce visibili, dovrebbero essere poco illuminati, le nette ombre plurime proiettate in ogni direzione, spesso realisticamente impossibili.
Di conseguenza, pur apprezzando la regia di Bergman, trovo che spesso si basi troppo sugli effetti scenici e drammatici della fotografia di tipo teatrale, quasi dimenticandosi del resto. A suo merito si deve però aggiungere che conta sempre su ottime interpretazioni di bravi attrici e attori che, evidentemente, sa dirigere.
Tornando a “La fontana della vergine”, devo dire che la storia, ambientata nelle campagne e boschi svedesi del XIII secolo, è poco convincente ma bisogna tener presente che il soggetto originale è una leggenda, tramandata anche dal testo di una popolare ballata. Si devono quindi leggere e considerare i significati morali e simbolici che si vollero inserire all’epoca e non la traballante trama, fino al quasi miracoloso finale.
Al momento lo reputo sopra la media della dozzina di film di Bergman finora visti, ma non fra i suoi migliori.
 

66 “The Bookshop” (Isabel Coixet, UK/Spa, 2017) tit. it. “La libreria” (forse, almeno si spera) * con Emily Mortimer, Bill Nighy, Patricia Clarkson  *  IMDb 6,6 RT 71%
Non male, buono il soggetto (tratto dall’omonimo libro dell’inglese Penelope Fitzgerald), bella l’ambientazione in un tranquillo paesino costiero, umido, piovoso, con edifici e personaggi di altri tempi. L’anziano generale succube della falsa, sleale e perfida moglie Violet (Clarkson), il solitario e misterioso Mr. Brundish (Nighy), la piccola Christine (la brava tredicenne Honor Kneafsey, che già conta 7 film) e sua madre, il pescivendolo, l’avvocato, il direttore della banca e altri sono tutti ben descritti (più o meno approfonditamnete a seconda del loro ruolo) e interpretati da un buon cast tutto inglese. Solo il viscido Milo North (James Lance) mi è sembrato dipinto troppo sopra le righe e il pessimo doppiaggio lo ha ulteriormente peggiorato.
Come era facilmente prevedibile considerati tema e ambientazione il film, realisticamente, si sviluppa lentamente fra esterni quasi sempre grigi e umidi (ma siamo in UK, effettiva location Portaferry, Irlanda del Nord), vecchie case a magioni, e ovviamente si parla relativamente spesso di scrittori e poeti, nonché di romanzi, classici e moderni.
La regista è la catalana Isabel Coixet, che forse qualcuno ricorda per il suo “Elegy” (2008, tit. it. “Lezioni d'amore”). Emily Mortimer (protagonista assoluta) e Patricia Clarkson (appare poco ma ha un ruolo importante) avevano già lavorato insieme in “Lars and the Real Girl” (2007), “Shutter Island” (2010) e nel recentissimo e ottimo “The Party” (2017).
Se mai giungesse in Italia non prevedo un gran successo ma penso che possa senz’altro piacere a chi apprezza la lettura e a chi ha abbastanza cultura specifica per apprezzarne la parte bibliofila-letteraria.
Al momento non sembra annunciato in Italia, ma la situazione si potrebbe presto sbloccare dopo lo “special gala” (e prima internazionale) al Berlin Film Festival, giovedì scorso, 15 febbraio. In effetti non è ancora uscito neanche in Inghilterra, ma solo in Spagna dove fra i Goya e altri Festival ha raccolto 11 premi e 27 Nominanion e ha ottenuto buoni risultati al botteghino.

 

65 “The Shape of Water” (Guillermo Del Toro, USA, 2017) tit. it. “La forma dell’acqua” * con Sally Hawkins, Octavia Spencer, Michael Shannon, Michael Stuhlbarg, Richard Jenkins  *  IMDb 7,8 RT 93%  13 Nomination Oscar 2018, oltre alle 4 già citate, ce ne sono 3 per Del Toro (regia, miglior film e sceneggiatura, le ultime due condivise), Octavia Spencer e Richard Jenkins (non protagonisti), fotografia, costumi, montaggio e production Design.
Bella miscela di fantasy, fiction, thriller, commedia, spy story e romance, narrata da Del Toro con molto garbo, avvalendosi di un’ottima fotografia (senza troppe luci fuori luogo, tutta sul giustamente cupo, interni trattati come interni) ed un’eccezionale colonna sonora che da sola ha praticamente ottenuto 3 Nomination: commento musicale originale, sound editing e sound mixing (non mi domandate quale sia la differenza fra le ultime due).
Tuttavia, mi ha lasciato molto perplesso la scelta dell'inserto in b/n, penso di aver capito il tipo di messaggio che Guillermo del Toro volesse convogliare, ma mi sembra che il modo scelto c’entri come il cavolo a merenda ... una vera stonatura nella struttura del film. Inoltre, varie "sorprese" sono un po’ troppo prevedibili.
Ho trovato particolarmente in forma Michael Shannon (che comunque rimane uno dei pochi senza Nomination) e Sally Hawkins (candidata all'Oscar) della quale già si sapeva. Perfino Michael Stuhlbarg mi è sembrato più convincente che nel ruolo del professore, padre di Elio, in “Chiamami col tuo nome”.
Film senz’altro da non perdere (oltretutto considerata l’attuale concorrenza ...), ma non è il capolavoro che molti avevano annunciato e, probabilmente non il miglior film di Guillermo Del Toro il quale, tuttavia, dovrebbe essere quasi sicuro di portare finalmente a casa almeno un Oscar.
 

64 “Il silenzio” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or. “Tystnaden” * con Ingrid Thulin, Gunnel Lindblom, Birger Malmsten  *   IMDb 8,0 RT 92%
Capitolo conclusivo della trilogia dei “chamber films”, dopo “Come in uno specchio” (1961) e “Luci d'inverno” (1963); senz’altro il più criptico e deprimente dei tre. Come avevo scritto, la trilogia viene anche definita “del silenzio di Dio” ma in questo caso il tema compare in maniera molto marginale.
Il film all’epoca suscitò molto scandalo per le scene di sesso esplicito, almeno così furono considerate in quegli anni.
La strana storia vede protagoniste Ester, morente, sua sorella Anna, “sessualmente intraprendente”, e il figlio di quest’ultima. Si trovano in un hotel in un paese straniero e non conoscono la lingua locale. Ciò rende ancor più evidente l’incomunicabilità fra le sorelle (che sì potrebbero/dovrebbero parlarsi) assimilandola quasi alla barriera linguistica fra loro e il personale e altri ospiti dell’albergo. L’unico connessione con l’esterno sarà il rapporto occasionale di Anna, puro sesso, niente parola.
Dei tre “Il silenzio” è quello che ho apprezzato di meno, “Luci d'inverno” è il mio preferito e, al di là di questo ristretto ambito, penso sia uno dei migliori di Bergman in assoluto.
 

63 “Luci d'inverno” (Ingmar Bergman, Sve, 1963) tit. or. “Nattvardsgästerna” * con Gunnar Björnstrand, Ingrid Thulin, Max von Sydow, Gunnel Lindblom  *  IMDb 8,1 RT 75%
Elemento centrale della trilogia dei “chamber films” (o “del silenzio di Dio”), fra “Come in uno specchio” (1961) e “Il silenzio” (1963).
Dopo la delusione del primo, temevo questa seconda parte ma questo “Luci d'inverno”, al contrario, mi è piaciuto veramente tanto, sia per la sceneggiatura che per le interpretazioni. Gli argomenti tirati in ballo, e non certo per la prima volta, da Bergman sono la ragione di vivere (se esiste), la religione e la carenza della manifestazione di Dio (se esiste), i rapporti personali che in questo caso vanno da un amore rifiutato ad uno perso, tuttavia indelebile.
Dopo aver guardato un film, specialmente se mi è piaciuto molto o per niente, vado a dare uno sguardo alle recensioni per “confrontarmi” con chi la pensa in modo totalmente opposto trovando critiche risibili. Uno dei (pochi) denigratori di “Luci d'inverno” lo ha criticato perché “solleva problemi, ma non fornisce soluzioni”! Sono millenni che nessuno riesce a risolvere le questioni religiose e morali, come lo si può pretendere da Bergman?
Dal mio punto di vista, il gran merito del regista-sceneggiatore svedese è invece proprio quello di proporre personaggi molto diversi fra loro, che si confrontano in merito alle loro incertezze, aspirazioni, delusioni, frustrazioni e, praticamente tutti, al contempo sentono l’assenza di un Dio sul quale poter contare per trovare risposte ai loro dubbi. Gli ottimi dialoghi sollecitano gli spettatori attenti (e pensanti) a cercare le proprie conclusioni, gli altri (passivi) resteranno nel loro stato di torpore mentale.
Ottimo film, senz’altro ad un livello simile a quello dei migliori di Bergman della fine del decennio precedente come “Il settimo sigillo”, “Il posto delle fragole” e “La fontana della vergine”.
Lo stesso Bergman dichiarò che “Luci d'inverno” è il solo film del quale è completamente soddisfatto.
 

62 “Come in uno specchio” (Ingmar Bergman, Sve, 1961) tit. or. “Såsom i en spegel” * con Harriet Andersson, Gunnar Björnstrand, Max von Sydow  *  IMDb 8,1 RT 100%  *  Oscar come Miglior film non in lingua inglese e Nomination per la sceneggiatura
Primo elemento della trilogia dei “chamber films” a cui seguiranno “Luci d'inverno” e “Il silenzio”, entrambi del 1963.
Bergman ha messo su un film assolutamente teatrale si a per gli spazi ridotti nei quali si sviluppano le varie scene, sia per il limitatissimo numero di personaggi (solo 4), sia per il tipo di recitazione imposta agli attori. Non mi sono piaciute per niente le luci (e soprattutto le ombre) assolutamente fasulle (un paio di esempi lampanti sono fra le foto allegate). Eppure, il direttore della fotografia era l’apprezzato Sven Nykvist, vincitore di due Oscar, ma ciò non mi fa cambiare opinione.
Inoltre, a fronteggiare Karin (Harriet Andersson), da poco uscita da una clinica psichiatrica, Bergman (anche sceneggiatore) pone i tre uomini della sua vita, vale a dire padre, fratello e marito, anche questi con loro bravi problemi psichici, seppur di natura ben diversa. Tutto si risolve come un parlare fra sordi, ognuno vuole andare per la sua strada e la comunicazione effettiva è praticamente inesistente.
Ho apprezzato tanti dei suoi film precedenti, ma questo mi ha molto deluso per i vari suddetti motivi. Spero di trovare qualche tema più realistico e interessante, oltre ad una più precisa regia, negli altri due film della trilogia.
 

61 “La grande séduction” (Jean-François Pouliot, Can, 2003) tit. int. “Seducing Dr. Lewis”, tit. it. “La grande seduzione” * con David Boutin, Lucie Laurier, Raymond Bouchard  *  IMDb 7,5 RT 68% *  Audience Award al Sundance Film Festival 2004
Singolare commedia canadese che, seppur alla larga, ricorda molto uno dei capolavori spagnoli degli anni ’50: “Bienvenido Mr. Marshall” (1953).
Mentre il paesino spagnolo di Villar del Río era messo in subbuglio dall’annuncio dell’arrivo di americani che avrebbero potuto destinare aiuti nell’ambito del Piano Marshall, gli abitanti del minuscolo villaggio di (ex)pescatori di St. Marie-La-Mauderne in Québec devono convincere un medico a trasferirsi lì, conditio sine qua non per avere una piccola fabbrica che darebbe lavoro a tutti i locali, che attualmente sopravvivono con i sussidi di disoccupazione visto che non si pesca praticamente più.
Come nel primo caso tutti, guidati dall’intraprendente alcalde, collaborano a presentare il paese attraente (secondo il folklore dell’immaginario collettivo di un paesino della campagna andalusa) in “La grande séduction” il sindaco organizza e dirige i 125 abitanti per “sedurre” il giovane chirurgo plastico Dr. Lewis (da cui il titolo) di Montreal e convincerlo a rimanere dopo i 30 giorni che deve scontare lì come servizio sociale, dopo essere stato trovato in possesso di cocaina.
Piacevole e ingenua, con alcuni buoni spunti e vari personaggi ben caratterizzati, nel complesso senz’altro sufficiente, ma ben distante da “Bienvenido Mr. Marshall” che tutt’oggi viene inserito ai primi posti fra i migliori film spagnoli di sempre. Lo diresse il geniale Luis G. Berlanga, il quale ne curò anche la sceneggiatura insieme con un altro apprezzatissimo regista e sceneggiatore dell’epoca, Juan Antonio Bardem (zio di Javier) che un paio di anni dopo avrebbe diretto altre due pietre miliari del cinema spagnolo: “Calle Mayor” (1955) e “Muerte de un ciclista” (1956).
 

60 “La flor de mi secreto” (Pedro Almodóvar, Spa, 1995) tit. it. “Il fiore del mio segreto” * con Marisa Paredes, Juan Echanove, Carme Elias  *  IMDb 7,1 RT 83%
Prodotto due anni dopo “Kika” e due prima di “Carne tremula”, “La flor de mi secreto” non fra i film più conosciuti di Almodóvar né, in generale, è molto apprezzato, tuttavia a me è piaciuto, più di vari altri. Ci sono abbastanza colpi di scena, ben distribuiti anche se qualcuno prevedibile, e interessanti personaggi al limite del caricaturale, ma tutti più che reali, affidati ad interpreti di riconosciuta esperienza come Rossy de Palma, Juan Echanove e l’immarcescibile e inimitabile Chus Lampreave, ma c’è anche Joaquín Cortés (proprio lui, il famoso bailaor flamenco) nella prima delle sue sole 3 apparizioni sul grande schermo.
Ho avuto l’impressione che i rossi del regista manchego questa volta fungano veramente da filo conduttore, sono pochissime le scene nelle quali non spicchino vestiti, fiori o oggetti di ogni tonalità di rosso. Fedele al suo standard, Almodóvar inserisce anche ad arte varie canzoni classiche fra le quali “En el ultimo trago”, interpretata dalla sua amica messicana Chavela Vargas.
Se minimamente piace lo stile di Almodóvar, direi che è un film imperdibile, grazie anche ad una superba interpretazione di Marisa Paredes.
 

59 “Mr. and Mrs. Bridge” (James Ivory, USA, 1990) * con Paul Newman, Joanne Woodward, Saundra McClain  *  IMDb 6,7 RT 80%  *  Nominaton Oscar 1991 per Joanne Woodward protagonista   *  2 premi e Nomination Leone d’Oro per James Ivory a Venezia 1990
James Ivory, apprezzato regista (seppur poco prolifico) e saltuariamente sceneggiatore, attualmente in corsa per l’Oscar con “Chiamami col tuo nome”.
In questo film descrive e segue i delicati rapporti fra i coniugi Bridge, i loro figli e i loro singolari amici (sarebbe più corretto dire conoscenti, fatto salvo un singolo caso) basandosi su due romanzi di Evan S. Connell pubblicati separatamente “Mr. Bridge” e “Mrs. Bridge”, ma uniti e adattati da Ruth Prawer Jhabvala (Camera con vista, Howards End, Quel che resta del giorno, ...).
Lo definirei un “film di mestiere”, che si sviluppa lentamente ma con precisione, con un buon cast ad interpretare i personaggi che caratterizzano la borghesia del Kansas fra la fine degli anni ’30 e inizio dei ’40, condotti da due ottimi attori quali Paul Newman e Joanne Woodward, quest’ultima candidata Oscar 1991 come protagonista. Penso sia interessante sottolineare che i due erano veramente marito e moglie, una delle coppie più longeve del mondo hollywoodiano essendo stati sposati per ben 50 anni, felice convivenza interrotta solo dalla morte di Newman nel 2008, e che questo abbia ulteriormente favorito la loro prestazione.
 

58 “Nowhere in Africa” (Caroline Link, Ger, 2001) tit.or. "Nirgendwo in Afrika" * con Juliane Köhler, Merab Ninidze, Matthias Habich  *  IMDb 7,6 RT 84%
Un po' troppo lungo per ciò che racconta, e un po' troppo edulcorato almeno per come mi immagino il Kenya fra il 1938 e il 1946, ma certo non ero lì per poterlo affermare con certezza. Almeno la natura è chiaramente affascinante.
Sceneggiatura adattata dall’omonimo romanzo autobiografico (1995) di Stefanie Zweig, che narra della sua famiglia ebrea, il padre avvocato già fuggito in Kenya, di buona volontà e attitudine positiva, ma senza troppa spina dorsale, successivamente raggiunto dall'insopportabile e arrogante moglie, sostanzialmente stupida ed egoista, e dalla molto più disinvolta e di mentalità aperta figlia di 5 anni e mezzo (l’autrice del libro).
Caroline Link, regista e sceneggiatrice, saltella dai rapporti fra inglesi e tedeschi (soprattutto ebrei in fuga dalla Germania nazista) a quelli fra coloni europei e indigeni, dalle liti familiari fra l’eterna scontenta Jettel e il marito Walter alla crescita della piccola Regina che invece sa mantenere i giusti rapporti con i locali, con gli inglesi e anche con la natura.
Il film ottenne l’Oscar come Miglior film in lingua non inglese nel 2003, attribuzione molto criticata e anche in questo caso sorse il solito sospetto che più che la qualità del prodotto avesse contato il tema dell’olocausto (tanto per cambiare) ... uno dei contendenti era un certo “Hero” di un “tale” Yimou Zhang, uno che senza dubbio dirige rasentando la perfezione, specialmente in confronto alla regia anonima e scadente di Caroline Link!
 

57 “Cuba feliz” (Karim Dridi, Fra, 2000) film-documentario * con Miguel Del Morales “El Gallo”, Pepín Vaillant, Zaida Reyte, Mirta Gonzáles, Aníbal Ávila, Alberto Pablo, Armandito Machado, Mario Sanchez Martinez, Gilberto Mendez, Alejandro Almenares, Paisan Mallet, Eulises Sanchez, Carlo Boromeo Planchez, Cándido Fabré  *  IMDb 6,5 RT 63%  *  Nomination a Cannes 2000
“El Gallo” (all’anagrafe Miguel Del Morales) è un cantautore e chitarrista itinerante cubano, 76 anni all’epoca di questo documentario, conosciuto anche come “memoria vivente del bolero cubano”.
Il regista francese Karim Dridi lo segue con la sua piccola videocamera da La Habana a Trinidad, da Guantanamo a Santiago de Cuba e di nuovo a La Habana nei suoi incontri con vecchi amici, giovani rapper, colleghi e ammiratori, mentre canta per strada, in case private o anche nel treno.
Sia ben chiaro, non è assolutamente comparabile con il più conosciuto e professionale “Buena Vista Social Club” di Wim Wenders (1999), ma i suoi meriti consistono proprio nella sua maggiore spontaneità ed è un “documentario” per modo di dire in quanto non c’è alcun commento aggiunto.
Per “Cuba feliz”, invece del solito poster e qualche foto, vi propongo un estratto con una particolare interpretazione della famosa “Lagrimas negras”, intervallata da strofe estemporanee e duetti di presa in giro fra Zaida Reyte sull’uscio di casa e i quattro musicisti (El Gallo è il chitarrista con il cappello e gli occhiali scuri) in strada.
Questo è il link al film completo https://www.youtube.com/watch?v=uKD748D7_mw
 

56 “Paris when it sizzles” (Richard Quine, USA, 1964) tit. it. “Insieme a Parigi” * con William Holden, Audrey Hepburn, Grégoire Aslan  *  IMDb 6,4 RT 57%
Dopo Boudou di Renoir, ho scelto un'altra commedia ambientata a Parigi, stavolta americana e di oltre 30 anni più recente e sono d'accordo con chi dice che si tratta di un film sottovalutato. Specialmente chi, come me, ama il cinema apprezza la presa in giro di quell’ambiente e dei suoi personaggi, dai produttori, agli sceneggiatori e agli attori, star o comparse che siano, per non parlare dei modi di narrare e di unire le scene a cominciare dalle dissolvenze che tornano in gioco ricorrentemente.
Si tratta di due o tre film in uno ... la trama ufficiale segue uno sceneggiatore che, dopo aver bighellonato per vari mesi, deve ora scrivere una sceneggiatura di un film (del quale esiste solo il titolo) in 48 ore, assistito dalla dattilografa Gaby (Audrey Hepburn) all'uopo assunta e appassionata di cinema. Confrontandosi, cambieranno i personaggi e gli avvenimenti molte volte e (nel film) interpretano di volta in volta i diversi protagonisti nelle varie ipotetiche scene con una miriade di colpi di scena.
L'interpretazione di William Holden, che si rivelandosi un ottimo commediante, supera nettamente quella della Hepburn e al loro fianco appaiono vari special guestcon Toni Curtis primo fra tutti in un ruolo di attore frustrato per avere sempre ruoli secondari, ma ci sono i camei di Marlene Dietrich e Mel Ferrer (all’epoca marito della Hepburn).
Merita senz’altro una visione in quanto non ha niente da invidiare a tante altre eleganti commedie dell’epoca.
 

55 “Boudu sauvé des eaux” (Jean Renoir, Fra, 1932) tit. it. “Boudou salvato dalle acque” * con Michel Simon, Marcelle Hainia, Sévérine Lerczinska  *  IMDb 7,5 RT 100%
In biblioteca ho trovato questa quasi rarità, uno dei primi film sonori di Renoir (il quarto) che precede di vari anni i suoi più famosi lavori francesi quali “La grande illusione” (1937) e “La Bête humaine” (1938, L'angelo del male), entrambe con Jean Gabin come protagonista, prima di andare oltreoceano.
Ho notato il dvd in quanto sulla custodia si sottolineava che si trattava dell’edizione restaurata (anche in questa c’è la mano dell’ottima “Immagine Ritrovata” di Bologna) ed in effetti la “pellicola” appare quasi perfetta.
Il soggetto è tratto dall’omonima commedia in 4 atti (1919) di René Fauchois, successivamente ri-adattata da Paul Mazursky per “Down and out in Beverly Hills” ( 1986, Su e giù per Beverly Hills, con Nick Nolte e Richard Dreyfuss) e di nuovo in Francia con “Boudou” (2004, con Gérard Depardieu).
Con “Boudou salvato dalle acque” Renoir si cimenta in una commedia leggera nella quale un vagabondo interpretato da un giovane Michel Simon viene ripescato dalla Senna da un libraio che lo accoglie in casa sua, non prevedendo lo scompiglio che causerà nella sua esistenza borghese. Pur trattandosi di una commedia, traspare in modo evidente la qualità della regia e già si possono apprezzare le scelte delle inquadrature e i movimenti di macchina che daranno poi fama al regista francese.
 

54 “Zivot je cudo” (Emir Kusturica, Ser, 2004) tit. it. “La vita è un miracolo” * con Slavko Stimac, Natasa Tapuskovic, Vesna Trivalic  *  IMDb 7,7 RT 60%
Uno dei pochi Kusturica non ancora visto, dei suoi film a soggetto ora mi manca solo “On the Milky Road - Sulla Via Lattea” che tuttavia non mi attira più di tanto, non lo vedo appetibile e la presenza dell’incapace Monica Bellucci funge da deterrente.
Del resto mi sembra che dopo “Gatto nero, gatto bianco” (1998) con il passaggio al secolo corrente Kusturica abbia perso un po’ della sua verve, non riesca più a stupire come agli inizi (e questa è una situazione comune a tanti) e spesso è ripetitivo. Per “La vita è un miracolo” direi che a tutto ciò si aggiunge il fatto di aver prodotto un film di 2 ore e mezza (molto stiracchiate) a metà fra due temi: la ferrovia e la guerra. Con poco sforzo avrebbe potuto realizzare due film probabilmente migliori.
Come suo solito, K. tratteggia tanti personaggi un po’ sopra le righe e propone trovate divertenti, molte con un po’ di humor nero (necessario per ridere della guerra) ma in questo film sono gli animali quelli che giocano un ruolo importante e sono molto ben gestiti. Cane, gatto e asino sono dei veri protagonisti, ma anche oche, galline, aquila e cavallo fanno la loro brava figura.
Senz’altro troppo lungo per ciò che narra,ha dalla sua tante belle le riprese esterne (in particolare i campi lunghi) e buone le musiche anche se non certo al livello di quelle di Goran Bregovic.
 

53 “Zatôichi” (Takeshi Kitano, Jap, 2003) * con Takeshi Kitano, Tadanobu Asano, Yui Natsukawa  * IMDb 7,6 RT 91% * 4 premi a Venezia + Nomination Leone d'Oro
Il personaggio del massaggiatore cieco, abilissimo con la spada, giocatore d’azzardo e difensore dei deboli fu creato dallo scrittore giapponese Kan Shimozawa. Il successo di Zatôichi fu tale che l’autore continuò a scrivere delle sue imprese, che furono poi utilizzate come soggetti di quasi 30 film (questo di Kitano è il più recente di tutti), per non parlare delle 100 puntate (in 4 annate) di un serial trasmesse dalla televisione giapponese fra il 1974 e il 1979.
Dopo la pausa presasi con “Dolls” (nel quale non compariva fra gli interpreti) Takeshi Kitano torna ad essere protagonista-sceneggiatore-regista e mette insieme elementi molto disparati, sempre con il suo tocco umoristico, per poi stupire con l’assolutamente insolito finale quasi Bollywoodiano, con un tocco di tiptap musical americano, che pone termine a una vicenda ambientata nel Giappone della prima metà del ’800, segnata da innumerevoli morti a fil di spada e duelli lampo fra ninja, samurai e ronin con gran spargimento di sangue. Oltre al “gran finale”, sono degne di nota anche altre due scene “anomale” a ritmo di musica: quella dei contadini che zappano e quella della ricostruzione della casa andata a fuoco.
Come scrissi ieri a proposito di “Dolls”, quello fu l’ultimo film per il quale Kitano si affidò all’ottimo Joe Hisaishi e con “Zatôichi” inizia la sua collaborazione con Keiichi Suzuki (oltre a questo, altri 4 film insieme).
Pur essendo stato il maggior successo di Kitano, e pur piacendomi, mi ha convinto meno degli altri ... mi sono mancati i silenzi e le pause ...
 

52 “Dolls” (Takeshi Kitano, Jap, 2002) * con Miho Kanno, Hidetoshi Nishijima, Tatsuya Mihashi  *  IMDb 7,7 RT 87%  *  Nomination Leone d'Oro a Venezia 2002
Film molto diverso dai precedenti, del quale Kitano è solo regista e sceneggiatore, ma non protagonista, l’ultimo in assoluto con i commenti musicali di Joe Hisaishi (peccato, mi piaceva tanto), il primo con poco sangue, in cui la yakuza c’entra solo molto marginalmente. Tre storie di folle amore eterno o amore e follia le cui strade si lambiscono, seppur per pochi momenti e per eventi fortuiti.
Film estremamente “poetico” che mi ha ricordato tanto Almodóvar per la quantità e varietà di rossi che Kitano include nelle sue inquadrature.
Si apre e si chiude con i burattini (dolls del titolo) del teatro Bunraku che, nel finale, replicano l’andare dei due protagonisti, legati con una corda ... ovviamente rossa.
Da non perdere, e sarà una gran bella sorpresa se per voi finora valeva l’equivalenza (falsa) Takeshi Kitano = violenza e sangue.

51 “Brother” (Takeshi Kitano, Jap, 2000) * con Takeshi Kitano, Claude Maki, Omar Epps  *  IMDb 7,2 RT 48%
Fra “Sonatine” (del quale ho appena scritto) e “Brother” Kitano realizzò altri 4 film fra i quali uno dei puoi più famosi “Hana-bi” (1997, Fiori di fuoco), Leone d’Oro a Venezia. A quanto ne so, dovrebbe essere l’unico film girato in “occidente”, ed esattamente a Los Angeles, USA.
Ciò fornisce a Kitano (nei panni dello spietato Aniki Yamamoto, opportunamente allontanatosi dal Giappone) l’occasione di scontrarsi con tutti gli altri gruppi criminali locali, dai messicani ai mafiosi italiani, portando al momentaneo successo il fratellastro che lo ospita e la sua (inizialmente) scalcagnata banda.
In particolare in questo film, mette in mostra la sua abilità di commediante, prendendo in giro un po’ tutti, con il volto sempre impassibile, mosso solo da un tic.
Non fra i migliori di Kitano, tuttavia divertente, con ottimi momenti di humor nero, movimentato, ben costruito e con tante buone caratterizzazioni di personaggi non orientali.

Per informazioni generiche, tecniche e recensioni  dei film consiglio di consultare i seguenti siti:

IMDb (Internet Movie Database) : il più completo, la Bibbia del Cinema, con archivio di 3.5mln di titoli e quasi 7mln di nomi (in inglese)

Rotten Tomatoes : meno dati di IMDb, raccoglie soprattutto recensioni in rete, quindi carente su film datati (in inglese, con numerose recensioni in spagnolo)

Film Affinity/es : trovo che sia il più completo per quanto riguarda film spagnoli e dell'AmericaLatina (in spagnolo)

Allo Ciné : sopratutto cinema francese, ma non solo (in francese)

 Upperstall.com  : specializzato in cinema indiano. uno dei più frequentati al mondo fra i siti che si occupano di cinema  (in inglese)

per ricevere o fornire informazioni cinematograiche potete scrivermi a giovis@giovis.com

     

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