150 “Lolita” (Stanley Kubrick, USA, 1962) *
con James Mason, Shelley Winters, Sue Lyon, Peter Sellers
IMDb 7,6 RT 95% * Nomination Oscar a
Vladimir Nabokov per sceneggiatura non originale
Dopo aver guardato
l’ottimo documentario “Stanley Kubrick: A Life in Pictures”, ho
finalmente messo le mani anche su un’ottima copia (v.o.) di Lolita,
completando così la ridottissima filmografia (13 lungometraggi in 47
anni) di uno dei registi più particolari della seconda metà del
secolo scorso.
Come in tanti altri casi (11 su 13)
la sceneggiatura è basata sul discusso romanzo Nabokov, quello che
alla sua uscita nel 1952 suscitò tanto scalpore da essere bandito
negli Stati Uniti (dove ha luogo la storia e dove risiedeva fino al
1955. In effetti, non avendo letto il libro, sembra chiaro che molto
è stato omesso oltre al fatto (certo) che la dodicenne Lolita,
oggetto delle “attenzioni” del prof. Humbert (James Mason), nel film
diventa una quattordicenne, interpretata da una sedicenne ... ma ciò
evidentemente non bastò ad evitare la censura.
Girato in un ottimo bianco e nero in
un classico 1.66 : 1, non pesa assolutamente nonostante le due ore e
mezza, non solo per la sapiente regia (singolari le numerosissime
dissolvenze al nero) ma anche per la bravura degli interpreti.
Perfino la giovane esordiente Sue Lyon (che poi non ebbe una gran
carriera) non sfigura a confronto degli ottimi James Mason, Shelley
Winters e Peter Sellers, quest’ultimo stavolta in un ruolo
drammatico e da “trasformista”, molto lontano da quelli delle sue
commedie.
Come tutti i film di Kubrick, merita
un’attenta visione e, pur essendo superfluo ribadirlo, è di
tutt’altro livello rispetto al remake del 1997 diretto da Adrian
Lyne, con Jeremy Irons, Melanie Griffith e Dominique Swain.
149 “Kikujiro” (Takeshi Kitano, Jap, 2006) tit. it.
“L’estate di Kikujiro” * con Takeshi Kitano, Yusuke Sekiguchi,
Kayoko Kishimoto * IMDb 7,8 RT 60% * Nomination Palma d’Oro a
Cannes
Film di Kitano mai sentito nominare
e certamente non fra i suoi più famosi. Lontanissimo dai yakuza,
violenza quasi dl tutto assente e i pochi casi non vengono mostrati.
Delicato, a tratti quasi poetico e a tratti onirico, narra delle
peripezie di un “bulletto poco-di-buono” (Kitano) che scorta e
assiste il piccolo Masao (Yusuke Sekiguchi) che vuole incontrare sua
madre che da anni vive lontano. In questa molto commedia / poco
dramma Kitano, anche in questa occasione sceneggiatore e
protagonista, sembra essere molto focalizzato sulla regia e porta a
termine un eccellente lavoro, solo con qualche sbavatura nella parte
finale. Ogni inquadratura è ben scelta e accuratamente montata,
anche quelle che appaiono solo per un paio di secondi. Non si può
parlare di citazioni, ma certamente sono evidenti tanti riferimenti
agli stili di Ozu e anche a quelli “geometrici” di Yoshida.
Ampiamente sottovalutato dal
pubblico che, evidentemente, si aspettava tutt’altro e forse il solo
nome Kitano ha tenuto lontani altri che avrebbero apprezzato il
film. Consigliato.
148 “Frozen” (Chris Buck e Jennifer Lee, USA, 2013) tit. it.
“Frozen - Il regno di ghiaccio” * animazione * IMDb 7,5 RT 85% * 2
Oscar (animazione e musica), probabilmente assegnati per mancanza di
seria concorrenza.
Le poche cose buon sembrano copiate,
i personaggi non sono certo fra quelli indimenticabili, la trama è
vista e rivista ... in varie salse ma sempre la stessa, quindi
prevedibile. Non ho colto alcuna possibilità di lettura "adulta"
(positiva caratteristica di tanti “cartoni animati” moderni) della
trama e le canzoni sono senz'altro troppe, in particolare nella
prima metà.
In conclusione un prodotto
certamente non all'altezza dei moderni film d'animazione.
147 “Una Mujer Fantástica” (Sebastián Lelio, Chi, 2017) tit. it.
“Una donna fantastica” * con Daniela Vega, Francisco Reyes, Luis
Gnecco * IMDb 7,3 RT 97% * Oscar miglior film in lingua non
inglese
In questo film, che pochi mesi fa ha
vinto l'Oscar come migliore in lingua non inglese, mi è sembrato di
notare una certa (forse troppa) influenza Larrainiana, e del resto
l'altro astro emergente del cinema cileno è produttore della
pellicola.
Avendo detto ciò, è facile intendere
che mi riferisco al ritmo lento, lunghi drammatici primi piani,
pochi dialoghi, tutto ben presentato nella sostanza ma non
abbastanza coinvolgente.
Le scene oniriche fanno peredere il
ritmo senza aggiungere molto, la protagonista, al di là dei suoi
problemi di relazione, in particolare con la famiglia del compagno,
sembra un po' troppo sprovveduta.
Comunque interessante e ben proposto
è il rapporto fra i protagonisti che, loro malgrado, devono
affrontare i pregiudizi e le maldicenze della gente. Insomma un film
con vari pro e contro che, a mio giudizio, ha sottratto l'Oscar a
Nelyubov (Loveless) di Zvyagintsev.
146 “Wind River” (Taylor Sheridan, USA, 2017) tit. it.
“I segreti di Wind River” * con Kelsey Asbille, Jeremy Renner, Julia
Jones * IMDb 7,8 RT 87% * premio Certain Regard - miglior regia e
2 Nomination a Cannes
Sceneggiatura un po' scontata,
certamente un passo indietro di Sheridan rispetto alle sue
precedenti (Sicario e Hell or high water), entrambe eccellenti ...
quanto avrà influito la sua decisione di cimentarsi anche (per la
prima volta) come regista?
Il breve "testo poetico" iniziale è
un po' stonato, la domanda conclusiva che appare sullo schermo con i
titoli di coda è molto di tendenza, direi ruffiana.
Renner è bravino ma non abbastanza
convincente, il quasi onnipresente (come caratterista di personaggi
di indiamii d’America) Graham Greene riesce a calarsi molto meglio
nel ruolo dello sceriffo, la appariscente (anche per precisa scelta
di Sheridan) Elizabeth Olsen è ignava ma a sua parziale discolpa
bisogna dire che è il suo personaggio ad essere assolutamente
insulso come buona parte della situazione.
Il film si regge quindi su una
discreta regia, sui bei paesaggi innevati, le corse in motoslitta,
spesso spericolate, e sulla caratterizzazione dei nativi americani,
la cui situazione attuale ed effettiva è sconosciuta ai più, almeno
per taluni aspetti.
Un film senz'altro sufficiente ma,
per il futuro, sarebbe forse opportuno che Sheridan optasse per la
sceneggiatura o per la regia. Questa prima prova di multitasking
risulta essere un po' deludente.
145 “Grandeur Nature” (Luis García Berlanga, Spa, 1974) tit. it.
“Life Size (Grandezza naturale)” * Michel Piccoli, Valentine Tessier,
Rada Rassimov * IMDb 6,8
Questo è il film “raro” (a detta di
vari blogger quasi introvabile), al quale ho accennato ieri
scrivendo dell’ottimo documentario su Kubrick.
Il titolo “Grandezza naturale” si
riferisce alle dimensioni di una bambola di poliuretano (non una
gonfiabile come riportato da più parti) che il un dentista parigino
di mezza età, agiato e borghese, pur avendo una moglie piacente e
varie amanti occasionali, si fa spedire dal Giappone.
Con il trepidante Michel Piccoli
(ottimo nell’interpretazione del dentista) che attende di sdoganare
il voluminoso pacco all’aeroporto di Orly (Parigi) Berlanga apre il
film, i titoli di testa verranno dopo. La sceneggiatura è firmata
dallo stesso regista insieme con il suo quasi inseparabile amico
Rafael Azcona (7 film insieme), per una co-produzione
italo-franco-spagnola girata in Francia in quanto la Spagna era
ancora sotto il regime del Generalisimo Franco (el Caudillo) ed era
difficile aggirare la censura. Considerati gli autori non ci si
poteva aspettare altro che una comedia negra dai risvolti grotteschi
con un soggetto al limite del surreale. Il film fu comunque
parzialmente censurato, pochi hanno avuto modo di guardare
l’originale di 101 minuti, ridotti poi a 89’ per la distribuzione in
DVD.
Non é certo fra i migliori di
Berlanga, forse proprio per essere troppo distante dalla
quotidianità spagnola che in precedenza aveva proposto nei suoi film
degli anni '60 con le velate critiche al franchismo che il censore
ignorò (volutamente o perché non colse i sottili e arguti
riferimenti?) ma non abbastanza da sfuggire agli spettatori attenti.
Non dico altro per evitare spoiler,
ma agli interessati
suggerisco la lettura di questo interessante articolo di vari
anni fa nel quale, oltre ad interessanti riferimenti, ci sono anche
vari accenni alla trama.
144 “Stanley Kubrick: A Life in Pictures” (documentario di Jan
Harlan, USA, 2001) * voce narrante: Tom Cruise * IMDb 8,0 RT 87%
https://discettazionierranti.blogspot.com/2018/05/stanley-kubrick-life-in-pictures-jan.html
142 “Cloudy with a Chance of Meatballs” (Phil Lord, Christopher
Miller, USA, 2009) ) tit. it. “Piovono polpette” * animazione * IMDb
7,0 RT 87%
143 “Arthur Christmas” (Sarah Smith,
Barry Cook, USA, 2011) tit. it.
“Il figlio di Babbo Natale” * animazione * IMDb 7,1 RT 94%
Seconda coppia di film di animazione
che, all’opposto dei due precedenti, hanno ambientazione
(pseudo)umana e le cui sceneggiature, secondo me, sono state
sottovalutate. Parlo delle sole sceneggiature in quanto,
oggettivamente, penso che le animazioni e i disegni della Sony non
possano competere con i lavori prodotti dalla Disney/Pixar.
Da una lettura “adulta” del primo si
potrebbero trarre tanti spunti di discussione in merito alla
(sovra)alimentazione in genere, ai “miti” gastronomici, all’eccesso
di junkfood in circolazione, alla pubblicità ingannevole, ai
programmi tv scadenti. Oltre a ciò, ci sono delle idee divertenti e
gag ben riuscite. Una grossa pecca della versione italiana è quella
di aver scelto un accento siciliano (unica caratterizzazione
regionale) per il padre del "piccolo genio" ... perché mai???
Nel complesso non male, ma
graficamente abbastanza dozzinale.
“Arthur Christmas” , da non
genitore, mi ha fatto riflettere su un punto fondamentale del film:
chi crede ancora a Babbo Natale? Certamente i più piccoli, ma fino a
che età? Inoltre, i “credenti” che hanno visto il film saranno
usciti dalla sala con maggiori convinzioni o in lacrime per aver
perso un mito?
Anche questo, come “Piovono
polpette” propone personaggi abbastanza originali e situazioni ben
trattate ed è egualmente carente in quanto alla grafica.
140 “Bambi” (James Algar, USA, 1942) * animazione
IMDb 7,3 RT 84% * 3 Nomination Oscar
141 “Finding Nemo” (Andrew Stanton,
USA, 2003) tit. it. “Alla ricerca di Nemo” * animazione
IMDb 8,1 RT 99% * Oscar miglior film
di animazione * attualmente al 166° posto nella classifica IMDb dei
migliori film di tutti i tempi
Dopo una serie di film drammatici,
mi sono dedicato all’animazione, con due film classici di 60 anni di
differenza.
Bambi, è il sesto lungometraggio
prodotto da Disney e segue alcuni altri grandi classici come
Biancaneve (1937, il primo), Fantasia e Dumbo. Nel film viene
proposta una buona rappresentazione del mondo del bosco (tipico del
Nord America), cogliendo alcune caratteristiche dei vari animali
senza scadere in caricature eccessive. Degli esseri umani si subisce
a tratti la presenza, ma non vengono mai disegnati.
Al contrario, Nemo si occupa
soprattutto del mondo marino (barriera corallina e oceano) e degli
uccelli che lo utilizzano per nutrirsi (soprattutto pellicani e
gabbiani) e, in questo caso, gli umani si vedono oltre a far sentire
la loro presenza come predatori. Date le diverse tecniche di
realizzazione e i gusti dei tempi, questo, oltre ai protagonisti
disegnati in modo molto più caricaturale, ha un ritmo molto più
veloce del precedente e approfitta dell’animazione molto più fluida
per rapidissime evoluzioni, i colori sono molto più vivi e
contrastati. Comparando i soggetti, entrambi iniziano con i
protagonisti neonati e poi ne seguono la crescita fra mille
pericoli, nei confronti dei quali gli amorevoli genitori li mettono
in guardia, ovviamente inascoltati.
Da entrambe, chi vuole, può ricavare
i soliti evidenti insegnamenti morali, così come quelli più sottili
come il fatto che non tutti quelli che sembrano cattivi lo sono
veramente, un molto superficiale approccio alla struttura della
catena alimentare e così via.
In Nemo c’è da notare la
partecipazione di due famosi attori come Willem Dafoe (Gill, il
Moorish idol che pianifica evasioni) e Geoffrey Rush (il pellicano
Nigel).
Entrambe i film hanno fatto epoca e
per questo meritano una visione, indipendentemente dai loro reali
meriti.
139 “Mudbound” (Dee Rees, USA, 2017) * con Garrett Hedlund, Carey
Mulligan, Jason Clarke, Mary J. Blige * IMDb 7,5 RT 96% * 4
Nomination Oscar (Mary J. Blige non protagonista,
sceneggiatura,fotografia, musica originale)
Dopo aver recuperato altri due
nominati agli Oscar 2018 fra i film non in lingua inglese e in
attesa di guardare il vincitore in tale categoria (Una mujer
fantastica), ho visto questo “Mudbound” che, nonostante le 4
Nomination e buone recensioni, mi ha parzialmente deluso (forse
proprio in quanto avevo grandi aspettative). Ho il forte sospetto
che rientri in quella categoria di film che hanno un certo successo
un po’ per il tema e molto per il momento nel quale vengono
distribuiti. Mi riferisco al fatto che sia un film molto “al
femminile”, la regista Dee Rees è infatti anche coautrice della
sceneggiatura (insieme con Virgil Williams) tratta dal romanzo
omonimo della scrittrice Hillary Jordan. Anche la fotografia è
diretta da una donna (Rachel Morrison) e la co-protagonista Mary J.
Blige è una famosissima cantautrice (non per niente soprannominata
“The Queen of Hip-Hop Soul” e “The Queen of R&B”) che per questo
film ha ottenuto ben due Nomination.
Quote da IMDb: “Mary J. Blige becomes the first African American
woman to receive multiple Oscar nominations in the same year.
Additionally, she becomes the first person to be nominated in both a
music category and an acting category in the same year. She also
becomes the first African American actress to be directed to an
Oscar nomination by a female African American director.”
Tornando al film, mi è sembrato in gran parte una storia vista e
rivista, per di più abbastanza edulcorata durante la maggior parte
del film, per poi esplodere con la violenza finale. I flashback dei
due reduci sono molto approssimativi e la descrizione dell’ambiente
cittadino mi è parsa molto superficiale. Al contrario, la fotografia
è veramente di ottimo livello così come alcune interpretazioni.
In sostanza un buon film, ma
sopravvalutato.
138 “Loveless” (Andrey Zvyagintsev, Rus, 2017) tit. or.
“Nelyubov“ * con Maryana Spivak, Aleksey Rozin, Matvey Novikov *
IMDb 7,7 RT 97% * Nomination Oscar miglior film in lingua non
inglese
Dopo Leviathan, questo è il secondo
film Zvyagintsev che guardo (il più recente dei suoi 5
lungometraggi, degli ultimi tre anche sceneggiatore) e ho trovato di
nuovo una rappresentazione molto critica di alcuni aspetti della
società russa moderna che, nella sua troppo rapida
occidentalizzazione, esalta problemi e difetti riscontrabili quasi
dovunque anche se in modo meno evidente.
La coppia in fase di disgregazione e
le due che contemporaneamente iniziano il loro percorso (ma sembra
di intravedere che anche queste non abbiano grandi speranze di lunga
durata) sono in vero centro dell’ottima sceneggiatura, e non il
figlio dodicenne della coppia che, appunto, viene quasi totalmente
ignorato. Sembra che i suddetti 4 protagonisti, e chi sta loro
intorno, siano solo interessati ad “apparire”, avere il lusso alla
loro portata, inseguire effimeri piaceri, ognuno per la sua strada,
secondo la logica del “miglior” egoismo. Selfie e smartphone sono
onnipresenti, comunicazione fra le persone quasi assente, l’unico
momento del film nel quale i genitori del bambino hanno una reazione
emotiva è nel corso della loro visita all’obitorio.
Di contro, nel contorno, spicca la
figura della madre di lei (russa di altri tempi) e del gruppo di
volontari che si dedicano alla ricerca delle persone scomparse con
maniacale precisione ed efficienza, disinteressatamente. Questo è
forse l’unico messaggio positivo del film che invece è molto critico
nei confronti di certi ambienti lavorativi, l’atavica ingerenza
della religione (in questo caso ortodossa), l’inefficienza della
polizia, la mancanza di “amicizia” anche fra i ragazzi, insomma una
società che tende all’opulenza, ma anche alla disgregazione.
Visto lo stile cupo e lento eppure
preciso e analitico di Zvyagintsev, considerata la storia
rappresentata nel precedente “Leviathan” e dopo aver letto i
soggetti dei suoi precedenti 3 film non meraviglia sapere che i suoi
registi preferiti siano Ingmar Bergman, Robert Bresson, Andrei
Tarkovsky, Otar Iosseliani e, primo fra tutti, Michelangelo
Antonioni.
137 “L’insulte” (Ziad Doueiri, Lib/Fra, 2017) tit. it. “L’insulto” *
con Adel Karam, Kamel El Basha, Camille Salameh
Finalmente sono riuscito a
recuperare 3 dei candidati all’Oscar come miglior film in lingua non
inglese (fra i quali il vincitore “Una mujer fantastica”) ed anche
Mudbound. Comincio con questo film (quarto in 20 anni) del libanese
Ziad Doueiri, che da anni vive e lavora fra Francia e USA, del quale
è stato co-sceneggiatore. Come tutti sanno (o almeno dovrebbero
sapere) la situazione del Vicino e Medio Oriente è estremamente
caotica e di difficile comprensione in quanto ai conflitti politici
si sommano quelli razziali e religiosi, fortemente radicati. In
questo ambiente si svolge questa storia che, iniziata con un insulto
(una sola parola), monta in un’escalation inarrestabile rischiando
di approdare ad una guerra civile. Infatti, i due "contendenti" sono
un libanese cristiano e un palestinese islamico rifugiato in Libano,
ed ciascuno è appoggiato dalla propria comunità.
Senza dubbio è molto ben realizzato
e ben interpretato, con alcune situazioni e dialoghi che mi hanno
ricordato i lavori del pluripremiato iraniano Farhadi, tuttavia mi
sembra che si perda un po’ nel finale.
Comunque merita una visione non solo
per la buona qualità, ma anche perché offre la possibilità di
conoscere alcuni aspetti sociali (che pochi conoscono) dei paesi che
si affacciano sul Mediterraneo orientale.
IMDb 7,8 RT 91% * Nomination Oscar
miglior film in lingua non inglese
136 “Chicago” (Rob Marshall, USA, 2002) * con Renée Zellweger,
Catherine Zeta-Jones, Richard Gere, Queen Latifah e John C. Reilly
* IMDb 7,2 RT 88%
Uno dei tanti film “in arretrato”,
per essermelo perso all’epoca.
Peccato per la partecipazione di
Richard Gere il quale, oltre alla presenza e ammesso che
effettivamente piaccia alle donne, non ha quasi niente dell’attore
essendo più o meno incapace. Ottime le musiche e l’impianto scenico
con doppia ambientazione (pregevole soprattutto quella
teatro/carcere). Brave le due prime donne e Queen Latifah e John C.
Reilly fra i “rincalzi”. non per niente tutti e quattro ottennero la
Nomination (4 attori da uno stesso film penso sia un record) anche
se solo Catherine Zeta-Jones vinse la sua statuetta.
Sul lato negativo, ho trovato un po’
troppo lunghi vari pezzi musicali, spesso ben oltre i 3 minuti il
che, in un film, è tanto. Inoltre, in più punti il montaggio mi è
sembrato troppo rapido e confuso.
Piacevole visione, perfetta per
passare quasi due ore fra musica e belle scene ben fotografate.
6 Oscar (Miglior film, Catherine
Zeta-Jones non protagonista, scenografia, costumi, montaggio,
sonoro) e altre 7 Nomination (Renée Zellweger protagonista, Queen
Latifah e John C. Reilly non protagonista, regia, sceneggiatura,
fotografia, canzone)
135 “Nosotros los nobles” (Gary Alazraki, Mex, 2013) * con Gonzalo
Vega, Luis Gerardo Méndez, Karla Souza * IMDb 7,4 RT 100%
Discreto, ma deludente e spiego
perché.
Il soggetto film è quasi un remake
di “El gran calavera” (1949), secondo film di Buñuel in Messico con
un ottimo Fernando Soler che (si dice) fu co-regista, dopo Gran
Casino (1947) con due stelle dell’epoca Jorge Negrete e Libertad
Lamarque. Anche la scelta del titolo strizza l’occhio alla Epoca de
Oro del Cine Mexicano, in quanto “Nosotros lo pobres” (1948, di
Ismael Rodríguez, con Pedro Infante) fu uno dei film di cassetta
del’epoca e si trova al 27° posto fra i migliori film messicani.
Se non fosse per questi obbligatori
paragoni con lavori di 70 anni fa, sarebbe una commedia più che
decente che, senza volgarità, riesce a divertire e a mettere il dito
in varie piaghe della vita moderna, specialmente dei giovani figli
di papà. E ho appena appreso che “Belli di papà” (2015, di Guido
Chiesa, con Abbatantuono) ne è il remake italiano.
Nella modernizzazione della storia
ci sono personaggi ben delineati (come il socio del magnate), ma si
perdono i rapporti familiari (nell’originale i maggiori “vampiri
succhiasoldi” sono fratello e cognata).
“Nosotros los nobles” è stato
campione di incassi assoluto in Messico, raddoppiando il precedente
record che durava da ben 11 anni.
134 “The Birth of a Nation” (Nate Parker, USA, 2016) * con Nate
Parker, Armie Hammer, Penelope Ann Miller * IMDb 6,4 RT 72%
Non mi aspettavo molto, ma l’ho
trovato peggiore del previsto. Seppur ispirato ad un evento reale,
l’ho trovato didascalico, ripetitivo e pieno di situazioni viste e
riviste, oltretutto in mano a registi migliori e con buoni
interpreti.
Ho ritrovato l’improponibile Armie
Hammer e di nuovo mi sono chiesto perché lo paghino per “recitare”
... mi sembra assolutamente incapace. Forse piace ad un certo
pubblico femminile?
Nate Parker si dimostra essere
estremamente presuntuoso per voler essere sceneggiatore regista e
protagonista, senza averne le capacità.
In pratica film “inutile” ed
assolutamente evitabile.
133 “C'era un padre” (Yasujirô Ozu, Jap, 2013) tit. or. “Chichi
ariki” * con Chishû Ryû, Shûji Sano, Shin Saburi * IMDb 7,8 RT 100%
Ennesimo ottimo film di Ozu con
protagonista Chishû Ryû (appena citato per la sua breve apparizione
in “Barbarossa” di Kurosawa, 1965) che descrive il rapporto di un
padre (vedovo) con il suo unico figlio, nell’arco di una ventina di
anni.
Solita ottima interpretazione di Ryû
nei panni del padre molto considerato, che si (pre)occupa seriamente
del figlio senza assolutamente viziarlo, pensando soprattutto alla
sua educazione e al suo futuro professionale. Ancora una volta Ozu,
pur avendo una sceneggiatura apparentemente incosistente fra le
mani, affascina lo spettatore con il suo inconfondibile stile
preciso e ben ritmato, con inquadrature sempre curate, geometriche
quelle degli interni, i suoi famosi tatami shot, i campi lunghi in
esterno con l'azione che si svolge longitudinalmente o con elementi
(persone o macchine) che attraversano lo schermo da un lato
all'altro. Mi meravigliava l'assenza dei panni stesi ad asciugare
sulle canne di bambù, ma poch iminuti prima della fine sono apparsi
anche loro (quasi un marchio di fabbrica)..
Storia delicata non solo nel
rapporto padre/figlio ma anche fra professore e studenti e fra
colleghi di insegnamento.
132 “Leaves from Satan's Book” (Carl Th.
Dreyer, Dan, 1918-21) tit. it. “Pagine dal libro di Satana” * con
Helge Nissen, Halvard Hoff, Jacob Texiere * IMDb 6,8
Si tratta di un film in 4 parti,
girate nell’arco di più anni, quasi una risposta scandinava a
“Intolerance” di Griffith che notoriamente ispirò il regista danese.
Tuttavia la scelta e la rappresentazione di episodi famosi e di
situazioni ben note non sono a livello dell’omologo americano. Le
parti sono ben separate e vengono narrate in ordine cronologico
avendo come punto in comune, oltre al tema, Helge Nissen che
rappresenta le rispettive incarnazioni di Satana.
Qui si apre con la passione di Gesù,
per passare poi all’Inquisizione, alla Rivoluzione Francese e, come
parte conclusive e contemporanea, alla guerra russo-finlandese del
1918.
Tuttavia, spiccano la grande tecnica
di Dreyer, le scene spesso brevissime e il montaggio serrato che
dimostrano ancora una volta come il vero cinema abbia bisogno
soprattutto di immagini, messe insieme con una buona grammatica e
sintassi.
I cinefili dovrebbero guardarlo, con
attenzione.
131 “Barbarossa” (Akira Kurosawa, Jap, 1965) tit. or.
“Akahige” * con Toshirô Mifune, Yûzô Kayama, Tsutomu Yamazaki *
IMDb 8,3 RT 77%
Non è fra i più conosciuti di
Kurosawa e, pur svolgendosi un paio di secoli fa, non è un film
epico e non ci sono samurai, al contrario l’intera azione si svolge
all’interno di un ospedale pubblico e nelle sue immediate vicinanze.
Toshirô Mifune è il direttore/”primario” della struttura che
accoglie poveri e malati terminali e fornisce assistenza anche per i
casi di emergenza ... gratuitamente. Nonostante il suo carattere
burbero e dispotico, mostra nel corso del film una grande umanità e
deontologia, qualità che mancavano al giovane medico di grandi
speranze inviato dopo aver terminato i suoi studi a Nagasaki contro
la sua volontà e che alla fine si dovrà ricredere. Nelle 3 ore del
film Kurosawa ha modo di raccontare e far racontare le storie di
vari personaggi, tutti ben descritti e risalendo anche alle cause
delle loro tragiche situazioni.
Nella sceneggiatura da c’è tanta
morale valida ancora oggi e alla quale il mondo sanitario dovrebbe
prestare molta più attenzione.
Sulla regia non si discute e si
apprezza anche l’ottima interpretazione di Mifune negli inusuali
panni del saggio medico invece che in quelli di uno sempre pronto ad
usare le armi con maestria da samurai. Verso la fine, seppur
brevemente, appare anche Chishû Ryû, uno dei più famosi e longevi
attori giapponesi (227 film in 64 anni) protagonista di tanti film
di Ozu (oltre 30).
Nomination Golden Globe e Leone
d’Oro a Venezia, dove Kurosawa ottenne comunque 2 premi e Mifune fu
premiato come miglior attore.
130 “La reina de España” (Fernando Trueba, Spa, 2016) * con Penélope
Cruz, Antonio Resines, Neus Asensi, Santiago Segura, Arturo Ripstein,
Chino Darín * IMDb 5,2 RT 29%
A metà strada fra commedia e critica
al franchismo, sequel di un film di una ventina di anni fa, con 8
personaggi ancora presenti (7 medesimi attori), riesce a proporre
poche scene decenti sostenute quasi esclusivamente da buoni
caratteristi di decennale esperienza, mentre il resto è da
dimenticare. Dialoghi sconclusionati, scenografie mal realizzate,
regia scadente, ma soprattutto il ridicolo finale con il battibecco
fra la diva spagnola trasferitasi in America Macarena Granada
(Penelope Cruz) e il Caudillo in persona, Francisco Franco
(interpretato da Carlos Areces).
Sembra che tutti quelli che avevano
visto il precedente “La Niña de tus Ojos” (1998) siano rimasti
“scandalizzati” dalla pochezza di questa continuazione della storia,
che pur tratta dello stesso tema (franchismo e cinema) con gli
stessi personaggi.
Penso che, soprattutto, si sia
sentita la mancanza della penna di Rafael Azcona (morto nel 2008)
nella sceneggiatura.
Singolare cast internazionale che,
oltre ai “ripetenti” spagnoli, include l’americano Mandy Patinkin,
l’ottimo regista messicano Arturo Ripstein, il neozelandese Clive
Revill nei panni del decrepito regista alcolizzato, l’argentino
Chino Darín (figlio di Ricardo) e l’inglese Cary Elwes.
Evitabile senza rimpianti né
scrupoli.
129 “Jungle Book” (Zoltan Korda, USA, 1942) tit. or. “Il Libro della
Jungla “ * con Sabu, Joseph Calleia, John Qualen * IMDb 6,8 RT 50%
* 4 Nomination Oscar
Secondo film tratto dai racconti del
“Libro della Jungla di Kipling”; nei panni di Mowgli c’è lo stesso
Sabu che esordì nel primo, “The Elephant Boy” (1937, co-diretto da
Zoltan Korda). Considerata l'epoca, apprezzabili riprese a colori di
animali veri (in particolare i felini) mentre altri come i serpenti
e il coccodrillo sono di livello veramente scadente. Imponente la
ricostruzione della città perduta, buono l'incendio, più che
dignitose le interpretazioni con il perfido Buldeo interpretato dal
maltese Joseph Calleia, attore dal volto inconfondibile
specializzato nei ruoli di “cattivo” o almeno di personaggi molto
equivoci. Apprezzato pochi giorni fa nei panni dell'ambiguo Monte
Marquez in “Four Faces West”, ricordo che partecipò ad altri famosi
film quali “Algiers” (1938, John Cromwell), “Gilda” (1946, Charles
Vidor) e “A Touch of Evil” (1958, Orson Welles).
Nel complesso è un buon film
d'avventura d'epoca, diretto da Zoltan Korda e prodotto da suo
fratello Alexander.
128 “Las hijas de abril” (Michel Franco, Mex, 2017) * con Emma
Suárez, Ana Valeria Becerril, Enrique Arrizon * IMDb 6,8 RT 60%
Alcuni registi (probabilmente i
produttori) hanno corsie preferenziali in determinati festival ...
penso che Michel Franco sia uno di questi essendo
autore/regista/produttore dei suoi film.
Ha scritto, diretto e prodotto i
suoi 5 film e quattro di essi sono stati proposti a Cannes,
ottenendo 3 premi e altre 4 nomination.
Mi dà l’idea che il giovane
messicano deve aver avuto una gioventù traumatizzante seppur in
qualche modo piacevole e agiata. I suoi due film che ho visto si
sviluppano in ambienti borghesi, in famiglie disgregate senza
problemi economici, fra alcol e sesso anche fra minorenni e relative
maternità, abbandoni e talvolta violenza. Anche gli altri film
tendono al deprimente e ho appena letto questo commento (che
condivido) "Franco dovrebbe cambiare registro, sta scendendo sempre
più in basso".
In questo film mette insieme una
madre (separata) con due figlie (non dello stesso padre) più o meno
abbandonate a sé stesse nella villa di famiglia al mare. Aggiungendo
padri assolutamente disinteressati della sorte dei figli, una
gravidanza, la quasi totale mancanza di senso comune (e in vari casi
anche di un minimo di morale) per quasi tutti i protagonisti,
egoismo, cinismo e una certa dose di stupidità e non ci si poteva
aspettare altro che un risultato scadente.
Tuttavia - misteri delle Giurie dei
Festival - ha ottenuto il premio speciale “Un Certain Regard” a
Cannes, dove era stato già premiato nel 2012 per “Después de Lucía”
e nel 2015 per “Chronic”. In Italia è stato proiettato al Festival
di Giffoni ma non ho notizie in merito alla distribuzione.
Onestamente, non ve lo consiglio,
anche se non è proprio da buttar via.
127 “The Caretaker” (Clive Donner, UK, 1963) titolo USA “The Guest”
* con Donald Pleasence, Alan Bates, Robert Shaw * MDb 7,3 * Orso
d'Argento e Nomination Orso d'Oro a Berlino 1963
Film che mostra chiaramente la sua
origine teatrale, con i suoi soli 3 personaggi, protagonisti di
questo dramma di Harold Pinter (Nobel per la letteratura nel 2005).
Questo fu il suo primo lavoro adattato per il cinema e nello stesso
anno scrisse la sceneggiatura di un altro ottimo film (almeno così è
generalmente giudicato) quale “The Servant”, diretto da Joseph Losey,
con Dirk Bogarde e Sarah Miles.
Fra i tre, emerge nettamente Donald
Pleasence, ma per la sua eccezionale bravura in questa occasionee
non certo per demerito di Alan Bates e Robert Shaw che si calano
bene nei rispettivi personaggi.
Sembra che non sia uscito in Italia,
tuttavia si trova in rete anche su YouTube in una decente versione
originale, un buon 480p.
Consigliato
NB - Le foto che appaiono in alto
sul poster sono quelle di alcuni degli attori che hanno finanziato
il film, ma che non compaiono in esso se non fra i nomi elencati nei
titoli di testa e sono: Richard Burton, Elizabeth Taylor, Leslie
Caron, Peter Sellers, Noel Coward. In effetti, per loro fu ben poca
cosa visto che il budget fu di soli 30.000 dollari.
126 “The Florida Project” (Sean Baker, USA, 2017) tit. it.
“Un sogno chiamato Florida“ * con Brooklynn Prince, Bria Vinaite,
Willem Dafoe * IMDb 7,7 RT 100% * Nomination Oscar per Willem
Dafoe non protagonista
Come mi aspettavo, mi è molto
piaciuto. Per alcuni versi mi ha ricordato il precedente film di
Sean Baker (Tangerine), soprattutto per la piacevole e sapiente
alternanza fra primi piani, camera a mano e campi lunghi, questi
ultimi spesso molto colorati approfittando sia degli edifici sia
delle riprese al crepuscolo come nel succitato “Tangerine”, con ogni
tonalità di rosa, violetti e arancioni.
Altra scelta apprezzabile sono le
riprese dal basso, da altezza bambino; non sono certo i tatami shot
di Ozu, ma potrebbero senz’altro definirsi kid shot.
Baker, co-autore della
sceneggiatura, ci fornisce un nuovo spaccato di un'America diversa,
quella che pochi conoscono, ma che esiste ancora, in qualunque
stato, da New York a Chicago, dalla Florida di questo film, alla Los
Angeles di Tangerine.
Anche stavolta l'ambiente umano è
vario e molto ben descritto, e l'amicizia e solidarietà la fanno da
padrone fra persone che (soprav)vivono al margine della società in
modo spesso non del tutto legale, ma certamente non criminale.
Bravi tutti gli attori, con Willem
Dafoe (Nomination come miglior attore non protagonista) su tutti fra
gli adulti e la piccola iperattiva, indisponente, incontrollabile
Moonie interpretata da Brooklynn Prince (11 premi e altre 15
nomination per questo film) che, penso, rivedremo presto sullo
schermo.
Dopo aver ascoltato poche battute
dal trailer, penso con terrore al (consueto) disastro del doppiaggio
dei bambini nella versione italiana, ma non è che quello di Willem
Dafoe e degli altri adulti sia migliore. Peccato che i nostri
connazionali non si riescano a convincere dei vantaggi delle v. o. e
di quanto si perda nel doppiaggio, specialmente se mal realizzato!
A mio modesto parere, è un ottimo
film sia per il tema che per come è stato realizzato ed è
un'ulteriore dimostrazione (se mai ce ne fosse bisogno) che si
possono produrre film di questo livello con budget modesti, senza
grandi attori superpagati (soldi che spesso non meritano) e senza
costosi effetti speciali.
125 “Akitsu Springs” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1962) tit. or.
“Akitsu onsen “ * con Mariko Okada, Hiroyuki Nagato, Sô Yamamura *
IMDb 7,7
Altro film di “transizione” di
Yoshishige Yoshida prima di giungere allo splendido stile espresso
nelle sue pellicole della seconda metà degli anni ’60 come A Story
Written with Water (1965), Eros+Massacre (1969) e Heroic Purgatory
(1970).
Questo Akitsu Springs, tratto da un
noto romanzo e girato a colori, mi è sembrata quasi una prova
fallita considerato quanto Yoshida ha saputo dimostrare con il
bianco e nero e con storie non melodrammatiche.
Comunque resta un buon film.
124 “Good For Nothing” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1960) tit. or.
“Rokudenashi “ * con Hizuru Takachiho, Masahiko Tsugawa, Yûsuke
Kawazu * IMDb 7,2
Primo film diretto da Yoshishige
Yoshida, molto sullo stile della Nouvelle Vague francese, e con un
finale incredibilmente simile a quello di “À bout de souffle (1960,
Jean-Luc Godard). Però, a quanto ho letto, fu l’attore che, avendo
visto poco prima il famoso film francese, propose di attuare in modo
quasi identico la corsa del protagonista, colpito a morte, in una
strada assolata e poco deserta del centro.
Al di là di questa particolarità, in
questo esordio non si nota la ricerca maniacale dell’inquadratura
perfetta, con immagini di solito tagliate la linee rette, incluse in
forme geometriche, che sono le caratteristiche di Yoshida che mi
hanno affascinato in vari dei suoi film successivi. In “Good For
Nothing” c’è invece molta più attenzione alla storia e ai
personaggi; non c’è ancora un netto distacco dal cinema classico
giapponese.
Comunque si tratta di un buon film
che vale la pena guardare, specialmente se lo si vede come anello di
congiunzione fra la cinematografia degli anni ’40 e ’50 con quella
di avanguardia.
123 “Four Faces West” (Alfred E. Green, USA, 1948) tit. it.
“Le quattro facce del West “ * con Joel McCrea, Frances Dee, Charles
Bickford * IMDb 7,1
Insolito western, senza neanche un
colpo di pistola o di fucile, anche se più volte c’è qualcuno sul
punto di sparare.
Joel McCrea veste i panni di un
rapinatore di banca “onesto” e dovrà vedersela nientemeno che con un
marshall mito del west: Pat Garret. Non poteva mancare la parte
romantica con un’infermiera appena giunta nel selvaggio west, la
quale tenta disperatamente di redimere il rapinatore inseguito da
Garret, posse e bounty killer vari. Completa il quadro generale un
ambiguo messicano molto singolare Monte Marquez (Joseph Calleia),
biscazziere, proprietario di saloon e baro, con un numero
incredibile di parenti ...
Molto originale, buona
sceneggiatura, ben realizzato.
122 “Su última aventura” (Gilberto Martínez Solares, Mex, 1946) tit.
it. “Il cancello del paradiso “ * con Arturo de Córdova, Esther
Fernández, Arturo Soto Rangel * IMDb 7,0
Classica commedia de la Epoca de Oro
del Cine Mexicano, con un giovane Arturo de Córdova nel ruolo del
protagonista.
Garbata e piena di buoni sentimenti,
anche se la maggior parte dei personaggi fanno partre di una banda
criminale.
Poco altro da aggiungere, piacevole
ma non memorabile.
Come spesso accade, non si intendono
i motivi del cambio del titolo per la versione italiana.
121 “La vie d'Adèle” (Abdellatif Kechiche, Fra, 2013) tit. it. “La
vita di Adele“ * con Léa Seydoux, Adèle Exarchopoulos, Salim
Kechiouche * IMDb 7,8 RT 90%
Non sapevo molto di questo film se
non che godeva di buona critica e che aveva ottenuto premi a Cannes
2013 e Nomination ai Golden Globes 2014.
Dopo essermi sorbito le tre ore di
questa storia mal raccontata che poteva essere condensata in non più
di due ore, mi è ovviamente tornato alla mente l’altra recente
delusione di “Chiamami col tuo nome”, per certi versi una versione
al maschile (gay) di questa femminile (lesbian).
Di “Blue Is the Warmest Color”
(questo il titolo internazionale) mi è piaciuto poco o niente. Se la
storia può avere un suo senso, per altro abbastanza banale, la
realizzazione mi è sembrata molto scadente. Ognuno dei tanti
dialoghi è trattato allo stesso modo: infiniti campo e controcampo
di primi piani. In quanto ai tempi, Kechiche salta con grande
indifferenza anni interi senza dire niente dell’evoluzione dei
personaggi. Forse molti di quelli che hanno lodato il film hanno
apprezzato l’ardire di affrontare un tema pressappoco tabù o sono
rimasti irretiti, come dei veri voyeur, dalle quasi esplicite scene
di sesso, innecessariamente allungate.
Al di là delle scene di
innamoramento e amore, il film è composto di situazioni ripetute
come i viaggi di Adele in bus, le cene in famiglia, Adele che sogna,
Adele e i bambini, un paio di feste ... tutti duplicati da cui
deriva l’esagerata durata e il cui apporto alla storia è pressoché
insignificante.
La delusione è stata ancora maggiore
(ma questa è stata una sfortuna per il film) in quanto venivo dalla
visione di mezza dozzina di film giapponesi d’autore, 5 dei quali
con eccellente fotografia in bianco e nero, regia curata,
interessanti contenuti (seppur alcuni molto inusuali) e buone
interpretazioni.
Li rivedrei tutti, anche a breve, ma
non penso di concedere una seconda visione a “La vie d'Adèle”.
C’è cinema e cinema ...
120 “Fuochi nella pianura” (Kon Ichikawa, Jap, 1959) tit. or. “Nobi”
* con Eiji Funakoshi, Mantarô Ushio, Yoshihiro Hamaguchi * IMDb 8,0
RT 100%
Ottimo dramma sull’insensatezza
delle guerre e delle loro terribili conseguenze anche in mancanza di
scontri diretti. I protagonisti sono soldati sbandati giapponesi sul
fronte filippino nel 1945 che vagano senza sapere dove andare, né
cosa fare e soprattutto avendo niente da mangiare.
Il personaggio principale è il
soldato Tamura, inviato dal suo caporeparto in ospedale non tanto
per farlo curare quanto per dover provvedere a sfamare un uomo in
meno; per lo stesso motivo viene rifiutato dall’ospedale per non
stare abbastanza male. Sopravvive insieme ad altri mangiando patate
dolci (yam) crude e poco altro, e per questo scarso cibo e un po’ di
sale i soldati si affrontano e perfino si uccidono.
Viene giudicato uno dei migliori
film bellici “critici”, in quanto mette a nudo la vita e le
sensazioni di soldati abbandonati a sé stessi, in un paese
straniero, senza sapere esattamente per cosa stanno combattendo, se
non per la propria sopravvivenza.
Pur non comprendendo scene
particolarmente cruente riesce a colpire, ad essere “un pugno nello
stomaco”, senza dover ricorrere alle ormai inflazionate scene
sanguinolente dei film moderni (p.e. “Hacksaw Ridge”).
Il regista Kon Ichikawa si era già
imposto all’attenzione mondiale con “L’arpa birmana” (1956),
candidato all’Oscar quale miglior film non in lingua inglese e
vincitore di 3 premi a Venezia che in questo caso praticamente
equivalsero al Leone d’Oro che quell’anno non fu assegnato.
Ottima fotografia bianco e nero di
Setsuo Kobayashi, che potete apprezzare anche in rete, dove si trova
la versione HD720p.
Anche per questo, come per i
precedenti, non posso che consigliarne la visione.
119 “L'isola nuda” (Kaneto Shindô, Jap, 1960) tit. or. “Hadaka no
shima” * con Nobuko Otowa, Taiji Tonoyama, Shinji Tanaka * IMDb
8,3 RT 100%
Famoso film Kaneto Shindô, che
precede di pochi anni i suoi film più famosi, vale a dire “Onibaba”
(1964) e “Kuroneko” (1968). La grande particolarità di “The Naked
Island” (tit. internazionale) è l’assoluta assenza di dialoghi;
oltre al commento musicale di Hikaru Hayashi, ciò che si sente è
solo qualche voce nel villaggio e lo sciabordio dell’acqua mossa
dalla barca e dal remo che la spinge nei continui viaggi fra
l’aridissima isola e l’approvvigionamento dell’indispensabile acqua.
Questa non serve solo per la routine quotidiana (cucina e igiene)
della piccola famiglia costituita da una coppia con due ragazzini,
ma anche e soprattutto per irrigare le ordinate terrazze nelle quali
i protagonisti a costo di enormi sacrifici coltivano verdure, loro
unica fonte di guadagno.
Seppur drammatica, “Hadaka no shima”
è una opera cinematografica estremamente “poetica”; lo stesso Kaneto
Shindô (non solo regista, ma anche unico sceneggiatore del film)
dichiarò che la sua idea era quella di realizzare un “cinematic poem”
nel tentativo di catturare la vita di persone che, come formiche,
combattevano contro le forze della natura.
Ovviamente consigliato, ma solo ai
veri amanti del cinema ... quelli che apprezzano i film nei quali le
immagini comunicano molto di più delle parole.
118 “Heroic Purgatory” (Yoshishige Yoshida, Jap, 1970) tit. or.
“Rengoku eroica” * con Mariko Okada, Kaizo Kamoda, Naho Kimura *
IMDb 7,4
Dopo aver apprezzato moltissimo la
tecnica di Yoshida in “A Story Written with Water” (1965) e
“Eros+Massacre” (1969), eccomi al suo terzo film che guardo, terza
meraviglia di cinematografia.
Per la verità, in questo caso la
trama un po' troppo contorta e misteriosa, seppur “filosoficamente”
avvincente, distrae dalla bellezza delle immagini. Infatti, fra
attenzione ai dialoghi che corrono sul filo fra bugia e verità,
storie di spie, paternità non certe, cellule rivoluzionarie e
possibili attentati e, non da ultimo, la lettura degli
indispensabili sottotitoli, si rischia di perdere un po' della
concentrazione per apprezzare appieno le inquadrature, quasi tutte
eccezionali composizioni di fotografia artistica moderna. Sto
prendendo in considerazione una ulteriore visione eliminando del
tutto il sonoro per concentrarmi unicamente sulle riprese.
Della particolare “grammatica
filmica” di Yoshishige Yoshida già parlai nella micro-recensione di
“Eros+Massacre”. (rec. 18/84)
Assolutamente consigliato e, a chi
non lo volesse guardare per intero o non potesse per motivi
linguistici, suggerisco di saltellare almeno nei file presenti su
YouTube per rendersi conto delle mille maniere nelle quali il
regista riesce a creare partizioni dello schermo, a posizionare le
scene o i soggetti in un angolo o a proporre primi piani di volti
tanto spostati in un lato da apparire tagliati a metà verticalmente.
Assolutamente imperdibile, non tanto
per la storia quanto per lo stile e la composizione delle immagini.
117 “Black
Lizard” (Kinji Fukasaku, Jap, 1968) tit. or.
“Kuro tokage” * con Akihiro Miwa, Isao Kimura, Kikko Matsuoka *
IMDb 7,1
Potrebbe sembrare un comune
noir-poliziesco giapponese, senz’altro kitsch, che fa il verso allo
stile di Sherlock Holmes, tuttavia in patria è quasi un cult. Ma a
questo c’è un perché, anzi più di uno.
Akihiro Miwa (aka Akihiro Maruyama,
nato Shingo Maruyama) è stato un noto e apprezzato cantante, attore,
regista, compositore e scrittore, gay dichiarato e anche famoso
nelle vesti di drag queen. Nel film interpreta la protagonista
“Black Lizard”, cantante e proprietaria di locale notturno, perfida
criminale e feticista. La sceneggiatura è tratta dall’omonimo
romanzo di Ranpo Edogawa (noto autore di polizieschi) e dal
successivo adattamento teatrale dell’ancor più famoso Yukio Mishima
(scrittore, saggista, drammaturgo e poeta, addirittura in odore di
candidatura al Nobel per la letteratura), all’epoca amante di
Akihiro Miwa che del film compose le musiche. Ulteriore notorietà al
film fu apportata dal seppuku (classico suicidio giapponese per
sventramento facente parte del codice d’onore dei samurai, al quale
segue la decapitazione da parte di un “assistente”) di Yukio Mishima,
nazionalista convinto, al termine di un lungo discorso dal tetto di
un edificio pubblico (comando militare) che aveva occupato con 4
suoi compagni nazionalisti.
Penso che queste poche notizie
possano dare l’idea dei motivi del successo del film, in particolare
fra gli amanti del kitsch, camp, pulp e poliziesco.
Nella sostanza è un giallo che
procede in bilico fra rapimenti e ricatti, fra eventi poco credibili
e abili manovre di depistaggio, al limite della commedia di
“classe”.
In considerazione di quanto detto e
per conoscere un aspetto differente e certamente meno noto della
cinematografia giapponese merita senz’altro una visione.
115 “Osaka Elegy” (Kenji Mizoguchi, Jap, 1936) tit. or. “Naniwa
erejî” * con Isuzu Yamada, Seiichi Takegawa, Chiyoko Ôkura * IMDb
7,4
116 “The only son” (Yasujirô Ozu,
Jap, 1936) tit. or.
“Hitori musuko” * con Chôko Iida, Shin'ichi Himori, Masao Hayama *
IMDb 7,9
Due film coevi di due maestri del
cinema classico giapponese: Kenji Mizoguchi e Yasujirô Ozu.
Il primo è l'ennesima trattazione di
una storia avente una donna come protagonista realizzata da
Mizoguchi, che iniziò nel 1920 la sua carriera cinematografica come
attore e 3 anni dopo divenne un prolifico e apprezzato regista
dirigendo una cinquantina di muti prima del suo primo parlato nel
1930. Fu sempre attento alla condizione delle donne nella società
giapponese tanto da essere qualificato come il più femminista e
molti imputano ciò al pessimo rapporto con il padre violento sia con
la madre del regista che con la sorella maggiore, che poi “vendette”
come geisha a causa delle ristrettezze economiche. E fu proprio la
sorella che gli pagò gli studi e lo aiutò a trovare i primi lavori
in campo artistico. In un certo senso “Osaka Elegy” può essere visto
come parzialmente autobiografico in quanto è una giovane impiegata
che diventa amante di un dirigente per evitare il carcere al padre e
per far terminare gli studi universitari al fratello.
Alcuni di detti temi sono anche al
centro di “The only son” in una storia ricca di significato, valida
in qualunque epoca, nella quale una madre, già vedova ed in precarie
condizioni economiche, “rinuncia” anche all’appoggio e compagnia del
figlio investendo i pochissimi soldi nell'educazione del figlio con
la speranza di spianargli la strada verso un futuro migliore.
Si tratta del suo primo film sonoro
in quanto stranamente, a differenza di tanti altri registi
giapponesi e pur essendo attivo, direi prolifico, fin dal 1927,
diresse una trentina di film muti prima di questo. Comunque, è già
possibile notare il suo inconfondibile stile con tante riprese dal
quasi dal livello del suolo (per questo note come “tatami shot”),
esterni con inquadrature panoramiche fisse utilizzate come pausa, la
mania dei panni stesi mossi dal vento, ...
Fra i due registi preferisco
senz’altro Ozu per il suo stile peculiare e per le narrazioni
esemplari di ambienti familiare, pieni di umanità. Certamente
apprezzo moltissimo anche Mizoguchi che con, seppur con stile
diverso narra storie più “dure” talvolta al limite del noir oltre a
quelle incentrate sulla condizione femminile ... e in vari casi i
due generi vanno a braccetto.
114 “La viuda de Montiel” (Miguel
Littin, Mex/Col, 1979) * con Geraldine Chaplin, Nelson Villagra,
Katy Jurado * IMDb 6,6
Sceneggiatura tratta da un racconto
di Gabriel García Márquez (Gabo), facente parte di una raccolta
pubblicata con titolo "Los funerales de la Mamá Grande” nel 1962.
Questo film di Littin è il secondo della decina di lavori di Gabo
adattati per il grande schermo. Probabilmente pochi sanno della
grande passione per il cinema di Márquez che nel 1954 scrisse e
diresse lo short “La langosta azul” (1954, 29’), sua prima e unica
regia, per poi continuare la sua collaborazione con la settima arte
con tante sceneggiature originali e una dozzina di adattamenti dei
suoi scritti.
Gabo fu buon amico di Littin tanto
da scrivere in prima persona delle peregrinazioni e riprese
“abusive” del regista in Cile dove rientrò nel 1985 riuscendo a
girare 7.000m di pellicola spacciandosi per documentarista
uruguayano, dopo essere stato costretto all’esilio dal regime di
Pinochet nel 1973. Detto libro è stato pubblicato anche in Italia
con titolo “Le avventure di Miguel Littin, clandestino in Cile”. Il
libro fu pubblicato in Cile nel 1986 e quasi immediatamente
censurato e, per ordine diretto del dittatore Pinochet, nel febbraio
1987 ne furono bruciate 15.000 copie.
Venendo al film, c’è da dire che non
è dei migliori di Littin ma non tanto per colpa sua ma per la
difficoltà di portare sullo schermo le storie di Márquez, il quale
scriveva in modo da calare il lettore nella realtà di piccoli
paesini assolati e polverosi, con tanti personaggi ben descritti,
fra parti oniriche e quasi surreali, nel complesso impossibili da
tradurre in un film di meno di due ore. In particolare questo ha
anche la “palla al piede” di avere Geraldine Chaplin come
protagonista. Con tutto il rispetto per il padre (che comunque non è
fra i miei preferiti né come attore, né come regista) mi sembra
un’attrice assolutamente incapace e in questo caso le manca anche il
physique du rôle; solo Carlos Saura (con il quale ebbe una lunga
relazione) riuscì a trarne qualcosa di buono nei suoi migliori film
come “Ana y los lobos” (1973), “Cría cuervos” (1976) e “Elisa vida
mia” (1977).
In sostanza, a dispetto dei buoni
presupposti, “La viuda de Montiel” si rivela essere un film
deludente, un’occasione mancata.
113 “The Virgin Suicides” (Sofia Coppola, USA, 1999) tit. it. “Il
giardino delle vergini suicide“ * con Kirsten Dunst, Josh Hartnett,
James Woods * IMDb 7,2 RT 76%
Pur essendo al suo esordio alla
regia, Sofia Coppola mostra di saper dirigere più che bene e il
fatto di essere cresciuta in ambiente cinematografico e di essere
figlia di cotanto padre certamente l’ha aiutata, ma altrettanto
certamente ci mette del suo considerato che tanti altri figli d’arte
sono quasi del tutto incapaci.
Ovviamente, mi ha riportato alla
mente il recente “Mustang” (Nomination Oscar 2016come miglior film
in lingua non inglese) della turca Deniz Gamze Ergüven, che a questo
film si era dichiaratamente ispirata anche se ben lungi da essere un
remake per epoca, ambiente sociale e situazione sostanzialmente
diversa.
Se da un lato ho apprezzato la regia
per quanto riguarda ritmo e inquadrature, mi è sembrato eccessivo
l’uso della voce fuori campo del narratore e, soprattutto, ho
trovato molto debole la sceneggiatura, della quale Sofia Coppola è
corresponsabile insieme con Jeffrey Eugenides. autore dell’omonimo
romanzo su cui è basata.
Nel complesso senza infamia e senza
lodi, i pregi più o meno compensano i difetti.
112 “Ready Player One” (Steven Spielberg, USA, 2018) * con Tye
Sheridan, Olivia Cooke, Ben Mendelsohn * IMDb 8,0 RT 76%
Con qualche titubanza, dopo essermi
sorbito il più o meno inutile “Black Panther”, sono andato a
guardare anche “Ready Player One”, più che altro attratto dalla
regia di Spielberg e nonostante qualche recensione non troppo
promettente scritta da chi, come me, non si è mai sentito attratto
dai videogiochi e di essi ne sa poco o niente. Da questo punto di
vista scrivo il mio usuale breve commento, ben conscio di essermi
perso citazioni, personaggi e altro relativo al mondo virtuale.
Nonostante ciò ho molto gradito la lunga citazione riferita a “The
Shining” con la quale Spielberg ha reso omaggio a Kubrick
ricostruendo minuziosamente una serie di ambienti, personaggi ed
eventi del film.
Per il resto, pur essendo riuscito a
cogliere solo minima parte di quanto certamente il
regista-sceneggiatore ha inserito in questo suo prodotto, devo dire
che il film è piacevole e le due ore e passa scorrono velocemente.
Le interpretazioni dei pochi attori non sono certo da Oscar, ma poco
conta in quanto per la maggior parte del tempo si seguono le imprese
dei loro avatar impegnati in gare, sfide mortali, distruzioni,
acquisizione o perdita di capitali virtuali, battaglie di massa e
chi più ne ha più ne metta, tutto proposto senza mai soffermarsi più
di tanto su determinate scene o situazioni e “con un certo garbo”.
Le fantasia di Spielberg, unita a quella dei creatori di
videogiochi, e un ottimo montaggio fanno il resto.
Infine, non manca la morale, non
solo riproponendo qualcuno dei primi famosi videogiochi e mettendoli
a confronto con i moderni, ma anche ricordando che non si dovrebbero
mai abbandonare le relazioni umane e il piacere della compagnia dei
coetanei reali e non dei loro avatar.
Mi concedo una divagazione ... se
siete minimamente d’accordo con rivalutazione dei giochi di vari
decenni fa, vi segnalo che ho appena reso disponibile la versione
eBook (III ed., gratuita) di un mio
breve saggio sui giochi di strada.
111 “Ginger & Fred” (Federico Fellini, Ita, 1986) * con Marcello
Mastroianni, Giulietta Masina, Franco Fabrizi * IMDb 7,3 RT 82%
Esagerato nella prima metà, con
troppi personaggi tipicamente “felliniani” riuniti per una
trasmissione televisiva come se fossero tanti fenomeni da baraccone,
tanti i volti visti in film di serie B, C e peggiori, e in uno
sketch pubblicitario appare anche Moana Pozzi! La seconda parte è
tutt’altra cosa e i due primi attori dimostrano tutto il loro
talento, che sarebbe stato comunque evidente anche se fossero stati
attorniati da un cast migliore.
Si possono seguire due tracce
distinte, quella nostalgica dei due vecchi artisti del varietà che
tornano sul palcoscenico più che altro per incontrarsi di nuovo dopo
vari decenni, e quella di critica asperrima nei confronti dei
programmi televisivi ed in particolare di quegli show raffazzonati
nei quali si mischiano sacro e profano, finta cultura e cronaca
(giudiziaria, mondana e scandalistica), personaggi praticamente
insani e improbabili sosia, ... a quanto sento e leggo, dopo oltre
30 anni poco è cambiato.
Un Fellini a due facce, che si
sviluppa fra un tipico ambiente “circo felliniano” e la sottile
storia sentimentale fra Ginger (Masina) e Fred (Mastroianni).
Pur se molti non lo annoverano fra i
migliori film del regista, merita senz’altro una visione.
110 “Tombstone” (George P. Cosmatos, USA, 1993) * con Kurt Russell,
Val Kilmer, Sam Elliott * IMDb 7,3 RT 82%
Uno dei più deludenti western
“moderni”, senz’altro il peggiore in quanto a realizzazione fra
quelli che hanno trattato del leggendario Wyatt Earp (e fratelli) e
del suo amico Doc Holliday. Pur essendo forse uno dei più fedeli
alla sequenza degli avvenimenti e ai ruoli dei vari personaggi, la
spettacolarizzazione forzata di ciascun evento è la sua vera palla
al piede.
Wyatt Earp era già stato mitizzato
anche sul grande schermo da film che badavano più a realizzare un
buon prodotto che alla veridicità dei fatti; alcuni di essi sono
pietre miliari del genere western, diretti da grandi registi e
interpretati dai migliori attori dell’epoca, per esempio:
- Sfida infernale, 1946 di John
Ford, con Henry Fonda;
- Wichita, 1955, di Jacques Tourneur,
con Joel McCrea;
- Sfida all'O.K. Corral, 1957, di
John Sturges, con Burt Lancaster;
- Il grande sentiero, 1964, di John
Ford, con James Stewart.
Al contrario, il regista di questo “Tombstone”,
George P. Cosmatos, oggettivamente non sa dirigere (questo sarebbe
il migliore dei suoi 10film; fra quelli noti ma non certo buoni,
conta Cassandra Crossing, Rambo II, Cobra, Leviathan), il cast non
ha nessuna eccellenza, le interpretazioni sono sotto la media, i set
sono troppo artefatti e una buona fotografia non basta a salvare il
film.
109 “Ocean's Eleven” (Steven Soderbergh, USA, 1986) * con George
Clooney, Brad Pitt, Matt Damon, Julia Roberts, Elliot Gould, Andy
Garcia, Casey Affleck, Carl Reiner, Don Cheadle e molti cameo * IMDb
7,8 RT 82%
Conosciutissimo film d’azione, del
genere “il furto perfetto”. Tanta tecnologia, tempi studiati alla
perfezione, un po’ di fortuna che fa superare gli imprevisti, un
nutrito gruppo di professionisti del crimine, ognuno con la sua
specialità. Grazie anche al cast “stellare”, “Ocean's Eleven” è
piacevole anche se, come quasi tutti di questo tipo di film,
assolutamente poco plausibile.
Imperdibile per gli appassionati del
genere, semplice distrazione per gli altri.
Il film è un remake di “Ocean's 11”
(con numero e non in lettere, del 1960) anche quello con grandi nomi
di Hollywood: Frank Sinatra, Dean Martin, Sammy Davis Jr., Peter
Lawford, Angie Dickinson.
Vi ricordo che seguirono “Ocean's
Twelve” (2004) e “Ocean's Thirteen” (2007) e che fra pochi mesi
uscirà “Ocean's 8” ma questo con tutt’altro cast (Sandra Bullock,
Cate Blanchett, Anne Hathaway) e solo prodotto da Soderbergh che ha
affidato la regia a Gary Ross.
108 “Ragtime” (Milos Forman, USA, 1986) * con James Cagney,
Elizabeth McGovern, Howard E. Rollins Jr.
* IMDb 7,3 RT 82%
Film che all’epoca fece parlare di
sé per i temi affrontati (seppur con molta superficialità) mettendo
insieme razzismo, violenza insulsa della polizia, “persecuzione”
degli afroamericani che rispondono con spropositata violenza,
corruzione del sistema e altro. In effetti non prende le parti di
nessuno in particolare e può essere vista come una emblematica
storia di escalation di un confronto nato per futili, per quanto
deprecabili, motivi.
Il film è chiaramente ben diretto da
un Milos Forman, affidabile come sempre, nel suo periodo di auge,
“Ragtime” segue “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (1975) e “Hair”
(1979) e precede “”Amadeus” (1984), per il primo e l’ultimo di
questo quartetto ottenne l’Oscar per la regia.
Il capo della polizia è interpretato
dall’allora 82enne James Cagney, che torna sullo schermo dopo ben 20
anni di assenza (Uno, due, tre!, 1961, di Billy Wilder) e questo fu
il suo ultimo film. A parte la buona interpretazione dell’esordiente
(per il cinema) Howard E. Rollins Jr., nel resto del cast non si
notano grandi interpretazioni, solo oneste prove di attori e
caratteristi più o meno noti (non me ne voglia Elizabeth McGovern
che, come Rollins, fu candidata all’Oscar come non protagonista.
A tratti piacevole, in altri punti
un po’ noioso, nel complesso poco credibile, senz’altro troppo
lungo.
Non vinse nessun Oscar nonostante le
8 Nomination: Howard E. Rollins Jr. e Elizabeth McGovern non
protagonisti, sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi,
canzone, commento musicale originale.
107 “Black Panther” (Ryan Coogler, USA, 2018) * con Daniel Kaluuya,
Chadwick Boseman, Michael B. Jordan, Lupita Nyong'o * IMDb 7,8 RT
97%
Di tanto in tanto mi "immolo"
avventurandomi nella visione di acclamati film sci-fi con tanta CGI.
Non posso certo dire che sia un cattivo film (nel suo genere) ma
ancora una volta non sono riuscito a capire l'entusiasmo di tanti
per una storia sostanzialmente simile a tante altre già viste, senza
effetti speciali veramente innovativi, e con i soliti morti che
resuscitano, scontri fisici ridicoli e ripetitivi, città
futuristiche con mezzi di trasporto velocissimi fra alte strutture,
storie d'amore più o meno patetiche e, in questo caso, anche
considerazioni pseudo morali e razziali.
Per fortuna si è trattato di una
visione tardo-pomeridiana altrimenti avrei rischiato di
addormentarmi.
Questo è il terzo film di Ryan
Coogler, avevo apprezzato di più il suo precedente "Creed" (2015),
con il ritorno di Stallone.
106 “The Rainmaker” (Francis Ford Coppola, USA, 1997) tit. it.
“L'uomo della pioggia” * con Matt Damon, Danny DeVito, Claire Danes,
Jon Voight, Mickey Rourke, Dean Stockwell, Roy Scheider, Danny
Glover * IMDb 7,1 RT 83% * Golden Globe a Jon Voight come non
protagonista
Ennesimo film che mi era sfuggito
all'epoca, un Coppola "minore" ma pur sempre un Coppola.
Sceneggiatura adattata da un
bestseller di Grisham che tuttavia per parecchi aspetti è abbastanza
scontato.
Con le mie solite “coincidenze”,
ritrovo quasi protagonista Claire Danes che ieri interpretava la
figlia di Meryl Streep in “The Hours”; si è ben difesa in entrambe i
casi.
Meritato il Golden Globe a Jon
Voight che, non essendo un grande attore, offre una delle sue poche
buone interpretazioni, seppur in un ruolo secondario. I tempi in cui
fece scalpore all’inizio di carriera con “Midnight Cowboy” (Un uomo
da marciapiede, 1969, John Schlesinger) sono comunque lontani.
Film nettamente sopra la media, ma
non certo memorabile.
Ovviamente non ha niente a che
vedere con l’omonimo film di Joseph Anthony (1956, con Burt
Lancaster, Katharine Hepburn - Nomination Oscar) in quanto il
romanzo di Grisham è del 1995
105 “The Hours” (Stephen Daldry, USA/UK, 2002) * con Nicole Kidman,
Meryl Streep, Julianne Moore, Ed Harris, Stephen Dillane, Allison
Janney, Claire Danes * IMDb 7,6 RT 80%
Oscar Nicole Kidman, e altre 8
Nomination (miglior film, regia, Ed Harris protagonista, Julianne
Moore non protagonista, sceneggiatura, montaggio, costumi, musica
originale.
Ottimo cast e, soprattutto ottime
interpretazioni (non sempre una cosa porta all’altra) per questo
film drammatico un po’ contorto ma di eccellente qualità. Si seguono
infatti tre vicende interlacciate, con vari tipi di legami e
relazioni fra i personaggi, pur svolgendosi in luoghi e tempi
diversi (1923-41, 1951 e 2001). Lo spettro della morte che aleggia
in ognuna delle storie è un altro punto fondamentale in comune.
Nicole Kidman (che per questa sua
interpretazione della scrittrice Virginia Woolf ottenne l’Oscar come
protagonista) appare quasi irriconoscibile, non tanto per
l’acconciatura dei capelli quanto per un naso posticcio. Fra le
curiosità proposte da IMDb ho letto che, mantenendolo anche fuori
del set, riusciva addirittura ad ingannare i paparazzi.
Senz’altro consigliata la visione,
ma non per chi è depresso ...
104 “Blood and sand” (Rouben Mamoulian, USA, 1941) tit. it.
“Sangue e arena” * con Tyrone Power, Rita Hayworth, Linda Darnell,
Anthony Quinn e John Carradine * IMDb 7,0 RT 100%
Oscar per la fotografia (colore),
Nomination per la scenografia
Famoso remake del muto del 1922 con
Rudolph (Rodolfo) Valentino, Rosa Rosanova e Nita Naldi, tratto dal
romanzo di Vicente Blasco Ibáñez, pieno di stereotipi non
strettamente necessari, che ebbe fama soprattutto per le due star
protagoniste: Tyrone Power e Rita Hayworth (entrambi noti sex symbol
dell'epoca, ma pessimi attori). Di contro, il cast di supporto è di
gran lunga migliore e, insieme alla quasi protagonista Linda Darnell,
si distinguono i "giovani" Anthony Quinn e John Carradine oltre a
Laird Cregar perfetto nei panni del giornalista taurino Curro.
Quest’ultimo promettentissimo attore, prematuramente scomparso a
soli 30 anni, interpretava spesso personaggi di età molto maggiore
della sua, come in questo caso.
Nel complesso mi è sembrata una
messa in scena di qualità abbastanza scadente seppur molto
appariscente, con mire chiaramente economiche più che artistiche, e
nell'inevitabile confronto con la versione precedente, che aveva
ovvi limiti di tecnologia ed era in bianco e nero, risulta perdente.
Rouben Mamoulian, di origini russe,
è regista poco noto, con relativamente pochi film all’attivo (18 in
30 anni), pochi riconoscimenti in vita (varie presenze al Festival
di Venezia negli anni ’30, 2 premi), ma è stato “riscoperto” negli
anni ’80 ricevendo vari premi alla carriera e nel 2016 il suo film
d’esordio, "Applause" (1929), fu una delle “Best Redicoveries”
dell’associazione dei critici di Boston.
103 “I Heart Huckabees” (David O. Russell, USA, 2004) tit. it.
“Le strane coincidenze della vita” * con Jason Schwartzman, Jude Law,
Naomi Watts, Dustin Hoffman, Lily Tomlin * IMDb 6,7 RT 62%
David O. Russell ha diretto film di
gran lunga migliori di questo e con cast molto più convincenti, in
particolare l’ottima serie dei tre film successivi a “I Heart
Huckabees”: The Fighter (2010, 2 Oscar + 5 Nomination), Silver
Linings Playbook (2012, 1 Oscar + 7 Nomination), American Hustler
(2012, 10 Nomination, ma nessun Oscar). Evidentemente la pausa di 6
anni gli ha fatto bene, perché non c’è paragone fra i tre succitati
(per i quali ottenne 5 Nomination personali, 3 per la regia e 2 per
la sceneggiatura) e il disastroso “Le strane coincidenze della vita”
nel quale perfino attori con una certa reputazione riescono a
fornire prove di scarso livello.
Personalmente, ho trovato la
sceneggiatura veramente stupida e andando poi a guardare perché ha
rating sopra la sufficienza, ho scoperto che è uno di quei film
troppo elogiati (molto al di sopra dei propri meriti) o denigrati
senza appello ... non ci sono quasi vie di mezzo.
Una commedia poco divertente (quasi
per niente), interpretazioni sopra le righe tendenti al pessimo,
assolutamente sconclusionata.
Anche se mi sembra superfluo
ribadirlo, non ne consiglio la visione, sarebbe una pura perdita di
tempo.
102 “Sunshine” (Danny Boyle, UK/USA, 2007) * con Cillian Murphy,
Rose Byrne, Chris Evans * IMDb 7,3 RT 76%
Interessante e insolito film di
fantascienza, basato più sulle reazioni umane di un ristretto gruppo
di scienziati che impegnati in una missione “solare”.
I rapporti fra loro sono spesso tesi
ed è anche comprensibile considerato il lungo viaggio (vari anni) e
i rischi connessi. Però, dopo quasi un’ora e mezza di avvenimenti e
situazioni interessanti, gli ultimi 10 minuti li ho trovati forzati,
stiracchiati, mal proposti, poco credibili. Per la verità ci
sarebbero anche altri dubbi in merito alla “scientificità” di quanto
proposto, ma è un film di fantascienza e (quasi) tutto è permesso.
Cast decente, ma non sempre
convincente, in particolare Cillian Murphy, con quello sguardo
“spiritato” che lo distingue da chiunque altro, mi è sembrato più
inespressivo del solito.
Buon lavoro di Danny Boyle, film
senz’altro sufficiente, ma certamente non memorabile.
101 “El abrazo partido” (Daniel Burman, Arg, 2004) tit. it.
“L’abbraccio perduto” * con Daniel Hendler, Adriana Aizemberg, Jorge
D'Elía * IMDb 7,0 RT 90%
Ulteriore soddisfacente scoperta nel
campo della filmografia argentina che, come ripeto spesso, ha
un’ottima tradizione e continua a produrre film interessanti, seppur
in numero limitato, parimenti all’altra grande tradizione
cinematografica all’estremo opposto dell’America Latina, vale a dire
il Messico. Non a caso alla Berlinale 2004 ottenne 2 Silver Bear (Jury
Grand Prix a Daniel Burman e miglior attore Daniel Hendler) nonché
la Nomination all’Orso d’Oro.
Genere indefinibile ... sicuramente
abbastanza commedia, ma non del tutto drammatica e neache negra,
affronta temi seri come l’abbandono, il dramma di non aver
conosciuto il proprio padre (fuggito all’estero), la fuga dalla
Polonia invasa dai nazisti (vari dei protagonisti sono ebrei
polacchi), l’immigrazione “moderna” con coreani, russi e peruviani,
tutti con l’acuto amaro sarcasmo tipico della cultura latina.
Ottimi tutti i componenti del cast,
assolutamente credibili, sembra che siano sé stessi vista la
disinvoltura e la genuinità delle interpretazioni.
Dopo i pregi, ecco qualche limite
del pur molto piacevole “El abrazo partido”. Trovo che ci sia un uso
eccessivo di primi piani che però potrebbero essere giustificati
dalla mancanza di scenografia e di set, oltre che (probabilmente) da
un budget ridotto. Apparentemente il film è girato tutto con camera
a mano (o almeno in gran parte), quasi come quelli prodotti secondo
i dettami DOGMA. L’ottimo montaggio non sopperisce tuttavia alla
sovrabbondanza di primi piani. Oltre a ciò, l’introduzione al
singolare ambiente di un piccolo centro commerciale di vecchia data
(alcuni negozianti sono lì da 30 anni) è un po’ troppo lunga. Fino a
poco oltre la mezz’ora sembra di assistere ad una comune decente
commedia con tanti personaggi ben caratterizzati, ma da quel punto
in poi il film prende ritmo e sostanza, gli eventi diventano
sostanziali e non solo descrittivi, tutti significativi, ci sono
varie “perle” (per esempio quelle della nonna “cantante” o della
gara fra “facchini”) e continua così veramente fino all’ultimo, con
ulteriori brevi scene inserite nei titoli di coda e l’ultimissima
inquadratura (geniale) immediatamente prima del cartello “FIN”.
Si tratta di una coproduzione
Argentina-Francia-Italia-Spagna, IMDb riporta l’uscita in Italia nel
2004, potreste trovare la versione italiana. Quella che ho visto è
una v.o. in HD, con sottotitoli in inglese trovata In rete.
Ne consiglio la visione, qualunque
versione riusciate a trovare. |