400 “Tarde para la ira” (Raúl Arévalo, Spa,
2016) tit. it. “La vendetta di un uomo tranquillo” * con Antonio de
la Torre, Luis Callejo, Ruth Díaz
IMDb 6,8 RT 100% * Ruth Díaz premiata a Venezia come migliore
attrice e Nomination Leone d’Oro per Raúl Arévalo
Proiezione speciale del 44° Festival de Huelva - Cine Iberoamericano
Classico revenge movie, narra di una vendetta a lungo pianificata e
infine portata a termine con freddezza e decisione. Il protagonista
è Antonio de la Torre, uno dei migliori attori spagnoli di questo
decennio, già protagonista di “La isla minima” (2016), “Que Diós nos
perdone” (2016) e del recentissimo e apprezzato “La noche de 12 años”
nel quale interpreta Pepe Mujica, poi divenuto Presidente
dell’Uruguay.
Film di genere ben realizzato, vale la pena di guardarlo.
399 “Mañana no te olvides” (José Enrique Pintor, Dom, 2017) * con
Stephany Liriano, Johnnie Mercedes, Francis Cruz
Sezione ufficiale del 44° Festival de Huelva - Cine Iberoamericano
A partire da una buona idea di combinare due persone con oggettivi
limiti (nonno con Alzheimer e nipote con sindrome di Down), quasi
rifiutati da genero/padre e invece sostenuti per quanto possibile da
figlia/madre, José Enrique Pintor riesce a perdere l’occasione di
realizzare un buon film di poco più di un’ora allungandolo a quasi
due ore con inevitabili ripetizioni e scadendo nell’eccessivo
sentimentalismo. Ovviamente la neo-coppia, inseguendo sogni di
indipendenza e tentando di portare a termine la propria lista di
desideri, combinerà qualche pasticcio ma fornisce anche vari spunti
da commedia.
Non male, bravi interpreti, ma in sostanza un’occasione persa.
398 Cortometrajes Nacionales (aavv, Spa, 2017-18) *
Sezione ufficiale del 44° Festival de Huelva - Cine Iberoamericano
I 10 corti spagnoli selezionati mediamente si sono rivelati meno
interessanti di quelli internazionali, il ché è abbastanza logico.
Fra un paio di documentari, un paio di film animazione e gli altri
che variavano dal drammatico alla commedia, sono da segnalare:
* El prenauta (Elías Pérez, 2018, 19’) - impegnativo corto in
costume, che racconta l’evento (storicamente non confermato) di un
incontro di Colombo con un naufrago che per puro caso aveva
attraversato l’Atlantico e aveva con sé una maschera di legno che
dimostrava l’effettivo incontro con altra cultura. Ciò sarebbe stato
quindi l’evento che avrebbe spinto il navigatore a perseverare nelle
sue teorie.
* La Lección (Hugo Gómez, 2017, 13’) - interessante corto fra
thriller e black comedy, ma a soggetto molto serio: lo sfruttamento
minorile nelle fabbriche costruite nei paesi poveri dalle grandi
multinazionali.
* Ranchera (Joaquín Gómez, 2016, 6’) - corto veramente corto, toni
da commedia con una discussione composta di battute taglienti fra
due donne, in un’auto.
Notizie e dati di tutti i 10 corti presentati sono in questa pagina
397 “Llanto por un bandido” (Carlos Saura, Spa, 1964) tit. it. “I
cavalieri della vendetta” * con Francisco Rabal, Lino Ventura, Lea
Massari, Philippe Leroy, Luis Buñuel * IMDb 6,8
Ho recuperato questo secondo film di Saura, girato dopo l’esordio
con il buon “Los golfos” (1960, che ricorda vagamente “Los olvidados”
di Buñuel, del 1950) e prima dell’ottimo “La caza” (1966). Questo
“Llanto por un bandido” (con il solito insulso titolo italiano) è
una co-produzione spagnola-francese-italiana con conseguente cast
internazionale di attori noti come Francisco Rabal, Lino Ventura,
Lea Massari e Philippe Leroy, ma conta anche sulla partecipazione
(muta) di Luis Buñuel nella parte del boia (scena iniziale, seconda
foto allegata).
Si riferisce a veri eventi storici quali l’ascesa e morte del
bandito gentiluomo, quasi un Robin Hood andaluso, “El Tempranillo”
(1805-1833). Non è certo fra i migliori di Saura, ma certamente è
ben realizzato ... penso che sia rimasta l’unica incursione del
regista spagnolo in questo genere che, evidentemente, non gli si
addice.
Da guardare più che altro per curiosità storica, senza grandi
aspettative.
396 “Ana de día” (Andrea Jaurrieta, Spa, 2018) tit. int. “Ana by Day”
* con Ingrid García Jonsson, Fernando Albizu, María José Alfonso,
Iñaki Ardanaz *
IMDb
6,8
La protagonista di questo interessante film è Ingrid García Jonsson,
alla quale è stato attribuito il Premio Luz di questa edizione. Di
famiglia borghese, pronta a completare il dottorato in legge e a
sposarsi improvvisamente si trova spodestata da tutto ciò da una sua
sosia che prende in tutto e per tutto il suo posto. Dopo una prima
reazione incredula, decide di lasciare “all’altra” la sua vita e
iniziarne una nuova ... questa è solo la premessa.
Come è chiaro, la situazione si presta a molte interpretazioni e
vari sviluppi condizionati anche dai vari personaggi che Ana
incontra.
Solo l’ultima parte rimane un po’ confusa in quanto sembra proporre
più soluzioni e il vero finale è enigmatico.
Brava Ingrid García Jonsson, così come i vari coprotagonisti della
sua della sua incredibile storia.
395 “Miriam miente” (Natalia Cabral e Oriol Estrada, Dom, 2018) tit.
int. “Miriam Lies” * con Frank Perozo, Pachy Méndez, Ana Maria Arias
*
IMDb 7,1
Presentata in pompa magna dalla delegazione dominicana come
“denuncia” del razzismo nel proprio paese, si è rivelata essere più
un problema di incomprensione familiare che si va a sommare al
stress del fatidico “coming of age ufficiale” delle ragazze di molti
paesi centroamericani: la festa dei 15 anni. Per le quinzeañeras (le
quindicenni festeggiate) si spende quasi quanto per un matrimonio e
se non si hanno i soldi si fanno debiti. In questo ambito sorge il
problema della mulatta Miriam, che ha tutte amiche “bianche”, che
non vorrebbe festeggiare e che s’illude di avere un ragazzo
(conosciuto in rete) che però è negro (il spagnolo latino non è
offensivo).
Deludente anche quest'altro film dominicano e lo spagnolo Oriol
Estrada, coregista insieme a sua moglie Natalia Cabral, ha smentito
i dati forniti precedentemente in merito alle produzioni dominicane,
dicendo che non arrivano a 30. Forse la delegata del Film Commission
e l’addetto stampa hanno voluto inserire corti, documentari e film
girati nel paese con capitali stranieri ...
394 “Cortometrajes Internacionales” (aavv, vari, 2017-18)
Il miglior corto dei 10 proposti è senza dubbio “Mamartuile”
(Alejandro Saevich , Mex, 2017), una commedia fantasurrealpolitica
di una dozzina di minuti che si sviluppa attorno all’improvvisa
costituzione di una nuova nazione africana che crea un enorme
problema al Messico. Geniale e molto ben realizzata ... prima o poi
sarà disponibile online, penso anche con sottotitoli visto che il
trailer è trilingue (spagnolo, inglese, francese)
Un’altra breve comedia negra meritevole molto graffiante è “La
entrevista” (Fermín de la Serna, Arg, 2017, 12’) ma non al livello
di “Mamartuile”.
Interessanti anche “Inmaculada” (Stephanie Sandoval, Cile, 2018,
16’), uno sguardo ironico sulle tradizionali rappresentazioni
religiose in tempi moderni alle quali vengono quasi obbligate le
adolescenti, e il drammatico “Harina” (Joanna Nelson, Ven, 2018,
15’) che narra del dramma (piccolo nella tragedia generale) della
ricerca di un poco di farina per preparare un piccolo dolce di
compleanno.
Notizie e dati di tutti i 10 corti presentati sono in questa pagina
393 “Restos de viento” (Jimena Montemayor, Mex, 2017) tit. int.
“Wind Traces” * con Dolores Fonzi, Paulina Gil, Ruben Zamora * IMDb
7,1
Jimena Montemayor, al suo secondo lungometraggio, con questo film
dimostra di avere le idee molto chiare in merito a ciò che vuole
mostrare e al modo in cui lo presenta. Traspare chiaramente il suo
passato da fotografa, anche se in questo caso si limita a essere
regista e sceneggiatrice, lasciando il ruolo di direttore della
fotografia a María Secco.
Dopo un inizio un po’ farraginoso, “Restos de viento” prende
decisamente quota e diventa decisamente un bel film che si sviluppa
fra mistero, psicologia, giochi infantili, dramma familiare.
Bisognerà aspettare fino al termine per mettere insieme tutti i
tasselli di una storia drammatica, piena di buoni sentimenti spesso
mascherati.
Bravi i 3 protagonisti - l’argentina Dolores Fonzi nei panni della
madre e i giovanissimi Paulina Gil (Ana, 10 anni ) e Diego Aguilar
(Daniel, 7 anni) che interpretano i suoi due figli - ma soprattutto
la regista sceneggiatrice Jimena Montemayor.
Più che consigliato.
392 “Las herederas” (Marcelo Martinessi, Par/Bra, 2018) tit. it.
“Le ereditiere” * con Ana Brun, Margarita Irun, Ana Ivanova
IMDb 7,3 RT 96% * alla Berlinale 2018 ha ottenuto 3 premi (FIPRESCI,
Orso d’argento a Ana Brun attrice, Martinessi regista) e 2
Nomination (Orso d’Oro e Opera prima)
Gli allori conquistati a Berlino facevano sperare molto di più. Non
dico che “Las herederas” non sia un buon film, ma mi è sembrato
estremamente lento, abbastanza ripetitivo e privo di vere sorprese;
in quanto alla trama sembra quasi un coming of age molto ritardato
(verso la sessantina).
Senz’altro brava Ana Brun, già attrice teatrale ma avvocato di
professione, alla sua prima esperienza cinematografica. Interpreta
una delle due “ereditiere” (Chela), la più tranquilla e sottomessa,
che parla poco e si aggira silenziosa nella perenne penombra della
grande e - una volta - ricca casa, che con l’avanzare del film viene
mostrata sempre più spoglia. Chela, che è la vera protagonista, vive
una dignitosa decadenza che procede di pari passo con una presa di
coscienza, favorita da vari eventi che ovviamente ometto di
raccontare.
“Las herederas” è uno dei pochi film ufficialmente del Paraguay (si
parla di 5 o 6 l’anno) ma in effetti si tratta di una coproduzione
che coinvolge tanti altri paesi quali Germania, Uruguay, Brasile,
Norvegia e Francia. Qualcuno a proposto questo quesito: “Dove sono
finite tutte queste risorse?”.
Anche per il regista Marcelo Martinessi questo è stato il primo
lungometraggio.
Interessante visione.
391 “Viaje al cuarto de una madre” (Celia Rico Clavellino, Spa,
2018) tit. int. “Journey to a Mother's Room” * con Anna Castillo,
Lola Dueñas, Pedro Casablanc * IMDb 6,7 RT 100% *
2 Premi a San Sebastian (regista esordiente con menzione speciale e
Premio dei giovani)
Film interessante, con una buona sceneggiatura ma fra le due
protagoniste (madre e figlia, da poco rimaste vedova/orfana) non
saprei scegliere qual è la più deprimente a causa delle loro
continue ansie e indecisioni. La solitudine e il troppo affetto non
producono buoni risultati.
Grande attenzione è stata posta nello stile molto originale, anche
se non ho compreso il perché delle scelte della giovane regista
sivigliana, al suo primo lungometraggio del quale è anche
sceneggiatrice. Non ci sono movimenti di macchina, né zoom; me ne
sono reso conto dopo una decina di minuti e pur prestando attenzione
ho notato un solo lieve movimento verso la fine. Quasi tutto i film
è girato in interni abbastanza scuri (nel piccolo appartamento nel
quale vivono le protagoniste) e nella maggior parte dei casi le
riprese sono d'infilata sfruttando porte aperte. Inoltre, in queste
inquadrature fisse (spesso lunghe) molto resta fuori campo ma
l'assenza di azione e/o personaggi è compensata dai rumori che
indicano ciò che succede intorno o nella stanza attigua. Non c’è
commento sonoro. Purtroppo dovevo correre a guardare il film
successivo in altra sala e non ho potuto chiedere delucidazioni
Celia Rico Clavellino, che era presente. Spero di poterlo fare
domani.
Meritevole, aspettiamo a vedere cosa ci riserva Celia Rico
Clavellino con il suo prossimo film.
390 “Hermanos/Siblings” (Laura Plancarte, Mex/UK, 2017) * doc
In questo documentario Laura Plancarte mette insieme tanti punti di
vista di cittadini americani, messicani clandestini e messicani
regolari in USA. All’inizio e alla fine dà voce a tutti in una
specie di collage, mentre nella parte centrale, più lunga e
approfondita, segue il viaggio di due fratelli Chuy e Chato
(deportati in via definitiva dagli USA) che vanno ad incontrare la
madre, che invece è lì regolarmente residente, alla frontiera di
Tijuana, e parallelamente il viaggio di Vanessa (50enne americana
che ha perso casa e lavoro) dalla California al Montana (suo stato
di origine) e ritorno.
Tutti parlano del sogno americano, ma si scopre ben presto che i
fratelli sono stati in galera e poi espulsi per traffico di droga e,
in un certo senso, rimproverano alla madre di averli abbandonati.
Invece Vanessa si dimostra razzista che ce l'ha con messicani,
nativi indiani ecc, religiosa quasi invasata, repubblicana sfegatata
che sostiene che neanche un dollaro delle tasse degli americani
dovrebbe essere speso per assistenza a immigrati.
Interessante scontro di culture ... una donna dice che la peggior
cosa al mondo è quella di nascere in Messico, in un pueblo indigena
e donna; Vanessa, al contrario, sostiene che stanno meglio immigrati
e ancor di più i nativi americani ai quali vengono forniti terreni,
case, assistenza e sovvenzioni mentre i caucasici non hanno niente
di tutto ciò (stranamente non tira in ballo gli afroamericani).
389 “El Piedra” (Rafael Martínez Moreno, Col, 2018) * con Manuel
Álvarez, Isaac Martínez, Denis Mercado Moreno
Ennesima storia di boxe, ma molto diversa dalle altre. Si tratta di
quei film che non insiste inutilmente su combattimenti che talvolta
sembrano infiniti e occupano gran parte del tempo, ma parla della
vita di alcuni dei protagonisti. In questo caso, il principale non è
un aspirante campione ma un pugile a fine carriera che sopravvive
con il lavoro di moto-tassista. Un solitario, conosciuto e benvoluto
nel quartiere popolare dove vive a Cartagena, nota come capitale
della boxe colombiana.
Come altri film latini, anche questo è molto realista e fra i tanti
interpreti non professionisti molti sino ex pugili, di sicuro non
campioni ma certamente leggende locali. Interpretano sé stessi,
mentre passano il tempo chiacchierando sotto un portico a fronte
strada o nella palestra e compaiono in scene volutamente quasi
documentaristiche.
Non svelo niente dicendo che il punto di svolta è l'improvvisa
apparizione di un ragazzino che afferma di essere figlio del pugile
e che è venuto a cercarlo essendo rimasto orfano. Il regista si
concentra quindi quasi esclusivamente sul lato umano di questo
rapporto che fin dall'inizio si presenta difficile. Ci sono anche
varie trame secondarie interessanti e il tutto è calato in un
interessante ambientazione, descritta con inquadrature accorte e
bella fotografia, commentata da una piacevolissima e singolare
colonna sonora, ben distante dai ritmi caraibici che ci si potrebbe
aspettare.
L'insolito e nuovo rapporto fra il pugile e il ragazzo in alcuni
momenti mi ha ricordato "Moonlight" (Oscar 2017) ma, a dire il vero,
questo "El Piedra" mi ha convinto ed è piaciuto di più.
Manuel Álvarez (El Piedra nel film) è stato pugile professionista,
ha fatto parte della nazionale colombiana e ha vinto vari titoli, ma
è al suo esordio (più che positivo) nel campo del cinema all’età di
48 anni. Il 13enne Isaac Martínez Cortez (13 anni) è cantautore in
erba, ma già relativamente conosciuto.
A chi comprende lo spagnolo suggerisco la
lettura di questo interessante articolo
388 “Lotoman 003” (Archie Lopez, Dom, 2014) * con Raymond Pozo e
Miguel Céspedes, Elizabeth Ruiz, Fernando Carrillo, Julián Gil
IMDb 6,8 * Sezione “Comedia iberoamericana” del 44° Festival de
Huelva - Cine Iberoamericano
Altra commedia dominicana con Raymond Pozo e Miguel Céspedes (i
protagonisti della serie Tuberculo), terzo episodio della saga
Lotoman, di argomento fra il familiare e i film d'azione ma, a
dispetto del pur esagerati personaggi Tubercolo e il suo vice non
riesce neanche a fare una decente satira. Molto scadente.
Sarà pur vero che in Rep. Dominicana (come affermato in conferenza
stampa d’apertura) si producono tanti film di buona “qualità
tecnica” ma, se questo fosse il livello medio artistico e culturale,
ci si dovrebbe formare una non lusinghiera opinione dei dominicani.
Come giudicare gli italiani in base al successo dei cinepanettoni o
programmi trash televisivi seguiti da milioni di persone ... triste
realtà.
387 “Carmen y Lola” (Arantxa Echevarria, Spa, 2018) * con Rosy
Rodriguez, Zaira Morales, Moreno Borja, Javier I. Bustamante,
Rafaela León * IMDb 7,4 RT 89%
Arantxa Echevarría è stata la prima regista donna spagnola
selezionata per la Quincena de Realizadores del Festival de Cannes,
dove è stata anche candidata alla Golden Camera e alla Queer Palm *
2 Goya
Si può quasi parlare di moderno neorealismo, tutti esordienti i
giovani protagonisti (donne e uomini) solo fra gli adulti qualcuno
contava già qualche sporadica apparizione. Gli ambienti sono
altrettanto originali, il quartiere di Madrid abitato per lo più da
gitani, il mercato, la festa di fidanzamento secondo cerimoniale
tradizionale. Carmen e Lola, la prima già promessa sposa, prendono
coscienza del loro “amore impossibile” in quell’ambiente
patriarcale, pieno di pregiudizi e certo non possono fare un coming
out come succede da altre parti.
Film pieno di sensibilità in merito a tale argomento, di grande
interesse antropologico per tutto il contorno come feste, musica,
balli, vestiti, regole non scritte, aspirazioni “obbligatorie” per
le donne (marito, figli e casa), routine quotidiana, gerarchie
familiari.
Film scritto e diretto da una donna, conta su tante brave interpreti
fra le quali spiccano senza dubbio le due ragazze protagoniste Rosy
Rodriguez/Carmen e Zaira Morales/Lola e la bravissima Rafaela León
nei panni di Flor (madre di Lola), l’intero cast appare vero e
credibile probabilmente grazie al fatto di interpretare quasi sé
stessi.
Drammatico al punto giusto e ben diretto, con tanta camera a spalla
e presa diretta, merita senz’altro l’attenzione dimostrata fin qui
dalla critica.
Non vorrei apparire pessimista, ma penso che purtroppo abbia poche
possibilità di circolare in Italia, non solo per la poca attenzione
dei distributori ma anche per la quasi impossibilità di un
doppiaggio adatto, e si sa che con i sottotitoli i film da noi non
vanno lontano.
386 “El Hijo del acordeonista” (Fernando Bernués, Spa, 2018) trad.
lett. "Il figlio del fisarmonicista" * con Joseba Apaolaza, Eneko
Arcas, Miren Arrieta
La proiezione di stamane, seppur per gli addetti stampa, è stata
prima mondiale di questo film del regista basco Fernando Bernués che
già 7 anni fa aveva adattato l’omonimo romanzo di Bernardo Atxaga
per il teatro.
La storia si svolge i tre periodi distinti ed ha come protagonisti
due amici d’infanzia che vengono mostrati brevemente da ragazzini,
poi ventenni e infine cinquantenni. La storia è quindi molto diluita
nel tempo e non viene proposta in modo lineare bensì con tanti
flashback, forse troppi, con conseguenti cambi di attori per gli
stessi personaggi. Fra quello che viene mostrato dei caratteri degli
stessi, delle loro relazioni e degli eventi si viene a creare una
intrico di dubbi e sospetti che solo alla fine verrà sciolto. In
questo modo “El Hijo del acordeonista” diventa quasi un giallo, con
una suspense che dura fino all’ultimo. Pertanto il regista è
credibile quando afferma che, pur essendo incentrato sui problemi
sociali/linguistici dei paesi di lingua basca (euskera), non è né un
film politico e tantomeno sull’ETA, pur parlando tanto della
repressione franquista nei paesi baschi e del conseguente terrorismo
o lotta armata a seconda di punti di vista, fino all’amnistia del
77, dopo la morte del Caudillo.
Tuttavia, risalta evidente il suo essere chiaramente di parte
indipendentista per l’uso eccessivo (e in buona parte inutile) dell’euskera.
Mi spiego meglio: fin dalle scene iniziali si ascolta più volte la
voce fuori campo del protagonista che parla in basco. Pur essendo
d’accordo che in molti casi è importante, se non fondamentale,
mostrare al pubblico chi parla in una lingua e chi in un'altra, sia
per un fatto di identità culturale sia per far sapere chi capisce e
chi no quello che dicono gli altri, per non parlare del fatto di
ascoltare un tono di voce espressivo e vedere la sincronizzazione
con i movimenti della bocca, nel caso di una voce fuori campo che
parla di idee o ricordi mi sembra del tutto fuori luogo. Assodato
che la versione originale è spagnola, si dovrebbero sottotitolare
solo i dialoghi in differente idioma (in questo caso inglese ed
euskera) e non i pensieri.
Su questo tema ho avuto un vivace “dibattito” (quasi un battibecco):
si pensano parole, idee, ricordi o concetti? Io escludo decisamente
le prime, lui diceva di pensare in euskera ... bah!
Non da ultimo, e pur essendo un acceso sostenitore delle versioni
originali, oltre che controproducente mi pare irriguardoso nei
confronti degli spettatori costringerli a leggere sottotitoli
inutili. Come scritto appena ieri, mi sembra che ormai sia diventata
più che altro una moda quella di utilizzare idiomi non ufficiali che
spesso non hanno una giustificazione nel contesto del film ... uso
necessario se non fondamentale dello zapoteco in “El ombligo de Guie'dani”,
assolutamente inutile e insensato il quechua in “Los últimos”,
valido per dialoghi ma non per i pensieri e ricordi l’euskera in “El
Hijo del acordeonista”.
Mi ha consolato il fatto di trovare d’accordo quasi tutti i critici
e cinefili presenti alla discussione.
385 “Tubérculo presidente” (Archie Lopez, Dom, 2016) * con Raymond
Pozo e Miguel Céspedes, Elizabeth Ruiz, Jorge Pabón * IMDb 6,7
Secondo film con personaggio televisivo Tubercolo prestato al
cinema. Dopo "Los ultimos" ero sicuro che qualunque film mi sarebbe
andato bene e così, pur essendo una commedia caricaturale e
semidemenziale tendente al cartoonish, "Tuberculo presidente" mi è
apparsa più che passabile, fra qualche caduta di stile e varie
divertenti originali gag che si rifacevano quasi alle comiche del
muto, ma il regista Lopez è riuscito a inserirci anche una citazione
di "Shining" (la nipotina di Tuberculo che scorrazza nei corridoi
del palazzo presidenziale con il so triciclo) ed una scena di ballo
collettivo in puro stile Bollywood. Oltre a ciò, non mancano
intrighi, attentati, love story, sorprese e il tormentone dei
documenti fraudolentemente fatti firmare al Presidente che non
giungono mai a destinazione per i motivi più assurdi.
Come sottolineato in fase di conferenza stampa di presentazione, si
tratta di un film dominicano per i dominicani, che certamente
possono cogliere tante altre "caricature" del loro modo di essere,
dei loro problemi, del loro modo di esprimersi e, soprattutto, di
mangiare. Tutto ciò spiega molto e, probabilmente, sotto questo
particolare punto di vista coglie nel segno.
Forse lo sto sopravvalutando ma, pur considerando genere, budget e
pretese completamente differenti, rispetto a "Los ultimos" è quasi
da Oscar ...
384 “Los últimos” (Nicolás Puenzo, Arg, 2017) * con Juana Burga,
Peter Lanzani, Alejandro Awada, Natalia Oreiro
Sci-fi argentino con mania di grandezza, ma di scarso livello.
Veramente pessimo, senza né capo né coda, continuità zero, sonoro
per lo più con sottofondo di esplosioni, motori di elicotteri e
altri rumori di guerra, dialoghi penosi, recitazione abbastanza
scadente e potrei continuare ... di positivo ci sono solo le
significative riprese dell'ambiente, sia quello ancora naturale
delle aree desertiche andine ricchissime di minerali fra Bolivia e
Cile, sia quello delle miniere e cave abbandonate, con macchinari in
pezzi e arrugginiti e acque luride dai colori molto inquietanti.
Nella conferenza stampa è stato presentato come una visione di un
prossimo futuro, quando ci saranno problemi di carenza di acqua,
migrazioni e guerre, ma non riesce a far capire chi è chi è per cosa
combattono i tanti militari con sofisticatissime armi nel bel mezzo
del niente.
Forse per questioni di marketing è stata scelta come protagonista la
top model peruana Juana Burgo che forse è quella che recita meglio
pur essendo all’esordio e in questo caso ha il physique du rôle
essendo al limite dell'anoressia (come tante modelle).
Anche in questo film, come “El ombligo de Guie'dani” (di ben altro
livello), si è scelto di usare una lingua indigena (il quechua) per
mettere altra carne a cuocere (oltre ambiente, guerre, ecc., anche
le minoranze linguistiche) ma senza nessun criterio.
Da evitare accuratamente.
383 “El carnaval de Sodoma” (Arturo Ripstein, USA, 2006) tit. it.
“Il ladro” * con Marta Aura, María Barranco, Alejandro Camacho
*
IMDb 6,3
In una giornata di pioggia, fra un film e l’altro del Festival di
Huelva, non mi è restato altro da fare che guardare un film ....
Così ho recuperato un altro film di Ripstein, uno dei più
rappresentativi registi messicani pur essendo molto poco
convenzionale, del quale ho già parlato più volte, nel 2015 premiato
per i suoi 50 anni di attività a Venezia dove presentò il suo "La
calle de la amargura" e la versione restaurata di “Un lugar sin
limites” (1977). Anche in questo caso Ripstein si/ci immerge in un
mondo al limite della società, che mi ha ricordato il film appena
citato, un ambiente di prostitute, magnaccia, e piccoli criminali
nel quale il regista sembra trovarsi a proprio agio. Si tratta di
una storia al limite del surreale che si svolge quasi interamente al
Royal, un bordello messicano di infimo ordine (anche se con qualche
pretesa di grandezza) gestito da un cinese.
Al di là della storia, adattamento dell'omonimo romanzo di Pedro
Antonio Valdéz, affermato autore dominicano oggi 50enne, fra i più
importanti della nuova generazione dell'America Latina, Ripstein
affascina per le sue ambientazioni, per i colori, per le storie al
limite del surreale, per i movimenti di macchina, riprese da angoli
insoliti. Film quasi corale nel quale si incontrano e si scontrano
preti che vorrebbero essere beatificati, prostitute, una presunta
principessa, tanti travestimenti, un burocrate venditore di veleno
per topi, aspirante ballerino, un poeta fissato con gli
endecasillabi che aspira a vincere almeno un concorso, e altri
“strani” clienti, mentre all’esterno il vicinato manifesta per far
chiudere il Royal.
Tipico film di Ripstein, non fra i suoi migliori, ma certamente ben
girato e geniale grazie soprattutto ai personaggi creati da Pedro
Antonio Valdéz.
382 “El ombligo de Guie'dani” (Xavi Sala, Mex, 2018) tit. or.
“Xquipi' Guie'dani” * con Sótera Cruz, Érika López
In Messico è stato giudicato come una visione più realistica delle
condizioni delle tante donne indigenas che da decenni, se non
secoli, si trasferiscono nella capitale per lavorare come domestiche
o balie nelle case dei ricchi, come le afroamericane negli USA
almeno fino a metà secolo scorso.
Tema simile a quello proposto anche da Alfonso Cuarón nel suo tanto
atteso "Roma", da molti visto come troppo edulcorato e buonista, per
di più dalla parte dei "datori di lavoro". Pur volendo considerare i
periodi ben differenti, anni '70 vs tempi attuali, "El ombligo"
propone tutt'altro punto di vista, anche e soprattutto per l'età
della protagonista (13 anni), in una moderna e frenetica Ciudad de
Mexico.
Molto brava l'esordiente Sótera Cruz e anche Érika López che
interpreta sua madre, probabilmente avvantaggiata dall'aver vissuto
simile situazione.
Come tanti altri film iberoamericani, il film ha un suo impegno
sociale, schierandosi dalla parte delle “minoranze linguistiche” (ma
quelli che parlano zapoteco sono circa 1 milione), ben 68 idiomi
diversi in Messico.
Singolare e ben rappresentato il contrasto di sentimenti della
protagonista, che mira ad una maggiore libertà ("non voglio essere
una schiava come te" dice alla madre) eppure vuole continuare a
parlare zapoteco, mangiare con le mani e, soprattutto, tornare a
vivere nel piccolo pueblo. Contraddizioni classiche da adolescente,
specialmente se un po' ribelle come Guie'dani, aggravate dalle
grandi differenze fra la vita frenetica e ricca della capitale e
quella tranquilla, semplice e naturale della comunità indigena. La
prima frase di Guie'dani arrivando a CDMX è "Perché corrono?".
Tanti sono i contrasti evidenziati fra i diversi modi di vivere, di
mangiare, di comportarsi, con un substrato di profondo razzismo da
parte dei "padroni", seppur mascherato da una gentilezza più che
altro formale.
Il regista (anche produttore e sceneggiatore) ha effettuato anche un
gran lavoro sul sonoro tentando (e in linea di massima riuscendo) di
mostrare la percezione dei discorsi della famiglia da parte di chi
sta in cucina o è impegnato in altre faccende domestiche ... e non
c’è commento sonoro extradigetico.
Peccato per l'eccessiva lungaggine (e esagerazione) della parte più
banale e prevedibile, già vista in tutte le salse, in tutti i tempi.
Dopo gli eventi più che impattanti che si susseguono rapidamente
negli ultimi minuti del fil, Sala lascia il finale aperto su un
ennesimo sguardo solo apparentemente perso di Guie'dani, ma
assolutamente concentrato su ciò che deve ancora accadere future
scelte.
PS - Nella cultura indigena, l’ombelico rappresenta l’origine.
381 “Aos teus olhos” (Carolina Jabor, Bra, 2018) tit. int.
“Liquid Truth” (trad. “Verità liquida” * con Daniel de Oliveira,
Marco Ricca, Malu Galli *
IMDb 6,7
La sceneggiatura è tratta dal lavoro teatrale del catalano Josep
Maria Miró “Il principio di Archimede” (2011) e, come anticipato nel
post di ieri, l'argomento non può non far tornare in mente “Jagten”
(aka “The hunt”, “Il sospetto”, di Thomas Vintenberg, Dan/Sve, 2012,
Nomination Oscar, 102° nella classifica IMDb di tutti i tempi, con
Mads Mikkelsen), ovviamente a chi si interessa di cinema.
Dopo la conferenza stampa avevo avuto modo di parlare personalmente
con la regista la quale mi ha detto di conoscere certamente il quasi
omologo danese, ma di aver focalizzato l'attenzione sull’eterna
presenza del "dubbio" (da cui il titolo “Liquid Truth”) e sulle
conseguenze potenzialmente devastanti delle fake news che si
propagano in poche ore, assolutamente fuori controllo.
Pur avendo voluto inserire questi due elementi e avendo costruito un
bel film con il giusto crescendo e suspense, la storia di base
ricalca troppo quella di “Jagten” (anche se in quel caso veniva
mostrato ciò che era successo realmente) e occupa troppo spazio nel
film. Nonostante le suddette due sostanziali differenze perde quindi
l’occasione di approfondire sia la gestione del dubbio, sia l’uso
spesso sconsiderato delle reti sociali che nelle mani di
irresponsabili, se non malintenzionati, creano situazioni
drammatiche e/o di vero e proprio pericolo visto che pare assodato
che la maggior parte degli utenti non esercitano nessun filtro
critico a ciò che leggono e lo condividono con tante alte persone
senza sapere assolutamente niente dei fatti reali.
“Aos teus olhos” (lett. “Ai tuoi occhi”) è senza dubbio un buon film
drammatico ed è anche giusta la scelta di lasciare il pubblico nel
dubbio non mostrando niente di inequivocabile, ma seminando tanti
piccoli indizi di segno opposto e infine terminando il film
all’improvviso.
Carolina Jabor, al suo secondo lungometraggio, conferma quanto ho
letto di buono sul suo conto in merito al suo esordio; resta solo il
rimpianto di un non perfetto bilanciamento fra i giusti timori dei
genitori in merito alla pedofilia, la gestione di dubbi e accuse, la
potenziale pericolosità delle reti sociali.
380 “El Proxeneta. Paso corto, mala leche” (Mabel Lozano, Spa, 2018)
* documentario, con Miguel El Músico
Una strana storia mette insieme tre persone di ambito ben distinto e
ne nasce un libro e un documentario che mette a nudo un mondo che
pochi conoscono realmente e che, comunque, nessuno vuole conoscere
... come se non esistesse.
Proxeneta è chi controlla un giro di prostituzione, più in alto dei
semplici papponi, lenoni o magnaccia che dir si voglia. Negli ultimi
decenni è anche chi gestisce il traffico di donne. Quello in
questione, protagonista/narratore del documentario, è El Músico, 40
anni di esperienza nel settore venuto su dalla gavetta dopo essere
casualmente entrato in contato con questo mondo. La regista Mabel
Lozano (già regista e produttrice di altri documentari sul medesimo
argomento, attivista contro lo sfruttamento delle donne) ricevette
una inaspettata telefonata di uno che si qualificava come
“proxeneta” , pensò a uno scherzo ma subito l’identità fu confermata
da José García, ispettore capo della polizia della sezione speciale
di contrasto a immigrazione illegale e falsificazione di documenti,
che già conosceva. In effetti la Lozano conosceva anche El Músico
con il quale aveva avuto a che fare nel corso delle sue indagini nei
“puticlub” (non penso sia necessario tradurre ...) quando andava a
intervistare le ragazze, ma stavolta il prosseneta voleva
collaborare. Già nel 2006 aveva cominciato a cambiare vita, si era
innamorato aveva messo su famiglia e si era fatto 3 anni di carcere,
ora era disposto a vuotare il sacco esponendo il modo di lavorare
(cambiato negli anni) dei papponi prima e dei gestori di
locali/tratta delle donne poi. Da questa collaborazione è nato un
libro e successivamente questo documentario. In un primo momento
regista e "musico" erano d'accordo a non mostrare il suo volto, ma
dopo appena una settimana di riprese lo stesso prosseneta cambiò
idea e decise di farsi riprendere.
Il documentario, dal punto di vista di riprese e montaggio non è un
granché, ma la sceneggiatura, i racconti di Miguel e i suoi
commenti, salaci e sagaci allo stesso tempo, sono di estremo
interesse non risparmiando nessuno, dalle autorità fino a sé stesso.
In uno di questi commenti dice appunto che il prosseneta per
sopravvivere deve procedere con cautela (paso corto), essere
lungimirante (vista larga, eliminato dal titolo) ed essere un infame
(mala leche) anche con i suoi colleghi. Spiega come questo enorme
giro di denaro (a livello mondiale pare sia secondo solo a quello
del traffico di armi lasciando la droga al terzo posto) sia
controllato tramite avvocati, notai, banche, prestanome e politici e
che non è neanche necessario corrompere questi ultimi in quanto
hanno le stesse idee.
Chiaramente racconta tante altre storie, illustra nel dettaglio lo
sviluppo di questi club, la costituzione del “sindacato” ANELA (Asociación
Nacional de Empresarios de Locales de Alterne) per la legalizzazione
della prostituzione, le pressioni psicologiche, i modi per apparire
bravi cittadini che agiscono nella legalità e sono addirittura
filantropi.
A prescindere dall’aspetto puramente tecnico, Mabel Lozano
certamente merita un plauso per la produzione di questo documentario
“divulgativo” che va ad aggiungersi alle tante altre sue attività a
beneficio delle donne sfruttate.
379 “La musica di Gion” (Kenji Mizoguchi, USA, 1953) tit. or. “Gion
Bayashi”, tit. int. “A Geisha” * con Michiyo Kogure, Ayako Wakao,
Seizaburô Kawazu *
IMDb 7,7 RT 94%
Confermo quanto scritto un paio di giorni fa in merito a Mizoguchi,
affidabile, preciso, meticoloso, interessante ma non abbastanza
creativo. Un eccellente professionista, ma non un artista geniale.
In questo caso propone una storia simile ad altre già viste,
l’iniziazione di una geisha e i suoi primi (soliti) problemi, fra
clienti intraprendenti, patroni e mistress. Queste ultime, di solito
ex-geishe affrancate, troppo anziane per essere di primo livello, si
rivelano essere spesso molto peggiori dei loro omologhi maschili.
Ennesimo interessante studio di certi particolari ambienti della
società giapponese di metà secolo scorso.
378 “The Wrong Man” (Alfred Hitchcock, USA, 1956) tit. it.
“Il ladro” * con Henry Fonda, Vera Miles, Anthony Quayle * IMDb 7,5
RT 91%
Come lo stesso Hitchcock spiega agli spettatori nel corso della
scena d'apertura, il soggetto è tratto da eventi reali avvenuti
pochi anni prima, fatto ribadito nei titoli di coda, nei quali si
aggiungono anche informazioni sui successivi sviluppi.
Qualche settimana fa evidenziai la cattiva indicazione fornita dal
titolo " Folle rapina a Città del Messico" in quanto si trattava di
un furto (e oltretutto il tit.or. era semplicemente "Museo"), in
questo caso il tit. it. è "Il ladro" ma si tratta di un rapinatore e
comunque dell'”uomo sbagliato”, trad. lett. dell'originale "The
Wrong Man", nella maggior parte degli altri paesi ben tradotto o
variato in "falso colpevole" che almeno ha attinenza con la trama
... ci dobbiamo sempre far conoscere!.
Dopo questa dovuta, anche se tutt’altro che indispensabile premessa,
vengo al film che assomiglia più a un noir che a un thriller (di
thrilling non c'è quasi niente), con qualche concessione ai generi
court movie, drammatico e romantico. Lungi dall'essere un prodotto
in puro stile hitchcockiano, resta una buona esecuzione (tuttavia
poco avvincente) che conta più che altro sull'ottima performance di
Henry Fonda, nonché di comprimari come Anthony Quayle, Vera Miles e
Esther Minciotti, specializzata nei ruoli di madre italiana (come
p.e. in “Marty”, 4 Oscar, 1956, di Delbert Mann).
E con questo ho completato anche la filmografia di Hitchcock; vale a
dire tutti i suoi film esistenti (muti, in b/n e a colori, girati in
UK e USA). Come forse i più sanno, di “The Mountain Eagle” (1926)
non esistono copie ma pare che non si sia perso molto in quanto lo
stesso Hitchcock (intervistato da Truffaut) lo definì "awful"
(pessimo, terribile, bruttissimo).
377 “Stage Freight” (Alfred Hitchcock, USA, 1950) tit. it.
“Paura in palcoscenico” * con Marlene Dietrich, Jane Wyman, Richard
Todd, Alastair Simm, Michael Wilding * IMDb 7,1 RT 89%
Trama abbastanza intricata, piena di sorprese, protagonisti e cambi
di scena per permettere a Hitchcock di esibirsi nel creare tante
situazioni di suspense, senza neanche risparmiarsi sulle scene e
personaggi più che umoristici (l’uomo del pub, la donna alla fiera,
...).
Il padre della protagonista (Jane Wyman), interpretato
dall’ineffabile Alastair Simm, appena venuto a conoscenza dei
problemi e preoccupazioni della figlia, pronuncia una frase
emblematica (purtroppo vera sempre ed in assoluto) che spiega come è
arrivata a quel punto (e altro deve ancora accadere): “la stupidità
è contagiosa!”.
Pur non essendo un’opera maestra, è un film molto ben congegnato,
diretto e interpretato, dallo sviluppo molto rapido, senza pause di
sorta. Più si procede e più intrecciati divengono i rapporti fra i
protagonisti, vari dei quali si spacciano per quelli che non sono,
per le tante bugie che ovviamente tentano di coprire con ulteriori
menzogne.
Perfetta Marlene Dietrich nel ruolo della perfida e cinica femme
fatale, ma anche tutto il resto del cast è scelto opportunamente e
offre egregie interpretazioni.
Senz’altro solido thriller “leggero”, molto piacevole fra il
divertente e l’avvincente, e quindi meritevole di una visione.
376 “Mr. & Ms. Smith” (Alfred Hitchcock, USA, 1941) tit. it.
“Il signore e la signora Smith” * con Carole Lombard, Robert
Montgomery, Gene Raymond
IMDb 6,5 RT 65%
Slapstick comedy, unica del genere nella filmografia di Hitchcock,
non sono riuscito a capire con esattezza chi fu a forzare questa
combinazione molto poco riuscita: la RKO, Carole Lombard o lo stesso
regista. Ho letto varie versioni del misfatto, ma nessuna certa.
Anche la scelta dell’insulsa sceneggiatura (di Norman Krasna) resta
un mistero. Per nostra fortuna, lo stesso anno Hitchcock rinsavì e
diresse “Suspicion”, tornando nel campo in cui è sempre stato un
maestro.
C’è poco da aggiungere, stendo un velo pietoso sulla trama e
giustifico la visione solo per completare la filmografia del
maestro.
375 “Utamaro e le sue cinque mogli” (Kenji Mizoguchi, Jap, 1946)
tit. or. “Utamaro o meguru gonin no onna” * con Minosuke Bandô,
Kinuyo Tanaka, Kôtarô Bandô
IMDb 7,3 RT 100%
Per l'ennesima volta, il titolo italiano è assolutamente fuorviante
rispetto alla storia anche se in effetti cambia una sola parola,
quasi affine. L'originale parla di donne, malamente tradotte "mogli"
ed è importante sottolineare che non si tratta di amanti ma solo di
modelle scelte dall'artista Utamaro che è affascinato dalla bellezza
femminile in sé, ma soprattutto per riprodurla nelle sue stampe e i
suoi disegni. Al contrario, attorno a lui si sviluppa un complesso
intreccio di passioni, fughe, tradimenti e ritorni fino ad un
tragico epilogo.
Film bello e interessante sia per quanto riguarda i rapporti umani
che per la visione dell'arte pittorica.
In quanto a Mizoguchi, personalmente non lo inserisco al top fra i
registi giapponesi classici (che tuttavia hanno avuto i loro alti e
bassi), ma senza dubbio gli riconosco e apprezzo la sua eccelsa
tecnica narrativa, l’assoluta padronanza del set, il controllo delle
inquadrature. Sulla base di quelli che ho visto, trovo che non
sbagli un colpo (non sono mai rimasto deluso da un suo film), ciò
che però mi sembra gli manchi è quel tocco in più della genialità
del grandissimo artista.
374 “Non uno di meno” (Yimou Zhang, Cina, 1999) tit. or. “Yi ge dou
bu neng shao” * con Minzhi Wei, Huike Zhang, Zhenda Tian *
IMDb 7,7 RT 95% * Leone d’Oro e altri 3 premi a Venezia
Seppur di tono molto diverso, anche questo film di Zhang Yimou
gravita in ambito scolastico, in una sperduta comunità rurale, e di
nuovo è assolutamente neorealista, con pochi adulti e tanti bambini.
Dai titoli di coda si scopre che ognuno dei partecipanti nella vita
reale occupa ruoli simili se non identici a quelli interpretati nel
film.
A causa della necessità dell'unico maestro di allontanarsi per un
mese, per sostituirlo temporaneamente il “sindaco” ingaggia una
ragazza di 13 anni, proveniente da un altro villaggio. Oltre ai
prevedibili problemi creati dalla classe mista di oltre 20
giovincelli di età varia (direi dai 4 a i 10) Wei Minzhi (nome del
personaggio e dell’interprete) dovrà andare a recuperare uno dei
suoi alunni scappato in città.
Il film procede fra alti e bassi ma nel complesso l’ho trovato
troppo da libro “Cuore”, non il mio genere, il che rovina la
bellezza del neorealismo, specialmente quello dell’ambiente rurale.
Visti i temi in parte simili e per il fatto di avere stesso regista
e essere dello stesso anno mi risulta impossibile non fare paragoni.
Preferisco nettamente “La strada verso casa” ma “Non uno di meno”,
son tutti i suoi limiti, non è certo da disprezzare.
373 “La strada verso casa” (Yimou Zhang, Cina, 1999) tit. or. “Wo de
fu qin mu qin” * con Ziyi Zhang, Honglei Sun, Hao Zheng
IMDb 7,8 RT 89% * 2 premi a Berlino, oltre alla Nomination all’Orso
d’Oro
Al contrario di ciò che è più comune in casi simili, la narrazione
dei tempi più moderni (inizio e fine film) è girata in bianco e nero
mentre il lungo continuo flashback centrale di quasi un'ora è a
colori e in questa parte Yimou Zhang anticipa un po’ ciò che ci farà
vedere con i successivi film come per esempio “La foresta dei
pugnaili volanti” (2004).
Si tratta di una storia estremamente romantica con l'aggiunta del
rispetto per tradizioni e credenze, nonché l'importanza
dell'educazione anche e soprattutto nelle piccole e isolate comunità
rurali, tema che verrà ripreso anche nel film successivo (dello
stesso anno) "Non uno di meno".
Nel complesso affascinante (per quanto riguarda antropologia
funerale e specialmente per i colori, già un pallino di Zhang Yimou)
trovo che abbia due pecche: in tutta la prima parte del flashback il
regista esagera nel proporre lunghe serie di sguardi appassionati
dell’esordiente Ziyi Zhang (in primo piano) che ben presto diventano
ripetitivi e quindi stucchevoli. La seconda è la scena (troppo lunga
e poco credibile) dell'"inseguimento" del calesse.
La maggior parte del cast è composto da non professionisti, i reali
abitanti del villaggio.
Sostanzialmente più che buono. Da guardare.
372 “Lucky” (John Carroll Lynch, USA, 2017) * con Harry Dean
Stanton, David Lynch, Ron Livingston, Tom Skerrit * IMDb 7,4 RT 98%
Che gran bel film!
Semplice eppure profondo, sarcastico e a tratti commovente, arguto e
cinico, ... un gioiello del cinema indipendente contemporaneo,
prodotto con un budget molto ridotto, senza nomi altisonanti e
praticamente senza set.
Mattatore assoluto è Harry Dean Stanton, al suo 109° e penultimo
film, all’età di 91anni ma in gran forma. Gli esterni ricordano
molto “Paris, Texas” (Wim Wenders, 1984) e sono certo che sia un
voluto doveroso omaggio a quell’altra grande interpretazione di HDS,
in un ottimo film.
“Lucky” segna l’esordio alla regia di John Carroll Lynch dopo oltre
una cinquantina di film (fra i più recenti lo si può ricordare nei
panni del presidente Johnson in “Jackie” (Pablo Larraín, 2016) e di
Mac McDonald in “The Founder” (John Lee Hancock, 2016), ma è bene
sottolineare che non ha alcun legame di parentela con il ben più
famoso David Lynch il quale tuttavia, insolitamente, partecipa a
questo film in un ruolo non proprio secondario.
Lucky è il soprannome del protagonista che, nonostante l’età
avanzata, è del tutto indipendente, vive da solo, segue la sua
routine quotidiana a casa e poi spesa, caffè e 4 chiacchiere con i
soliti amici, la sera al bar per un Bloody Mary. Vari eventi lo
rendono consapevole del fatto che non è “eterno”.
I dialoghi sono brillanti e sorprende la sua prontezza nel cogliere
l’essenza della discussioni e rispondere a tutti in modo pragmatico
e spesso inconfutabile. Pur apparendo un po’ “orso”, è benvoluto da
tutti anche se molti lo provocano proprio per vedere come
controbatterà. C’è chi lo va a trovare a casa per assicurarsi che
stia bene e chi lo invita al compleanno del figlio, festa in puro
stile messicano con tanto di trio mariachi, e nell’occasione HDS si
esibisce (a sorpresa) anche come cantante interpretando la
famosissima (in Messico) “Volver” sorprendendo e commuovendo tutti.
Ottima tutta la colonna sonora, fra musica messicana, country e
bluegrass.
"Lucky" sembra un’esaltazione dello stile di vita di piccola
cittadina dove tutti si conoscono e si preoccupano per il benestare
degli altri, forse utopica pacifica convivenza fra americani di
varie estrazioni sociali e di varie etnie: bianchi, afroamericani e
messicani. In qualche piccola comunità è certamente possibile, forse
esistono tali posti, comunque è bello crederci.
Film da non perdere, soprattutto per adulti, pensionati e anziani
che potranno apprezzare tante sfumature non percepibili dai più
giovani.
371 “The Way Home” (Jeong-hyang Lee, Kor, 2002) tit. or.
“Jibeuro” * con Seung-ho Yoo, Eul-boon Kim, Hyo-hee Dong * IMDb 7,9
RT 75%
Pur partendo da un buon soggetto, mi sembra che Jeong-hyang Lee
abbia esagerato troppo i caratteri dei protagonisti creando un
ragazzino troppo indisponente e scostumato (sostanzialmente stupido)
ed una nonna fin troppo disponibile con chi è venuto a turbare la
sua bucolica tranquillità. Si potrebbe dire che sono altre culture,
ma è evidente che il germe dell’arroganza e dell’assenza di rispetto
non solo nei confronti degli anziani ma anche dei genitori ha
colpito perfino i paesi dell’Estremo Oriente.
Descrizione di un non-scontro generazionale in quanto uno solo dei
contendenti aggredisce e combatte. Praticamente un’occasione persa.
Non proprio male, ma senz’altro deludente rispetto alle attese.
370 “I confess” (Alfred Hitchcock, USA, 1953) tit. it.
“Io confesso” * con Montgomery Clift, Anne Baxter, Karl Malden *
IMDb 7,3 RT 81% * Candidato al Grand Prize a Cannes 1953
Questo è fra i film meno conosciuti del periodo americano di
Hitchcock, e non ne comprendo il motivo ... l’ho trovato ottimo e
certamente migliore di altri ben più famosi. Sembra un misto di vari
generi, tuttavia perfettamente miscelati: court movie, dramma
romantico, thriller, noir e anche altro. Buon cast anche se pare che
Hitchcock avesse richiesto altri interpreti è non gradì molto le
diverse scelte della produzione.
La trama si dipana in modo abbastanza lineare, ma il pregio sta nel
non lasciar prevedere se, come, quando e da chi sarà smascherato
l’assassino, non per bravura di chi investiga (l’ispettore
interpretato da Karl Malden) ma per la rottura del muro di silenzio
che - per motivi molto diversi - si è creato intorno all’omicidio
con il quale si apre il film.
Montgomery Clift interpreta il sacerdote ingiustamente accusato, ma
Hitchcock non calca assolutamente la mano sull’argomento religioso
(in particolare sul segreto della confessione) puntando
esclusivamente sul dilemma: parlerà o non parlerà?
Piacevolissima sorpresa frutto della ricerca dei film meno noti del
maestro del thriller, dopo aver recuperato “Lifeboat” (1944) pochi
giorni fa e in attesa di guardare “The Wrong Man” (1956, con Henry
Fonda e Vera Miles), dopodiché mi mancheranno solo un altro paio di
film per completare la filmografia di Hitchcock, oltre al corto “Bon
Voyage” (1944) e, ovviamente, allo scomparso mediometraggio “The
Mountain Eagle“ (1926).
Se non lo avete visto, vi suggerisco di recuperarlo ... ne vale la
pena!
369 “Rosauro Castro” (Roberto Gavaldon, Mex, 1950) * con Pedro
Armendáriz, Carlos López Moctezuma, María Douglas *
IMDb 6,9 * Nomination Leone d’Oro a Venezia
Classico degli anni ’50, in piena Epoca de Oro del cine messicano,
con protagonista Pedro Armendáriz (uno dei più amati e versatili
attori dell’epoca) affiancato da Carlos López Moctezuma, “cattivo”
per antonomasia, tanto spesso anche perfido, subdolo e malvagio che
in questo film sembra quasi “onesto”.
Interessante variante della solita trama del prepotente che domina
il piccolo pueblo sotto la parvenza di imprenditore a volte buono
(ma solo con alcuni).
Per chi apprezza il genere (e conosce lo spagnolo) è un film da non
perdere. Molti lo considerano uno dei migliori melodrammi rurali.
368 “Legend” (Brian Helgeland, UK, 2015) * con Tom Hardy, Emily
Browning, Chazz Palminteri, Taron Egerton * IMDb 7,0 RT 61%
Biopic dei due famosi gemelli gangster che dominarono a Londra negli
anni '60. Nonostante il buon lavoro di Tom Hardy (che interpreta
entrambi) il film non mi ha convinto del tutto per mettere troppo in
primo piano la loro violenza, che tuttavia certamente non mancava
nei due, un ex pugile e uno psicopatico al limite della schizofrenia
paranoide che non riusciva a controllare i suoi scatti d'ira. Nei
brevi periodi di detenzione prima di quello definitivo misero a
soqquadro anche le prigioni, per il loro comportamento furono
cacciati dall’esercito con disonore, nella vita da gangster non
risparmiavano i loro contendenti o chi pensavano avesse fatto loro
un torto e, soprattutto, lo facevano con piacere tanto da occuparsi
quasi sempre personalmente di tali assunti.
Non posso fare a meno di menzionare un precedente biopic dei due
criminali (del quale ho un miglior ricordo), diretto da Peter Medak
nel 1990, esplicitamente intitolato "The Krays" e interpretato da
due veri gemelli: Gary e Martin Kemp.
“Legend” è senz’altro più che sufficiente (soprattutto per merito di
Hardy), ma non molto di più.
367 “Fahrenheit 451” (François Truffaut, UK, 1966) * con Oskar
Werner, Julie Christie, Cyril Cusack *
IMDb
7,3 RT 82% * Nomination Leone d’Oro a Venezia
Tratto dal noto romanzo di Ray Bradbury, è un film che, volendo
leggere fra le righe, risulta essere estremamente attuale e moderno
nonostante gli oltre 50 anni di età. Il soggetto distopico
fantascientifico anticipa la invadenza della televisione a discapito
della letteratura in un mondo nel quale i libri sono addirittura
totalmente proibiti e per questo bruciati.
Rivisto dopo oltre 40 anni, “Fahrenheit 451” mi è apparso ancora
interessante e soprattutto più che attuale, quasi una molto
lungimirante premonizione dello scrittore, considerato che il libro
è del 1953. Truffaut fa un buon lavoro (specialmente nei primi
3/4 del film), ma gran parte del merito del relativo successo di
“Fahrenheit 451” è senz’altro da attribuire alla fantasia di
Bradbury.
Merita una visione, se non altro per ciò che rappresentò la Nouvelle
Vague francese.
366 “25 Watts” (J. P. Rebella y Pablo Stoll, Uru, 2001) * con Daniel
Hendler, Jorge Temponi, Alfonso Tort * IMDb 7,1 RT 78%p
Film d’esordio dei giovani uruguayani (classe ’74, provenienti dal
settore pubblicitario televisivo) Juan Pablo Rebella e Pablo Stoll,
i quali 3 anni dopo avrebbero scritto e diretto il loro secondo film
“Whisky”, vincitore del FIPRESCI Prize e Regard Original Award e
candidato a Un Certain Regard Award a Cannes, oltre a vincere Ariel,
Goya, e un’altra ventina di premi.
Se quello non mi era piaciuto pur apprezzando qualche particolare
nonché l’idea di fondo del soggetto, questo “25 Watts” mi è sembrato
veramente senza senso, mal girato e privo di contenuti. Si tratta di
una specie di cronaca della routine giornalieri di tre giovani
nullafacenti, privi di aspirazioni e di ideali e piuttosto
sprovveduti. L’ambientazione nella strade desolate, in auto e in
locali poco frequentati, contribuisce a fornire un ambiente al
limite del deprimente ... per ignavia. Lunghe inquadrature fisse
ritraggono i tre intenti a dialogare del niente ...
Non guardandolo non vi perdete niente!
365 “Lifeboat” (Alfred Hitchcock, USA, 1944) tit. it.
“Prigionieri dell'oceano” * con Tallulah Bankhead, John Hodiak,
Walter Slezak *
IMDb 7,8 RT 91% *
3
Nomination Oscar (regia, sceneggiatura e fotografia)
Tutto il film si svolge su una scialuppa di salvataggio sulla quale,
a seguito dell’affondamento di una nave silurata da un sottomarino
tedesco (anch’esso colato a picco), salgono alla spicciolata 9
naufraghi di provenienze e professioni molto diverse. Nei giorni che
passeranno più o meno alla deriva chiaramente la convivenza
diventerà difficile e il gruppo inevitabilmente si assottiglierà.
Come è facile intendere, il canovaccio è ben diverso dai soliti e,
date le limitate dimensioni della barca, Hitchcock sii trova quindi
a dirigere un film drammatico con un set quasi teatrale nel quale,
ovviamente, si deve contare molto sugli attori. Ciononostante riesce
a conferirvi vari tocchi di commedia e il suo solito cameo, ma
considerato l’ambiente e periodo bellico (1944) era inevitabile che
ci fosse anche tanta propaganda accompagnata da luoghi comuni.
Alla sceneggiatura collaborò John Steinbeck, autore anche del
soggetto.
Non fra i migliori del regista (anche per i suddetti oggettivi
limiti), certamente non fra i più famosi, "Lifeboat” resta tuttavia
un prodotto d’autore che merita una visione.
364 “En tiempos de Don Porfirio” (Juan Bustillo Oro, Mex, 1940) *
con Fernando Soler, Joaquín Pardavé, Marina Tamayo, Emilio Tuero
*
IMDb 7,9
Classica commedia messicana degli anni '40 avente fra i protagonisti
principali due famosi attori dell’epoca quali Fernando Soler (ottimo
e versatile) e Joaquín Pardavé (commediante puro).
Stranamente, anche quando non lo faccio di proposito, spesso mi
capita di guardare film che hanno evidenti elementi comuni. In
questo caso, dopo due melodrammi giapponesi di amori eterni e
contrastati, con complicazioni di figli non ufficiali o non
riconosciuti, ho guardato questa commedia messicana della Epoca de
Oro della quale avevo visto un breve spezzone al Museo del
Estanquillo e ho ritrovato una situazione molto simile. Tutto però
tende alla commedia e anche lo spettatore più sprovveduto ben presto
capisce che ci sarà un lieto fine, ma non sa come vi si arriverà.
Fernando Soler veste i panni del gaudente ma dissoluto Don Pancho,
bevitore, giocatore e donnaiolo; il suo antagonista/falso amico è
l’illetterato, avaro e avido Don Rodrigo. Con l’aiuto di Chola
(Dolores Camarillo) Don Pancho dovrà evitare che sua figlia
(illegittima e non riconosciuta) sposi l’anziano Don Rodrigo ... ma
come?.
Pellicola ottima per distrarsi, ma appena sufficiente.
363 “La signora Oyû” (Kenji Mizoguchi, Jap, 1951) tit. or.
“Oyû-Sama” * con Kinuyo Tanaka, Nobuko Otowa, Yûji Hori *
IMDb
7,7 RT 83%p
Guardando questo film di Mizoguchi dopo tanti di Kinoshita, pur
essendo quasi dello stesso periodo (dopoguerra), salta lampante agli
occhi la differenza di stile, di ambientazione e di personaggi (in
particolare per i loro caratteri).
Puro melodramma della ricca borghesia giapponese, come al solito
limitata dalle consuetudini sociali e vincolata da tradizioni, quasi
un menage a trois clandestino ma sotto gli occhi di tutti.
La regia precisa di Mizoguchi (con il suo solito impeccabile stile),
le buone interpretazioni e l’ottima fotografia lo rendono un film
più che buono macon molta meno azione e con sentimenti più blandi
rispetto a quelli ai quali mi aveva abituato Kinoshita: uno di quei
film che hanno contribuito a formare il cliché (negativo per quelli
che non lo sopportano) della cinematografia giapponese classica.
Azzardando un paragone, a confronto del giovane artista Kinoshita,
Mizoguchi sembra essere solo un ottimo artigiano, un artista
versatile ed estemporaneo i cui lavori molto vari possono piacere o
meno.
A mio modesto parere “La signora Oyû” merita comunque una visione.
362 “Los albañiles” (Jorge Fons, Mex, 1976) trad. lett.
"I muratori” “* con Ignacio López Tarso, Jaime Fernández, José
Alonso * IMDb 7,4 *
Orso d’Argento per Jorge Fons e Nomination Orso d’Oro a Berlino 1977
Adattamento del noto romanzo di Vicente Leñero's. Il film inizia con
il misterioso assassinio di Don Jesús (interpretato da Ignacio López
Tarso) il guardiano di un cantiere edile. Apparentemente una persona
buona e disponibile ma, con i successivi flashback, gli spettatori
pian piano scopriranno che erano molti che per una ragione o per
l’altra lo avrebbero voluto vedere morto. Riusciranno i solerti (e
violenti) poliziotti a venire a capo del mistero? Si può dire che in
questo film compaiono quasi tutti gli attori comprimari dell’epoca,
giovani emergenti e bravi caratteristi. L’unico al di sopra della
media è Ignacio López Tarso che si fa valere anche in questo caso.
Quasi 20 anni dopo questo, Jorge Fons avrebbe diretto il suo film
più famoso, “El callejon de los milagros”, basato sul romanzo “Midaq
Alley” dell’egiziano Naguib Mahfouz, Premio Nobel per la
letteratura.
361 “The Scent of Incense” (Keisuke Kinoshita, Jap, 1964) tit. or.
"Kôge” “* con Mariko Okada, Takeshi Katô, Eiji Okada *
IMDb 7,4
Ultimo film della retrospettiva dedicata dalla Cineteca Nacional
Mexico al regista Keisuke Kinoshita (1912–1998), uno dei registi che
componevano il cosiddetto “clan dei 4” insieme con Kurosawa
(1910–1998), Kon Ichikawa (1915–2008) e Masaki Kobayashi
(1916–1996), innovatori del cinema giapponese dell’immediato
dopoguerra.
Al contrario del film precedente (Amore immortale - Eien no hito) in
questo lungo melodramma il legame “insostenibile”, causa di mille
contrasti nel corso di vari decenni, non è matrimoniale ma
madre/figlia. La prima diventa prostituta dopo aver avviato la
figlia alla professione di geisha. Per i già menzionati rapporti
ineludibili della cultura giapponese, le due più volte si ripudiano,
si perdonano, si maledicono, si riuniscono. Anche questo è un bel
film e ancora una volta Kinoshita propone personaggi ben delineati e
sanguigni, sempre pronti al confronto se non allo scontro.
La versione proposta alla Cineteca era quella lunga e completa,
divisa in due parti con titoli diversi, ma proiettati in continuità
per un totale di 3h21'. I personaggi sono gli stessi, tratti da un
romanzo di Sawako Ariyoshi il quale produsse da solo l’adattamento
per la prima parte, con Keisuke Kinoshita quello per la seconda. Su
IMDb le trovate archiviate come due film diversi, in due pagine
differenti:
Nibu: Mitsumata no shô Sawako Ariyoshi (story)
Ichibu: Waremokô no shô
Per l’ennesima volta, mi trovo a ripetere che Keisuke Kinoshita
realizza film di qualità e in questo caso specifico neanche le oltre
3 ore di durata pesano più di tanto. Molto brave le due protagoniste
Mariko Okada (la figlia) e Kinuyo Tanaka (la madre, molti la
ricordano come l'anziana protagonista di Narayama).
360 “Amore immortale” (Keisuke Kinoshita, Jap, 1961) tit. or.
"Eien no hito” “* con Hideko Takamine, Keiji Sada, Tatsuya Nakadai
*
IMDb 7,4 Nomination Oscar miglior film non in lingua inglese
Con questo film Kinoshita ottenne la sua unica Nomination all'Oscar
che tuttavia fu assegnato a “Come in uno specchio” (di Ingmar
Bergman).
Qualche giorno fa commentai l’idoneità e l'originalità della scelta
dei brani e in questo caso si supera introducendo nientemeno che
pezzi di flamenco, con chitarra e castañuelas; di tanto in tanto ci
sono anche parti cantate (in giapponese) che tuttavia più che il
flamenco ricordano i cantastorie, sia per il ritmo che per il
contenuto che si riferisce puntualmente agli avvenimenti mostrati.
“Amore immortale” è un ottimo dramma che narra la tormentata storia
di due amanti, per vari motivi separati dalla guerra e dai soliti
pregiudizi o leggi sociali non scritte. Pur avendo questa linea
conduttrice, il film non è per niente banale in quanto si concentra
più sull'odio fra i due coniugi dopo il matrimonio forzato che non
fra l'amore fra i due fidanzati di un tempo. E la guerra e le
convenzioni continuano a far danni per tutta la durata del film, che
copre un arco temporale di circa 30 anni.
Più che consigliato, anche per l'ottima performance della solita
Hideko Takamine.
359 “Thus Another Day” (Keisuke Kinoshita, Jap, 1959) tit. or.
"Kyô mo mata kakute ari nan” * con Teiji Takahashi, Yoshiko Kuga,
Kanzaburô Nakamura
IMDb 6,8
Ancora una volta Kinoshita non delude, neanche con questo film non
fra i suoi più famosi ed è incredibile come possa aver mantenuto
tali livelli pur dirigendone (e scrivendone le sceneggiature)
mediamente 2 ogni anno.
Come per “Farewell to Spring” visto ieri, anche in “Thus Another Day”
parte da alcuni protagonisti per poi coinvolgerne tanti altri con
varie storie in parte parallele e in altre intrecciate fra loro,
quasi come se non ci fosse una vera e propria trama principale. Da
una coppia non in sintonia con un figlio pestifero che vive poco
distante da Tokio, si cambia location e nel paesino in campagna
entrano in gioco vari personaggi nuovi e significativi fra i quali
anche vari yakuza. Per alcuni aspetti può sembrare quasi un noir,
per altri un dramma familiare, per altri ancora dramma della
solitudine.
Ben filmato in 2.35:1 e a colori, vanta anche una curata colonna
sonora, elemento al quale Kinoshita presta sempre una grande
attenzione.
358 “Jusqu'à la garde” (Xavier Legrand, Fra, 2017) tit. it.
"L'affido - Una storia di violenza” * con Léa Drucker, Denis
Ménochet, Thomas Gioria *
IMDb 7,6 RT 94% * Leone d’Argento e Premio Luigi De Laurentis per
Xavier Legrand, Nomination Leone d’Oro a Venezia
Film che ha ricevuto più che buone critiche e anche premi, ma
secondo me è un po' sopravvalutato. Mi sembra l'ennesimo film che
viene lodato più per il tema che affronta che per l’effettiva
qualità.
Si concentra su troppi pochi eventi, alcuni dei quali allungati
inutilmente e altri quasi fuori contesto, con l'eccezione
dell'iniziale confronto dei due genitori davanti al giudice. Questo
è indispensabile per chiarire la situazione di partenza, soluzione
che penso sia stata preferita al mostrare i fatti esposti per
lasciar liberi gli spettatori di credere a Miriam o Antoine, di
decidere chi dice il vero e chi il falso, chi esagera e chi
sminuisce.
In quanto al finale da thriller (nel complesso buono) mi restano
vari dubbi (ovviamente non riportabili per evitare spoiler) per un
paio di incongruenze e soprattutto per una frase che mi è sembrata
"equivoca". L’ho carpita dall’audio originale in francese, non
tradotta nei sottotitoli in spagnolo, ma se ho inteso bene sarebbe
molto significativa ... chissà se la prenderanno in considerazione
nel doppiaggio italiano. Se qualcuno guarderà questo film faccia
caso a ciò che dice il poliziotto alla radio, pochi secondi prima
dei titoli di coda.
Gli attori sono senz'altro bravi, il film nel complesso sufficiente
ma certamente non eccezionale.
357 “Farewell to Spring” (Keisuke Kinoshita, Jap, 1959) tit. or.
"Sekishuncho” “* con Keiji Sada, Ineko Arima, Masahiko Tsugawa
*
IMDb 6,5
Non lasciatevi ingannare dal relativamente basso rating di IMDb, "Sekishuncho”
è un ottimo film e non è per caso che si trova nella Criterion
Collection. Come scrissi qualche giorno fa in appendice ad un altro
suo film, Keisuke Kinoshita era uno dei quattro registi emergenti
(con Kurosawa, Kobayashi e Ichikawa) che miravano a modernizzare il
classico stile giapponese con un occhio ad un pubblico più giovanile
e questo è un esempio perfetto.
I protagonisti sono 5 ventenni amici da sempre che si ritrovano dopo
2 anni di lontananza dalla loro cittadina. Si inizia con i piacevoli
ricordi ma col passare dei giorni (i pochi della breve vacanza)
cominciano ad affiorare vari attriti per motivi familiari, economici
e amorosi. La sceneggiatura (dello stesso Kinoshita) non si limita a
proporre i rapporti fra i 5 ma è molto articolata e include tante
altre storie che coinvolgo numerosi loro famigliari.
La colonna sonora è molto moderna e particolare, nettamente distinta
dalla musica tradizionale, ma ci sono anche due rappresentazioni
della danza Byakkotai che si riferisce ad un evento storico del
1868. Questo viene tirato in ballo più volte nel corso del film e
varie scene si svolgono sul Monte Limori dove 19 giovani soldati
(“Tigri Bianche” = Byakkotai) si suicidarono pensando che il
castello del loro signore fosse stato preso e bruciato. L’onore (non
militare) è un elemento determinate del film in quanto questo si
conclude con le difficili decisioni che i 5 dovranno prendere per
risolvere una situazione che li vede divisi fra il salvare o
condannare uno di loro.
In conclusione: film ben girato e interpretato, di ritmo rapido e
avvincente, con musica moderna che non ti aspetti, risvolti
psicologici interessanti, danze che non appesantiscono la
narrazione. Senz’altro un film da guardare con attenzione.
Curiosità: la colonna/monumento in cima alla collina Limori proviene
da Pompei, inviata nel 1928 in Giappone da Mussolini, il quale era
rimasto molto colpito dalla storia del suicidio dei giovani.
356 Double Bill: 2 film sperimentali di Rubén Gámez
* “La fórmula secreta” (Rubén Gámez, Mex, 1965, 42’)
* “Magueyes” (Rubén Gámez, Mex, 1962, 9’)
Il primo e più famoso è un mediometraggio, al quale avevo già
accennato in occasione della micro-recensione di “En este pueblo no
hay ladrones” sottolineando che in ambienti cinefili è un vero e
proprio cult, anche perché di difficile reperimento, una vera
rarità. Perfino alla Cineteca Nacional Mexico il titolo non compare
nel catalogo della videoteca, ma avendo i giusti contatti e
facendone specifica richiesta per fini di studio sono riuscito ad
ottenere una visione.
“La fórmula secreta”, conosciuto anche con il titolo scelto in un
primo momento da Gámez “Coca-Cola en la sangre” o “Kokakola en la
sangre”, secondo me necessita di almeno 3 visioni prima di poter
iniziare a farsi un’idea di cosa sia esattamente, sempre che ciò
interessi. Immaginate il manifesto del surrealismo “Un chien andalou”
(Luis Buñuel, 1929) nel Messico degli anni ’60 ... i temi sono
tanti, alcune scene sono ricorrenti o ripetute similmente più volte,
altri oggetti o animali appaiono sullo schermo solo per pochi
secondi, ma senza dubbio anch’essi hanno il loro perché.
Come evidenziava chiaramente Alfonso Cuarón l’anno scorso a Lione
nel corso della presentazione della versione restaurata, questo film
verte sulla “messicanità”, indubbiamente contaminata dalle culture
straniere a cominciare da quella statunitense. La trasfusione (o
flebo che sia) di Coca Cola è il lampante messaggio iniziale,
l’inconfondibile sagoma della classica bottiglia appare più volte
come silhouette, la lista finale scritta con il gesso di compagnie e
marchi stranieri operanti in Messico, dai prodotti per l’igiene alle
auto, dalle banche alle linee aeree, enti quali ONU, Peace corps e
CIA, nomi di attori come Brigitte Bardot e Sinatra e luoghi
significativi come Hiroshima, mettono in risalto quanto sia forte il
condizionamento esterno.
Nel film non ci sono dialoghi, ma solo brani di Vivaldi (con le
immagini montate in perfetta sincronia), ordini gridati in una
lingua straniera, lettura di un testo in inglese da parte di un
bambino che chiaramente non lo conosce abbastanza, frasi in una
lingua incomprensibile, ma soprattutto ci sono i versi dello
scrittore Juan Rulfo, declamati da Jaime Sabines.
Per darvi un’idea della confusione (ovviamente solo apparente) delle
immagini, riporto un elenco molto parziale di ciò che si vede; pur
essendo relativamente dettagliato non penso si possa configurare
come uno spoiler in quanto non esiste una trama vera e propria, né
protagonisti. Eccolo:
riprese circolari dello Zocalo con la camera probabilmente montata
su una bici che continua a girare, flebo di Coca Cola, si caricano
sacchi di farina su un camion e poi anche un uomo inanimato che poi
diventa una donna e il facchino si accoppia sia con l’una che con
l’altro, inquadrature fisse di campesinos che guardano in camera
sullo sfondo di un paesaggio desertico, da una serie di preparazioni
di hot dog si segue una lunghissima sfilza di salsicce che passa
attraverso la città e infine viene usata come lenza alla quale
abboccano varie persone che quindi emergono da uno stagno (vedi
foto), vacche vere e non, tiro al bersaglio in una fiera con una
mitragliatrice, macellazione di una vacca con una coppia che si
bacia sullo sfondo, il giovane che ha macellato l’animale se ne
carica sulle spalle un quarto che poi diventa la donna, poi l’uomo e
ancora la donna, ...
C’è poi una lunga sequenza ambientata in un istituto religioso nella
quale le parti dei protagonisti si invertono: bambine vestite da
prima comunione su una giostra, vari preti in tonaca nera le
guardano, i preti vista dalla giostra che ruota, ragazzini in tonaca
nera giocano a pallone, altri penzolano mantenendosi con le mani sui
tubi di una struttura metallica, alcuni preti sulla giostra e le
ragazzine li guardano, una pallonata colpisce una tonaca e da sotto
escono dei pulcini, un prete incide la corteccia di un albero un
altro tenta di leggere senza riuscirvi, le bambine sono di nuovo
sulla giostra, i preti penzolano dai tubi mentre i ragazzini mordono
a sangue le loro mani e orecchie fino a farli cadere, i preti a
terra morti. Fra le varie scene compare più colte la scritta
“CENSURADO” su sfondo nero.
Si passa a vacche in un corral, entra un charro a cavallo, ne
atterra una con un lazo e le lega le zampe; un professionista (in
giacca, cravatta e con borsa) cammina velocemente su un marciapiede
in città mentre lo stesso charro a cavallo lo segue e lo sorveglia,
poi caccia il lazo, acchiappa l’uomo, lo lega e lo trascina.
Aggiungete alcune papere che compaiono per pochissimi secondi,
operai ingabbiati in strutture di tondini per calcestruzzo, polli
spennati appesi, rumorosi macchinari industriali, tutti di
fabbricazione straniera.
Sono sicuro di avervi convinto che una sola visione non basta.
Ho guardato anche “Magueyes”, molto più breve e anche di più facile
interpretazione, almeno in generale e nell’immediatezza. In Messico
maguey è il nome generico di tutti i tipi di agave, quindi sia di
quelle usate per produrre tequila e pulque (Agave tequilana), sia
quelle dalle quali si ottengono le fibre di sisal (Agave sisalana).
Sul ritmo delle note di Dimitri Shostakovich, Rubén Gámez monta
un’infinità di immagini di agavi, delle loro foglie, delle loro
punte che a volte trafiggono le altre, piante intere, filari ripresi
da tutte le distanze e da ogni angolo. Dopo questa “battaglia” fra
le foglie si vedono i resti delle piante morte e infine i nuovi
filari. Non c’è testo né didascalie, si tratta di un puro esercizio
sperimentale di montaggio che combina diversi tipi di inquadrature
con la musica. Questo lo trovate in rete su varie piattaforme.
Seppur di genere abbastanza diverso, mi sono molto piaciuti
entrambi, ma certamente dovrò approfondire la lettura di “La fórmula
secreta”.
Segnalo questo interessante
articolo-analisi relativo a "La fórmula secreta"
355 “Hasta el viento tiene miedo” (Carlos Enrique Taboada, Mex,
1967) * con Marga López, Maricruz Olivier, Alicia Bonet *
IMDb 7,6
Dopo l’ottimo “Rapiña” ho voluto guardare anche quest’altro film di
Taboada, giudicato uno dei suoi migliori e da molti anche il miglior
horror/fantasy messicano dell’epoca. In effetti in questo genere
Taboada ha prodotto vari film fra i quali anche un altro molto
conosciuto “El libro de piedra”.
Rispetto a quelli considerati classici, in “Hasta el viento tiene
miedo” non ci sono effetti speciali né mostri, tende più al giallo
con risvolti paranormali.
Interessante e ben costruito, si avvale anche della presenza della
famosa attrice messicana Marga Lopez nei panni della terribile
direttrice del collegio femminile, ma non è il mio genere ... ho
apprezzato molto di più il già citato “Rapiña”.
354 “Rapiña” (Carlos Enrique Taboada, Mex, 1973) * con Ignacio López
Tarso, Germán Robles, Norma Lazareno *
IMDb 7,5
Un film che non ti aspetti, una sceneggiatura (dello stesso Taboada)
che segue una progressione ben precisa. I due poverissimi boscaioli
che vivono al mergine del pueblo, dove comincia la foresta, sono
grandi amici e vanno a lavorare insieme, con i loro asini e le loro
asce. Anche le mogli sono in ottimi rapporti e i 4 si aiutano come
possono, condividendo il poco che posseggono.
Un giorno un avvenimento assolutamente inaspettato contagia con il
“virus dell’avidità” Porfidio (ottimamente interpretato da Ignacio
López Tarso), che a sua volta lo passa all’amico Evodio e neanche le
loro mogli ne sono immuni. Qualcuno ogni tanto solleva qualche
obiezione ma ben presto si adegua al pensiero comune. In un
drammatico crescendo saranno vari i morti lasciati sul terreno fino
alla resa dei conti nel deserto.
Un ottimo film del quale mi meraviglia non aver trovato remake,
essendo una perfetta descrizione delle debolezze umane di fronte
alla ricchezza improvvisa, adattabile ad ogni paese e cultura, in
ogni epoca. Ho solo letto che è annunciata in Messico una nuova
produzione con stessa sceneggiatura di Taboada, regia affidata a
Andres Martinez-Rios, protagonisti Gustavo Sánchez Parra e Harold
Torres.
Consiglio la visione di questo ottimo dramma; io l’ho guardato alla
Cineteca Nacional ma ho visto che è disponibile su YouTube almeno in
qualità 480p ... ovviamente in lingua originale.
353 “Fresa y chocolate” (T. G. Alea, Cuba, 1993) tit. it.
“Fragola e cioccolato” * con Jorge Perugorría, Vladimir Cruz, Mirta
Ibarra *
IMDb 7,5 RT 88% * Nomination Oscar miglior film non in lingua
inglese, 2 Premi e Nomination Orso d’Oro a Berlino
Senza dubbio il film di Tomás Gutiérrez Alea più conosciuto
all’estero, primato insidiato (forse) solo da “Mamorias del
subdesarrollo” sebbene per tutt’altri motivi.
“Fresa y chocolate” fornisce una visione molto particolare,
senz’altro sconosciuta ai più, degli ambienti universitari
dell’Havana di fine secolo scorso. I fermenti intellettuali, i
motivi della rivoluzione non più al passo con i tempi, il resistere
di preconcetti e limiti nei confronti degli omosessuali, sono fra
gli argomenti tirati in ballo dal regista cubano.
Ben diretto ed interpretato, conta anche sull’ottima e articolata
sceneggiatura di T. G. Alea e Senel Paz, adattamento del racconto di
quest’ultimo “El lobo, el bosque y el hombre nuevo” (Il lupo, il
bosco e l’uomo nuovo).
Più che consigliato.
352 “Museo” (Alonso Ruizpalacios, Mex, 2018) tit. it.
“Folle rapina a Città del Messico” * con Gael García Bernal, Simon
Russell Beale, Leonardo Ortizgris * IMDb 7,4 RT 85%
Orso d’Argento per la sceneggiatura, Nomination Orso d’Oro a Berlino
Sembra che sia l’anno dei film sui furti di opere d’arte ... dopo
“American Animals”, ecco “Museo” (distribuito in Italia con
l’ignobile fuorviante titolo “Folle rapina a Città del Messico”) che
propone una versione molto adattata del famoso furto (non rapina) di
oltre 100 pezzi pregiati dal Museo Nacional de Antropología (in
effetti museo archeologico) di Città del Messico, la notte di Natale
del 1985.
I fatti non andarono esattamente come descritto da Alonso
Ruizpalacios in quanto i reperti tornarono al museo solo dopo 3 anni
e mezzo e non dopo pochi giorni. Molto è stato aggiunto solo per far
scena e la scelta di far interpretare a Gael García Bernal (40enne)
uno dei due studenti di veterinaria (20enni) i è sembrata poco
opportuna.
Il film ha i suoi momenti buoni specialmente nelle scene familiari
nelle quali spicca Alfredo Castro, in qualche scena esterna e nelle
varie riprese con camera a spalla. I rapporti e i dialoghi fra i due
giovinastri rasentano il demenziale ma doveva pur essere vero che in
fondo tanto geniali non dovevano essere.
Un film appena sufficiente che si lascia guardare per l’interessante
soggetto (vero nell’essenza), non vedo meriti tali da giustificare
l’Orso d’Argento per la sceneggiatura, me è pur vero che non so chi
fossero i contendenti.
351 “En este pueblo no hay ladrones” (Alberto Isaac, Mex, 1964) tit.
it. “In questo villaggio non ci sono ladri” * con Julián Pastor,
Rocío Sagaón, Graciela Enríquez , Luis Buñuel * IMDb 7,3
C’è tanta cultura, di cinema e non, dentro questo film.
Nel 1964 il Sindacato del Cinema messicano organizzò un concorso di
cinema sperimentale e Alberto Isaac e il critico cinematografico
Emilio García Riera decisero di adattare un racconto “En este pueblo
no hay ladrones” del loro amico Gabriel García Márquez, all'epoca
sconosciuto al grande pubblico. Il racconto era stato pubblicato
nella collezione “Los funerales de la Mamá Grande” (1962) e i tre
insieme stesero la sceneggiatura. Per la realizzazione riuscirono a
coinvolgere (a titolo gratuito) una quantità di amici artisti,
scrittori e cineasti. Ve ne cito alcuni, fra i più conosciuti:
Luis Buñuel - anticlericale dichiarato, partecipò a condizione di
avere il ruolo del prete ed è interprete di un lungo sermone.
Gabriel García Márquez - interpreta il bigliettaio del cinema
Arturo Ripstein - uno dei più stimati registi messicani, premiato
quest’anno a Venezia, avrebbe esordito come regista 2 anni dopo con
un adattamento di uno dei primi romanzi di Gabo: "Tiempo de morir"
Alfonso Arau - regista di “Come l'acqua per il cioccolato" (ma è
stato anche attore in oltre 40 film), è l’agente di commercio della
rissa finale
Emilio García Riera - critico cinematografico, co-sceneggiatore del
film, interpreta l’esperto di biliardo
Carlos Monsivais - attore, giornalista e scrittore, grande
collezionista. Nel Museo del Estanquillo vengono esposte a rotazione
e per temi centinaia di dipinti, fotografie, giochi, marionette,
modelli, album, calendari, manifesti, libri e memorabilia
provenienti dalla sua collezione personale(attualmente ci sono 2
piani interamente dedicati al cinema de la Epoca de Oro).
José Luis Cuevas e Juan Rulfo (scrittori e sceneggiatori) e Ernesto
García Cabral e Abel Quezada (famosi caricaturisti) interpretano gli
avventori del biliardo e giocatori di domino.
Il film fu girato in appena 3 settimane con un budget molto ridotto,
ma ottenne subito un buon successo. Per la cronaca, il concorso fu
vinto da Rubén Gámez con il mediometraggio (42’, da un’idea di Juan
Rulfo) “La fórmula secreta”, divenuta ben presto un cult pressoché
introvabile.
L’ambiente è di quelli preferiti da Gabo, pueblo più o meno
desolato, strade polverose e assolate, rapporti personali non sempre
facili, al quale aggiunge un evento al limite del surreale, in
questo caso qualcuno ruba il solo set di palle da biliardo (3, da
carambola) e per rimpiazzarle ci vogliono varie settimane e tanti
soldi ... il pueblo è sull’orlo della paralisi!
Si nota di certo il livello sperimentale, ma per i cinefili è un
film da non perdere ... e apprezzate il “Buñuel cura”! |